Dal Vate a Lady Gaga
C'era una volta la "Terza
Pagina"
La prima storica "Terza Pagina" del giornalismo italiano: 10 dicembre 1901, Gabriele D'Annuzio, sul Giornale d'Italia, recensisce la "La Francesca da Rimini" . |
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Che tristezza sfogliare le pagine culturali
dei giornali! Ci si occupa di tutto, dalla filosofia del cavatappi alla
sociologia del sushi, ma non delle grandi questioni. Sparita la “Terza Pagina”,
le pagine culturali, dopo non tanto eroica resistenza, sono confluite
mestamente in quelle degli spettacoli.
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Il trionfo dell' aria fritta
Le redazioni culturali - “culturali”, parola
grossa - mostrano interesse non più per libro su, ma per il film o il fumetto su. Nel senso che si pubblica
volentieri la recensione del libro diventato film, ma non quella del libro in
quanto tale… Oddìo, anche il lettore di oggi lascia molto a desiderare: è uno
attaccato alla televisione e che compra un libro, se lo compra, dopo che ha
visto il film. E i giornali gli corrono dietro, puntando sulla “cultura-spettacolo”:
gossip, cinema, musica e fumetti. E per salvare la faccia, ufficialmente, si
pontifica che ci si occupa di immaginario… Aria fritta.
Il giornale, definito da Hegel, “preghiera del mattino dell’uomo moderno” si è
ridotto a trattare gli eventi, come aveva profetizzato Kafka, in chiave di
“pietra accanto a pietra, lordura su lordura”, senza alcun senso ordinatore.
La fine della mitica “Terza Pagina”, ormai sparita da almeno trent’anni,
rimanda però anche alla morte della cultura militante: ossia di una cultura
impegnata che considerava pietre le parole scritte, spesso preziose. E vergate
- verbo in disuso - da un intellettuale la cui mente osservava se se stessa e
non il proprio ombelico.
Parliamo di una cultura giornalistica, alta.
Si pensi, pur su versanti politici diversi, a “il Politecnico”, “il Mondo”, il
“Borghese” di Longanesi Una cultura che ebbe il suo canto del cigno negli anni
Settanta con “Il Giornale nuovo” di Indro Montanelli e “la Repubblica ” degli
inizi.
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C'era una volta la cultura militante...
Certo, politicamente, la cultura militante è
double face. Perché le armi
(intellettuali) delle critica, possono sempre tramutarsi in critica delle armi
(vere): quelle che fanno “pum-pum”. Tradotto: in carneficine tipo “Anni di
Piombo”.
Per contro, gli anni Ottanta e Novanta rappresentano gli “anni di latta”.
Quelli di una cultura giornalistica sempre più incentrata sul gossip e
appiattita sulla “cultura-spettacolo”. Rivolta alla celebrazione, come diceva
Camus ( quando Vespa non era ancora nato…): “Di un mondo dove per diventare
famosi basta ammazzare la portinaia”. E dove oggi prevale, al di là di qualche
fiammata retorica (pacifista e antimafiosa), la cultura del disimpegno. Perché,
diciamola tutta, essere contro Berlusconi non è come lottare contro Hitler o
Stalin.
Ma quando “è finito” il giornalismo intellettualmente impegnato? Dopo il bagno
nella “Milano da bere”. E soprattutto dopo la doccia fredda della caduta
sovietica.
Alcuni diranno: meglio così. Giusto. Però il mercato editoriale venne invaso da
centinaia di volumi sulla fine della cultura militante. Per alcuni osservatori
liberali, in pieno deliquio, dalle ceneri del comunismo, sarebbe nato il mondo
nuovo, finalmente libero da ogni devastante ideologia.
In realtà, sul piano culturale, a destra e sinistra si continua tuttora a
scomunicare e imporre veti. Come mostra, ad esempio, la polemica giornalistica
che ogni tanto si riaccende sulla destra che cerca di appropriarsi di autori di
sinistra e viceversa. Con un’unica differenza che oggi destra e sinistra si
contendono i Simpson. Oppure la “vera” appartenenza ideologica di un regista.
Oggi, il massimo della concettualizzazione
giornalistico-culturale consiste nel rispondere alla seguente domanda: “Il pulp
è di destra o di sinistra?”.
