Una replica a Marco Tarchi
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La questione della destra: la foresta
o gli alberi?
Stupisce e dispiace scoprire come nell’analisi di Marco Tarchi, apparsa
sul “Foglio a proposito dell’affaire Fini
(http://www.ilfoglio.it/soloqui/5031), sia assente
un’importante questione storica e politologica, per così dire, di sfondo:
quella della ricomposizione della destra italiana.
E per quale ragione? Per dirla senza peli sulla lingua: eccesso di passione
politica. L’intervento di Tarchi sembra non muovere da un’oggettiva analisi dei
fatti, bensì da un giudizio soggettivo di natura politico-morale. Di qui un’
angolazione più attenta agli alberi che alla foresta, ai particolari e non ai
processi generali, “di fondo”. Dei quali invece si dovrebbe parlare,
soprattutto per uscire dal giochino giornalistico-salottiero, ora molto in
voga, del “ E tu con chi stai? Con Fini o Berlusconi?”.
Quindi vorremmo replicare al suo articolo ma anche provare ad “allargare”
l’orizzonte politologico della questione e dunque del dibattito.
Detto questo, lasciamo subito la parola a Tarchi. La citazione è lunga ma
necessaria: “Partiamo dal fatto - scrive nel suo intervento - che la scomparsa
di Alleanza nazionale ha segnato, sia pur in linea con l’evoluzione progressiva
del Msi, la fine di almeno due delle ambizioni che dal fascismo – o quantomeno
dalle sue correnti movimentistiche – si erano trasmesse inizialmente ai suoi
epigoni: la pretesa/promessa di superare la contrapposizione tra sinistra e destra,
estraendo da ciascuno dei due campi le istanze ritenute migliori e fondendole
in una nuova sintesi, e quella di incarnare un modo nuovo di rapportarsi alla
politica, rifiutando le forme cristallizzate della democrazia partitocratica. Sul primo di questi due versanti, non c’è alcuna
vena polemica nella constatazione che, nel Msi prima e in An poi, il fascismo
ha completato quel processo di resa alla destra che già aveva attraversato
varie fasi in epoca di dittatura. Ridotta la socialità a espediente
gergale di propaganda, il neofascismo ha rinfoderato l’aspirazione a proporre
modelli di organizzazione economica della società diversi da quelli imposti dal
capitalismo e nei confronti di questi ultimi ha, un poco alla volta,
affievolito le residue critiche” (il corsivo è nostro).
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La “resa alla destra”
Che in piena democrazia, missini e aennini - ora confluiti nel PdL -
abbiano “completato quel processo di resa alla destra che già aveva
attraversato varie fasi in epoca di dittatura”, non è un male ma un bene. E,
attenzione, non in termini politici e morali - altrimenti si rischia di
commettere lo stesso errore di Tarchi - ma storici e sistemici. Come vedremo
più in là, quel suo mettere le mani avanti sull’assenza di “vena polemica”
sembra essere la classica excusatio non
petita…
Ma per tornare sul punto “resa”. Cosa vogliamo dire? Che la “resa” assume
invece valore positivo dal punto di vista della ricomposizione storica della
destra italiana. Perché può favorire, come del resto sta avvenendo, la nascita
di un grande partito conservatore e democratico. Parliamo di quel grande
partito di destra, liberale, cattolico e popolare, di cui si è avvertita in
Italia la storica mancanza. Un “grande assente”, prima penalizzato dal non expedit cattolico, poi sedotto e traviato
dal fascismo e infine “ silenziato” dal centrismo consociativo democristiano
fino al 1994.
Questo sul piano storico. Su quello sistemico, per dirla in sociologhese, ci
riferiamo invece alla ristrutturazione “micro-sistemica” delle diverse anime di
un famiglia politica, quella conservatrice. Processo che, a sua volta, rinvia a
una “macro-ricomposizione” sistemica e politica capace di condurre alla
fisiologica alternanza democratica tra sinistra riformista e destra
conservatrice.
Dal momento che - piaccia o meno - questa è la normalità “sistemica”, almeno
quando si parla di una società sviluppata, dotata di istituzioni democratiche
rappresentative e basata sull’ economia di mercato.
