Il libro della settimana: Robert
Spaemann, Rousseau cittadino senza patria. Dalla "polis"
alla natura, Edizioni Ares, Milano 2009, pp. 160, euro 14,00.
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La filosofia di Robert
Spaemann, importante filosofo tedesco cattolico, oggi ottantenne, può essere
così condensata: l’uomo è interiorità. Il filosofo parla di una plasticità
spirituale capace di manifestarsi in una vita sociale densa di significato
ultramondano. Dove l’uomo sia finalmente capace di ritrovare il senso del suo
vivere pratico, collegando esistenza e provvidenza. Ciò che non avviene oggi.
Piaccia o meno, non siamo davanti a un pensiero debole. Spaemann, molto letto
anche in Italia, ha pubblicato numerosi libri. Qualche titolo: Concetti morali fondamentali (Piemme
1993), Per la critica dell’utopia
politica (Franco Angeli 1994), Le
origini della sociologia dallo spirito della restaurazione, Laterza
2002), Natura e ragione. Saggi
Antropologia (Edizioni Università della Santa Croce 2006).
La sua opera è un corpo a corpo intellettuale con il pensiero illuminista. Da
Spaemann “sezionato” in modo instancabile. Ma con cuore puro: alla luce del
tentativo di ritrovare nelle aporie di una ragione, che spesso si vuole o
trionfante o decadente, gli spiragli di una filosofia della pratica rispettosa
dell’argomentazione razionale come della fede.
Per moderni e postmoderni il cammino di Spaemann può essere giudicato inutile.
Mentre, in realtà, si tratta di un pensiero profondo che si muove con grande
perizia intorno ai sottili confini della modernità. Di qui l’importanza di
leggerlo. Magari partendo proprio dal suo Rousseau
cittadino senza patria ( Edizioni Ares, Milano 2009, pp. 160, euro
14,00). Volume, fresco di stampa, che si avvale di un’ottima prefazione di
Sergio Belardinelli cui fa pendant l’eccellente
postfazione di Leonardo Allodi, al quale si deve anche la fedelissima
traduzione.
Rousseau per Spaemann non è la soluzione ma il problema. Perché “il problema
del rapporto tra emancipazione e integrazione è ciò che Rousseau ha lasciato in
eredità alle generazioni successive”.
Infatti, per un verso il filosofo ginevrino ha contrapposto la natura buona
dell’uomo alla società cattiva, per l’altro ha avanzato, senza sciogliere i
dubbi, la possibilità di creare un uomo nuovo, “ipersocializzandolo”.
Due obiettivi, contrastanti ma paralleli, che i filosofi e i politici dei
secoli successivi perseguiranno, puntando sia sulla costruzione dell’uomo nuovo
nella società senza classi (la società comunista), sia sull’edificazione del
cittadino nuovo nella società con le classi (la società borghese).
Secondo Spaemann, Rousseau invece guardava altrove, perché auspicava il
superamento delle contraddizioni umane per altri vie: quelle di un’interiorità
capace di apprezzare il sacro, rifiutando però il trascendente. Qui il suo
limite implicito e dunque insuperabile.
Tuttavia “ mentre la teoria rousseauiana, con il suo pathos della liberazione,
diventa determinante per i movimenti rivoluzionari fino al marxismo, la sua
teoria sociale e il suo concetto di ‘natura della cosa’ attraverso Bonald,
diventa determinante per la teoria positivistica della società”.
E la “natura della cosa”, per essere chiari, non rinvia altro che alle cose
come sono: alla realtà fisica come appare all’uomo. Realtà che se non può
essere modificata “socialmente” dal rivoluzionario, può però essere manipolata
“meccanicamente” dallo scienziato. Attività, quella scientifica, che diventa
così norma universale fino al punto di trasformare gli scienziati nei membri di
una nuova casta.
Mentre per Spaemann, come nota Allodi, “il modo” in cui l’uomo vive la natura
delle cose, non è rivoluzionario né scientifico o peggio scientista, bensì
determinato dal fatto “che egli non coincide mai” con la propria natura “ma la
possiede” tenendosi a distanza.
Ed è proprio la capacità di “distanziarsi” che fa essere l’uomo persona.
Capacità che si chiama interiorità. E che acquisisce senso e significato solo
grazie a un disegno che trascende il mondo, non umano ma divino.
Carlo Gambescia
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