In questi giorni all’amico che regolarmente chiede dove siamo stati in vacanza, rispondiamo a casa di Leonardo Sciascia. Nel senso che, pur lavorando a ritmi più blandi (causa caldo), o forse proprio per questo, abbiamo riletto alcune sue opere. Esito? Meglio delle città d’arte.
Si rifletta. ln fondo il novanta per cento dell’arte è finzione. Cioè rappresentazione figlia dell’immaginazione. Il restante dieci ragione è interpretazione , riflessione sull’arte, sul canone, sul metodo. Insomma “sistemazione”.
In Sciascia, ritroviamo la stessa problematica, che probabilmente risale ai teatri antichi, poi consacrata da Pirandello: della maschera e del volto.
Finzione o realtà? Sciascia siciliano, crocevia dell’Occidente, come la sua bellissima “isola”. Sciascia come punto di incrocio intellettuale – e ci si perdoni il semplicismo della terminologia – tra illuminismo e romanticismo. Tra riflessione e finzione. O meglio riflessione sulla finzione.
Si prenda quel capolavoro, tra i suoi non pochi, che è Il giorno della civetta. Da una parte c’è la fin troppo lussureggiante antropologia romantica del mafioso, al punto di apparire finta. Si pensi, come summa, alla famosa definizione di don Mariano delle quattro fantasiose tipologie di uomini. Dall’ altra, illuminismo spuntato del diritto. Si pensi alle false quanto ineccepibili testimonianze (dal punto di vista procedurale) che mandano liberi esecutori e mandante, da “Zicchinetta” e Pizzuco a don Mariano Arena.
Sciascia, e in particolare nelle opere più politiche o quasi come Todo Modo, avverte che il sentimento, come necessità della finzione per credere (ritiro spirituale o albergo di lusso? Ritiro spirituale…), è più forte della ragione che taglia e cuce un abito che all’uomo starà sempre stretto. Agli esseri umani quasi mai interessa la verità, nuda e cruda. Agli uomini interessa prevalere o credere di prevalere. E se vincere, in qualunque modo, significa fare a meno della verità, tanto peggio per la verità. E per la legge come prolungamente positivo dalla ragione.
“Siamo morti che seppelliscono altri morti”. Queste le parole del procuratore generale, di Porte aperte, altro morto vivente, prossimo alla pensione, che pure ammonisce il “piccolo giudice”, contrario alla pena di morte. E, nonostante tutto pena di morte sarà. I morti seppelliranno altri morti. Se non sul patibolo vero e proprio, sul patibolo della vita. La finzione produce sempre conseguenze. Reali.
Cercare in Sciascia una risposta alla grande questione dell’uomo come essere sociale e antisociale al tempo stesso è praticamente impossibile. Sciascia scorge all’interno stesso della ragione la maledizione della carne. Si finge, rischiando di essere scoperti. Ma si finge. Si pensi a quel capolavoro storico che è Il Consiglio d’Egitto. Una finzione, una dottissima finzione, può essere utile. Ma non può esserlo per sempre. Prima o poi si viene scoperti. E nonostante tutto altri continueranno a fingere, per poi essere scoperti a loro volta e così via.
Qual è può essere il ruolo della finzione in un mondo in cui si rappresenta tutti i giorni la sconfitta della ragione? Quello di illudere il credente laico che l’ultima parola sarà sempre quella della ragione. Così come il credente cristiano ritiene che sarà di dio. Razionalizzazioni. Maschere per sopravvivere.
L’opera di Sciascia si sviluppa intorno a una sociologia della finzione: della maschera e del volto. O meglio del come la ragione (volto) si scontra con il sentimento di credere per vincere (maschera). Per Sciascia il diritto è finzione maltrattata da una realtà magmatica, da sembrare finta, ma posseduta dalla brama di sbaragliare l’altro, seppellirlo come morto, fino a quando non verrà il nostro turno di essere seppelliti.
Inciso. Sarebbe tesi da approfondire, anche in
relazione al suo amato Maggiore, il Pirandello dell'uno, nessuno, centomila. Nonché, accogliendo l'acuta suggestione di un lettore, rispetto al Borges degli specchi che rimandano ad altri specchi. Sciascia e Borgese, due parallele ( Sciascia recensì Finzioni, già negli anni Cinquanta, prima che esplodesse la Borgesmania), condannate però a non incontrarsi mai: il piano è lo stesso ma il realismo vigile di Sciascia è una cosa, quello fantastico di Borges un' altra. Parliamo ovviamente di maestosi custodi della letteratura.
Per tornare sul "seppellire", siamo convinti che Sciascia ritenga l’evangelico “lasciare che i morti seppelliscano i morti”(Matteo 8, 18-22), una gigantesca finzione per andare avanti. Nessun regno dei cieli da annunciare, solo un ricompattare le schiere, dagli angeli ai demoni, dai magistrati ai criminali , per riempire le fosse di morti. Morti alla ragione. Quella vera, che sconquassò l’antico regime. E liberò il mondo. Per poi tuttavia venire a patti con il mondo. E non poteva non essere così, primum vivere. La carne è debole.
E la scienza? A cominciare da quella giuridica, finzione della ragione in un mondo che si nutre di finzioni mosse dal desiderio profondo di prevaricare. Finzioni che interpretano altre finzioni. E forse per questo utili. Ma solo in un mondo di finzioni.
Crediamo, questa, sia la lezione di Sciascia. Di una ragione che coabita con la finzione, fino a mescolarsi con essa.
Nessun vinto, nessun vincitore. Solo morti che seppelliscono altri morti. Volto e maschera sepolti insieme nella fossa.
Eppure al male ci si deve opporre. E questa è l’altra lezione. Più sommessa, di Sciascia. Come il capitano Bellodi de Il giorno della civetta che esce sconfitto, dopo aver fatto tutto il possibile per sconfiggere il male. Un uomo in divisa, già partigiano, che, nonostante tutto, “sapeva di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. – Mi ci romperò la testa – disse a voce alta”. Così la chiusa.
Rompersi la testa o riempire le fosse? Ecco quel che si può chiamare lo stramaledetto dubbio amletico di Sciascia. Nella sua opera non c’è risposta definitiva.
Ragione, comunque mescolata a volontà? O finzione che è volontà di fingere?
Carlo Gambescia
Complimenti. Ha scritto una sorta di appendice a Sociologi per caso. Una suggestione: dato per acquisito il debito di riconoscenza nei confronti di Pirandello, da Sciascia sempre ammesso, non le sembra che aleggi a margine della sua riflessione il fantasma di Jorge Luis Borges? Saluti
RispondiEliminaGrazie del gentile commento. Sicuramente. Lo conosceva. Ne scrisse in tempi non sospetti. Prima che esplodesse la borgesmania...
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