Pertanto rimproverare An di “resa alla destra”, come fa Tarchi, significa
subire, nolens volens, il
fascino del pensiero della “tentazione fascista”, per usare la agile
espressione di Tarmo Kunnas.
Ci spieghiamo subito: significa idealizzare un progetto - attenzione, non
studiare - sicuramente estraneo alla moderna democrazia, o comunque
disfunzionale, attribuendo ai suoi attori, in questo caso missini e
post-missini, livelli di coerenza in base alla distanza dall’enunciato
ideologico. E’ quel che fanno da sempre, ad esempio, anche gli studiosi
nostalgici del comunismo. Appunto…
Certo, talvolta nei propositi disfunzionali di un movimento politico, come per
la follia, c’è un metodo. Ma sempre di follia - o disfunzionalità - si tratta:
al limite, oggi sarebbe più corretto, dal punto di vista politologico, visti i
successivi sviluppi democratici del Msi, scoprire, se nel fascismo e poi negli
ambienti missini vi fossero già all’epoca “tentazioni democratiche”… E dunque
fattori “funzionali”. E crediamo che i libri di Parlato, ad esempio, oggi
provino ad andare in questa direzione.
Comunque sia, siamo davanti a un “pre-assunto” politico-morale, riguardante una
sorta di fascismo “ideale” e la sua potenziale prosecutio politica, che come tutti i “pre-assunti”
condiziona, e non positivamente almeno in questa occasione, l’approccio politologico
di Tarchi.
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Rileggere Max Weber
Anche perché il ruolo dello scienziato sociale impone sempre la ricerca
dell’oggettività. E qui, pur cadendo nel didascalico, non possiamo non citare
Max Weber. Non tanto per Marco Tarchi che ovviamente ne conosce l’opera, quanto
per i lettori. Weber a proposito della “scelta” politica tra scopi e mezzi,
rilevò che lo studioso o “ insegnante può mettervi davanti la necessità di
questa scelta, ma non può fare nulla di più, finché vuole rimanere un
insegnante e non diventare un demagogo. Egli può naturalmente ancora dirvi: se
volete questo o quell’altro scopo, allora dovete mettere in conto questa o
quell’altra conseguenza concomitante che si verifica in conformità
all’esperienza” (La scienza come
professione, Mondadori 2006, p. 40).
Insomma, lo scienziato sociale deve ragionare “weberianamente”. Perciò parlare
della fedeltà o meno di An al pensiero della “tentazione fascista” rischia di
essere fuorviante. Perché “un insegnante” deve subito evidenziare che qui la
scelta “necessaria” non è tra fascismo ideale (scopo) e fascismo reale (mezzo),
ma tra democrazia e fascismo: tra due scopi diversi che richiedono mezzi
differenti.
Certo, si può, anzi si deve ragionare sulle modalità della transizione
Msi-An-PdL. E quindi sui modelli di partito, sui vincoli organizzativi, al
limite sulle astuzie, sui personalismi, eccetera. Ma, se vogliamo tenere
“politologicamente” i piedi ben piantati in terra (lasciando perciò agli
storici delle dottrine politiche, magari un tantinello nostalgici, lo studio
del “fascismo ideale”), il processo in sé, come transizione dal modello
totalitario a quello democratico di un partito e/o di un sistema, non può non
essere definito benefico, funzionalmente benefico.
Torniamo sul punto ancora una volta: discutere del tradimento di Fini rispetto
ai valori del fascismo “ideale”, come quando Tarchi accenna all’infedeltà verso
“ i modelli di organizzazione economica della società diversi da quelli imposti
dal capitalismo” concepiti nel Ventennio, può avere senso politologico solo se
rapportato, e in modo positivo quale felix
culpa, funzionalmente appropriata alle necessità sistemiche di
ricomposizione della destra democratica in Italia. Sono, insomma, in gioco
meccanismi strutturali e funzionali. E, ovviamente, le necessità sistemiche non
possono includere, in quanto viviamo in una società pluralista e di mercato,
opzioni da partito unico o di tipo anticapitalista, e quindi antisistemiche. A
che serve perciò tornare ogni volta sull’infedeltà di Fini verso il fascismo
“ideale” ? Oppure storcere di continuo la bocca sulla sua conversione
all’economia di mercato? Se a Marco Tarchi non piace la liberaldemocrazia
nessuno gli vieta di scrivere contro. Ma quel che non è lecito è farsi
condizionare dalla passione politica quando si fa analisi politologica anche, o
meglio soprattutto, in sede giornalistica. Quindi la “vena polemica” in quel
che Tarchi scrive nel suo intervento, c’è, eccome.
