Grecia
Un test di
stabilità (per tutti)
La
questione greca è interessante come test per misurare la stabilità e la
capacità sociologicamente "adattive" dei sistemi politici ed
economici contemporanei, in particolare di quello europeo-occidentale.
Ora, stante la serietà della crisi greca e la possibilità "di
contagio", quel che stupisce è la fermezza delle riposte politiche ad alto
livello. Che può essere così riassunta: “Greci, se volete salvarvi, dovete fare
ordini nei vostri conti pubblici e quindi fare sacrifici, tagliando il
welfare”.
Ora una scelta di questo tipo, che implica un fallimento in “stile Argentina”
della Grecia, può essere spiegata, o con l’assoluta stupidità dell’Europa e
delle istituzioni internazionali dedite a una specie di “cupio dissolvi”, o con
l’assoluta sicurezza dell’establishment politico ed economico di poter tener
sotto controllo la situazione, anche con la forza, o comunque isolando la
protesta.
Propendiamo per la seconda ipotesi, ma come si vedrà in modo non rigido. E per
una semplice ragione: i governi sanno di non avere davanti alcun movimento
organizzato sul “tipo ideale” del partito rivoluzionario. Come sanno della
totale assenza di collegamenti tra possibili movimenti rivoluzionari e potenze
straniere, come nel caso classico del comunismo sovietizzato. Di conseguenza i
governi reagiscono con la stessa fermezza dell ’establishment ottocentesco
davanti alle pressioni, altrettanto scomposte, di anarchici e socialisti. In
una parola: repressione. Ovviamente modulandone l’intensità in base alla
dolciastra retorica politica oggi dominante, alle notevoli tecnologie
biopolitiche di cui gli "apparati" dispongono, nonché alla qualità e
composizione della protesta sociale.
Anche perché - dato sociologicamente fondamentale - le varie forze sociali
(magistratura, polizia, esercito, associazioni economiche, imprenditoriali e
sindacali, media, intellettuali) mostrano di non essere divise sull’ idea di
fondo di una società fondata sul mercato.
Pertanto lo sbocco finale può essere rappresentato da un capitalismo
autoritario e poliziesco. Che magari ritorni a macinare profitti non per
sempre, ma per un buon numero decenni. Infatti lo sfaldamento sociale, a fronte
della fedeltà al sistema delle principali istituzioni, da solo non può bastare.
Perché il cambiamento socioeconomico, di regola, si basa su forze organizzate
“socioculturalmente”: parliamo di istituzioni che si oppongano, o
conquistandole o cambiandole dall’interno, ad altre istituzioni. Pertanto i
processi di decomposizione e riorganizzazione sociale, oltre al possibile
sbocco autoritario o regressivo, possono assumere forma e direzione sia
rivoluzionaria, sia riformista. Oppure gravitare per decenni tra le varie
forme. Va poi detto, che il capitalismo, a differenza di altri sistemi storici,
ha mostrato straordinarie capacità di adattamento, reversibilità e
trasformazione.
Il che rende difficile prevedere con esattezza quel che accadrà nei prossimi
decenni.
Carlo Gambescia
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