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Il virus giacobino
Battute a parte, la “battaglia” per i
Simpson, in realtà, rivela le origini giacobine e carnivore di un certo modo,
tuttora diffuso, di intendere la cultura e gli intellettuali. Ci spieghiamo
meglio.
L’intellettuale moderno, come militante, nasce con la rivoluzione francese, o
meglio giacobina. Che cancella il dotto della tradizione universalistica di
tipo medievale e rinascimentale. Nel 1789, e in particolare con la rivoluzione
robespierrista del 1793, nasce l’intellettuale totalitario che vuole trasformare
la realtà, tagliando teste. Di qui la necessità di schierarsi, dividendo il
mondo in buoni e cattivi. In quel preciso momento piaccia o meno, cessa di
esistere l’universalismo come condivisione e attribuzione di universalità a
valori come il bello, il vero, il buono e il giusto.
Dopo di che, verrà il turno di Marx che farà
da tramite tra la rivoluzione giacobina e russa, affermando che il vero
filosofo non deve interpretare il mondo ma cambiarlo. Mentre Lenin e i vari
comunismi armati del Novecento ne completeranno l’opera. Per reazione, la
società novecentesca si dividerà in compartimenti stagni: fascisti, liberali,
cattolici, democratici, eccetera, tutti con i propri intellettuali militanti,
di “parte”, “armati” e “inquadrati“.
Il Novecento perciò, non è solo il secolo
delle guerre, ma anche quello delle ideologie armate: il trionfo del virus
giacobino.
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Da Marx a Manu Chao
Un mondo che non è però scomparso con la
caduta del comunismo, come vogliono farci credere. Oggi il tono usato è soft: a
sinistra non si cita più Marx, ma Ken Loach e Manu Chao. Un tono, certo, molto
diverso da quello leninista di una volta. Ma il punto è che la sostanza non è
cambiata: guai a intromissioni che possano nuocere alla purezza dell’ideologia
progressista.
In realtà anche la destra tenta un’operazione ideologica molto simile a quella
della sinistra Fahrenheit 451. Nel senso di una destra facile facile che sogna
una società solo cinema, fumetti e televisione: dove leggere e scrivere libri
sia reato Come quella dell’omonimo libro di Ray Bradbury.
Di qui l’epica battaglia sui Simpson, eccetera. Qualche giorno fa abbiamo
addirittura letto articoli, opposti, sul significato politico di Lady Gaga. Chi
avrà ragione? Ma chi se ne frega…
Ripetiamo, resta però ben viva, sia a destra che a sinistra, la forma mentis
giacobina: la cultura come strumento da porre sempre al servizio del principe o
della causa ”giusta“ . Con questo però non si vuole predicare il disimpegno
totale da anime belle, il relativismo liberale e nemmeno mitizzare
l’universalismo etico o religioso di un medioevo di cartapesta. Anche perché
Papi e Imperatori “inciuciavano” e di brutto.
Se non fosse che in questa palude, le
redazione culturali, quasi tutte composte di ex ragazzini cresciuti a pane e
Italia Uno, ci sguazzano formulando, se va bene, riposte esatte a domande
sbagliate E quel che è peggio le pagine culturali finiscono per somigliarsi
tutte da “la Repubblica ”
al “Secolo d’Italia”: stesso riflesso giacobino, stessi film, stesse canzoni,
stessi programmi. Stessa antipatia - quella dell’ ex studente sfaticato - per i
libri e gli autori politici classici.
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Conclusioni
Andrebbe invece ritrovato il gusto per la
cultura. E quello per un giornalismo basato su interessi culturali autentici,
non legati alle tendenze più sceme o ai padroni politici del momento. Si
capisce perciò quanto sia difficile per un giornalista della vecchia guardia
della cultura, campare restando fedele a se stesso. E gli spazi per i
“dinosauri”, purtroppo, si fanno sempre più ridotti. Per parafrasare Miguel de
Unamuno (che non è il nonno spagnolo dei Simpson), un intellettuale riflessivo
né pedante né dilettante, dove può trovare le risorse per vivere, senza dover
scrivere di Lady Gaga o della musica pop kazaka?
Carlo Gambescia
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