Detto altrimenti: in qualsiasi modo Fini sia giunto alla democrazia, gli
effetti di ricaduta, al netto di personalismi e giochi di potere, possono
essere, dal punto di vista sistemico, soltanto benefici.
Fermo però restando un fatto. Quale? Che va “politologicamente” misurata, e
senza fare sconti, la fedeltà “sistemica” dei finiani, ovviamente alla
democrazia, ma soprattutto al processo in atto di ricomposizione della destra
in Italia. Una “normalizzazione” - ecco il punto - che rischia invece di
“precarizzarsi” quanto più Fini, in futuro, cercherà di distaccarsi dal PdL,
vero motore, piaccia o meno, del processo, perseguendo obiettivi personalistici
e/o velleitari. Rischiando così di frammentare il quadro politico, di favorire
il ritorno del centrismo partitico-ideologico, nonché di andare contro i
desiderata degli elettori, che mostrano di apprezzare l’unità a destra. E
dunque di gradire un bene pubblico e sistemico: la stabilità politica.
Quanto alle frange estreme che Fini e sodali, “passati con disinvoltura dal
ghetto al palazzo” avrebbero abbandonato a se stesse, si tratta di folcloristiche
minoranze. Borderlines che
possono essere ritenuti pericolosi per la democrazia solo dagli isterici
seguaci della mitologica religione del Ur-Fascismo. E non crediamo Tarchi sia
fra questi ultimi…
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Conclusioni ( o quasi)
Certo, è vero che “ quanto alla funzione che il gruppo dirigente di
Alleanza nazionale, oggi lacerato, potrebbe svolgere nel momento in cui
Berlusconi lascerà la guida del centrodestra, le prospettive sono
indecifrabili”. Come è altrettanto vero che “il ‘pensiero di destra’ non aveva già
più ai tempi di An, e men che meno ha oggi in quei dintorni, un volto
riconoscibile”.
Tuttavia, ripetiamo, è un bene “sistemico” che il pensiero di destra nel senso,
ripetiamo, del “pensiero” della “tentazione fascista”, non abbia più un “volto
riconoscibile”. Perché si tratta di un pensiero inconciliabile con la
democrazia liberale e l’economia di mercato. Mentre è un male non l’averlo
rimpiazzato - o almeno iniziato a rimpiazzarlo - con una cultura realmente
liberale, conservatrice e democratica.
E qui emergono le responsabilità di un Fini dedito ai giochi di potere ma anche
le colpe dei fatui “farefuturisti”. I quali hanno prodotto, come giustamente
scrive Tarchi, “un insieme liquido di riflessioni prive di un filo conduttore,
abbacinate dall’ossessione di apparire moderni ad ogni costo, ancora legate a
una terminologia di stampo conservatore in cui parole come nazione, identità e
Stato sono tuttora frequenti ma ondivaghe nell’attribuire contenuti a quei
termini”.
E qui emergono anche i limiti di Berlusconi, al quale se va riconosciuto il
merito di aver avviato nel 1994 il gigantesco processo storico-sistemico di
ricomposizione della destra italiana, vanno rimproverate le modalità
autoreferenziali di attuazione. Come non vanno sottaciute le responsabilità del
mondo economico italiano, che talvolta pare preferire la vischiosità del
consociativismo. Una propensione cui spesso non sembra sfuggire neppure una
sinistra, che pure sta tentando di trasformarsi in forza riformista e
alternativa alla destra.
In questo senso gli elettori, come abbiamo accennato, soprattutto quelli di
destra, sembrano essere più consapevoli degli stessi attori politici circa
l’importanza della posta (“ricompositiva”) in gioco.
Ma su questi aspetti magari torneremo in altra occasione.
Carlo Gambescia
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