Il libro della settimana: Peter L.
Berger e Thomas Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, il Mulino 2010,
pp. 132, euro 10,00.
https://www.mulino.it/isbn/9788815134097 |
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Ecco finalmente un libro di sociologia che
può chiarire in poche battute - certo al lettore motivato e interessato - il
perché del disagio attuale. Il titolo è un tutto un programma: Lo smarrimento dell’uomo moderno (il
Mulino 2010, pp. 132, euro 10,00). E ne sono autori due importanti sociologi
americani, Peter L. Berger e Thomas Luckmann. I quali hanno all’attivo un
piccolo classico: La costruzione sociale
della realtà, pubblicato sempre da il Mulino. Un volume prezioso,
che non ci stancheremo mai di raccomandare come introduzione a una sociologia
libera o quasi da ipoteche individualistiche.
Ma veniamo a Lo smarrimento dell’uomo
moderno. Il testo parte da un fatto scontato: quello della crisi di
senso. Tuttavia per Berger e Luckmann la perdita non è dovuta alla
qualità-quantità di messaggi ricevuti dai singoli, che deve restare la più
libera possibile, bensì alla solitudine che sembra più o meno avvolgere la vita
di tutti. E nella quale si è comunque costretti a scegliere tra una
molteplicità di messaggi. Manca insomma il filtro.
Di conseguenza la questione è istituzionale. Ad esempio, tra le istituzioni di
mercato che dettano l’agenda delle scelte e la sfera l’individuale, Berger e
Luckmann scorgono una “Terra di Nessuno. A loro avviso non esistono più - o se
esistono non funzionano bene - associazioni capaci di mediare, riorientando il
senso del singolo, come capacità di scelta equilibrata. Soprattutto in una
società dominata da una ragione economica che ripete ossessivamente che l’uomo
è solo quel che guadagna.
E qui ricordiamo che Berger e Luckmann hanno sott’occhio la realtà americana.
Comunque sia, resta interessante il concetto di “istituzione intermediaria”,
ben sviluppato nel libro. Cioè di istituzioni capaci di mediare e restituire
senso alle scelte individuali. Anche se, come scrivono gli autori, “le
istituzioni intermediarie (...) sono un ambito particolarmente problematico”.
Perché
“occorre comprendere innanzitutto quali
siano le organizzazioni che si trovano in tale ambito. Con una certa
attendibilità, si può dire che se le comunità spirituali e d’opinione con
un’organizzazione locale rientrano in tale livello: ad esempio gruppi
ecologici, istituzioni come le chiese (nella misura in cui sono fortemente
radicate nel territorio così da poter agire come istanze di trasmissione di
senso per le comunità di vita), gruppi di partito locali e associazioni di
vario tipo. Quali di queste organizzazioni possano essere definite istituzioni
intermediarie si può decidere soltanto dopo aver studiato il loro concreto modo
di funzionare. Se esse in concreto non mediano tra le grandi istituzioni
dell’intera società e il singolo individuo nelle sue comunità di vita, non sono
quello che il loro nome suggerisce, cioè appunto istituzioni intermediarie”.
Qualcuno penserà come tutto ciò sia molto
americano, ossia pragmatico: un modo di vedere le cose legato non alle grandi
enunciazioni, ma al loro valore pratico.
Certo, resta però il fatto che le “istituzioni intermediarie” - che in Europa
includono oltre alla “società civile" anche il “terzo settore" -
possono effettivamente riattivare logiche, e dunque scelte, fondate sul dono,
sull’impegno solidaristico, sul senso del dovere sociale. Di qui alla
riacquisizione di un senso individuale capace di contrastare lo “smarrimento”,
il passo potrebbe essere breve.
Ovviamente, molto dipende, dalla capacità delle “istituzioni intermediarie” di
agire sia verso il basso (l’individuo e le sue comunità di vita), sia verso
l’alto (stato e mercato). E dunque di non trasformarsi in strumenti al servizio
di istituzioni politiche ed economiche, né in prolungamenti di un nuovo
fariseismo individualistico di massa.
Soprattutto perché il fine ultimo delle “istituzioni intermediarie” resta
quello della “stabilizzazione del senso”: di vivere in pace con se stessi e con
la società.
Una bella e nobile sfida.
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