giovedì 1 febbraio 2024

“La lunga notte” di Campiotti avvince e convince

 


Il rapporto tra cinema, televisione e storia è complicato. Non è mai facile spiegare la storia (come sono andate le cose), quindi convincere, e al tempo stesso avvincere (lusingare lo spettatore, facendo spettacolo). A maggior ragione, quando si affrontano argomenti politicamente controversi sui quali gli storici (quelli incaricati, per professione, di far capire come sono andate le cose) ancora discutono.

Non c’ è forse argomento più controverso della caduta del fascismo. Cioè, tutti conoscono, a parte i nostalgici,  le sue linee generalissime:  dittatura corrotta, guerra persa, si salvi chi può. Meno note sono  la precisa dinamica degli eventi  e le differenti  prese di posizione dei non pochi protagonisti, dai Savoia a Mussolini, dai gerarchi ai tedeschi.

Sotto questo aspetto “La lunga notte - La caduta del Duce” di Giacomo Campiotti, trasmessa dalla Rai in tre puntate, storiograficamente parlando non perde un colpo. Ovviamente, qualche sbavatura si può rilevare. Ad esempio, secondo Renzo De Felice, Mussolini pensava al disimpegno con i tedeschi, ma, indeciso, incupito e sofferente, procrastinava.

Quanto al lato artistico, attaccato dai critici,  va fatta una precisazione: l’enfaticità recitativa, rimproverata agli attori, riproduce, e fedelmente, non gli schemi desueti dei polpettoni televisivi anni Cinquanta e Sessanta, ma la pomposa retorica del tempo, che le iperattive generazioni di critici usciti da scienze della comunicazione, con scarsi studi storici, ignorano totalmente. Di qui i banali paragoni, frutto di un provincialismo al contrario, con le fiction storiche anglofone, giudicate superiori a prescindere.  In realtà, sono prodotti, alcuni anche ben fatti, che avvincono ma non convincono.

Una debordante retorica, quella del tempo,  tenuta invece ben presente da regista e autori. Erano anni   in cui dominava una retorica pomposa e intransigente al tempo stesso. Ai nostri occhi di pacifisti con la lacrimuccia e disincantato conto in banca tutto ciò può apparire artificioso, ma così era: si volava alto, convinti, in buona o cattiva fede, di volare alto.

Si legge che Campiotti, autori e interprete, Duccio Camerini, hanno dipinto un Mussolini sopra le righe. Si guardino i filmati luce dell’epoca. Quanto alla storicamente perfetta Clara Petacci interpretata da Martina Stella, per fugare qualsiasi dubbio sui toni che talvolta possono sembrare eccessivi, si legga la biografia mussoliniana di un bravo storico francese, Max Gallo. Quanto a Grandi, ben interpretato da Alessio Boni, lupo dalla sconfinata ambizione, pari solo al suo istinto di sopravvivenza, si leggano le ottime pagine di De Felice, che evidentemente gli autori hanno tenuto nella giusta considerazione.

L’aspetto della retorica aggressiva ben si coniuga con la cultura delle armi. Tipica del fascismo, fin dalle origini brigantesche: una banda di giovani lupi affamati, usciti dalla guerra, animati dall’odio verso i valori e le istituzioni liberali, divorati da una sconfinata voglia di agguantare il potere. Mussolini per primo.

Emblematiche, sotto questo aspetto, le vivide immagini dello stringersi e del dividersi, nella “lunga notte” dell’ultimo Gran Consiglio, dei due branchi di lupi, intorno a Mussolini e Grandi. Campiotti coglie perfettamente, con un lampo registico, l’uomo è lupo all’uomo del fascismo.

Solo per dirne un’altra:  si può immaginare un uomo politico liberale recarsi  a una riunione politica, come Grandi, già aggressivo squadrista, con due bombe a mano in tasca?   Si tratta di un episodio vero, giustamente evidenziato da regista a autori, perché, anche qui, trasformando il particolare in universale, spiega bene l’animus violento del fascismo.

Si pensi allo spirito aggressivo, militarista e imperialista del fascismo, che avrebbe trascinato Mussolini nelle braccia di Hitler e alla guerra fino a provocare ribellione dei gerarchi e caduta. Il dispotismo, spiegavano Montesquieu e Ferrero, si fonda sulla paura: non solo del popolo verso i despoti, ma dei despoti tra di loro. Il che spiega il ricorso alla violenza, che è una degenerazione della paura. E, ovviamente,  le due bombe a mano nelle tasche di Grandi...

La caduta del fascismo era nel Dna squadristico. Ma non tutti gli italiani erano squadristi. La tragica mascherata fascista sarebbe finita in quella lunga notte del 1943. Nei due anni successivi andrà in scena l’agonia dello squadrismo.

Un regime nato nella violenza, che si regge sulla violenza,  che muore nella violenza.  Ed è questa la fedele immagine del fascismo che “La lunga notte” ci restituisce. Insomma, il film di Campiotti avvince e convince.

Carlo Gambescia

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