Se si ripercorre la storia delle pensioni nel Novecento, si scopre che rispetto al passato questo secolo potrebbe essere denominato il “Secolo delle Pensioni”.
Perché? Per l’incredibile sviluppo che ha avuto in Occidente, e di riflesso, dove si è ripreso il modello, l’istituto sociale della pensione.
In sostanza, l’idea è nobile. Si tratta di assicurare la continuità di esistenza economica, come la dignità sociale, a tutti i lavoratori di ogni ordine e grado, una volta dismessi per sempre gli abiti (mentali) da lavoro.
Tuttavia la pensione che è una forma di rendita vitalizia, ha assunto nel tempo una estensione collettiva, sconosciuta in passato, se non come rendite concesse individualmente dai sovrani regnanti, soprattutto in età moderna, a particolari personalità pubbliche per i servigi resi.
Una curiosità: nell’antica Roma, in particolare nei primi due secoli di consolidamento dell’ Impero, soprattutto durante la dinastia degli Antonini, si procedeva a distribuzioni gratuite di grano e altri generi alimentari, talvolta anche di denaro, ai cittadini romani.
Nel Novecento, soprattutto nella seconda parte, alcune costituzioni, come quella italiana ad esempio all’articolo 38, hanno recepito una specie di diritto costituzionale alla pensione ponendo sullo stesso piano la malattia e la vecchiaia, perché giudicata come causa di inabilità al lavoro.
Senza entrare troppo nei dettagli, il finanziamento delle pensioni si è gradualmente trasformato, a causa dell’invecchiamento della popolazione, soprattutto dove i sistemi pensionistici sono pubblici (cioè finanziati attraverso le imposte), in un crescente appesantimento della spesa sociale costretta a colmare la differenze contributive nel rapporto tra popolazione lavorativa (sempre di meno) e non lavorativa (sempre di più).
Di qui, una serie di escamotage politici e statistici per chiudere, o comunque alleggerire, le falle nei bilanci degli enti previdenziali pubblici.
Forme di altissima ingegneria pensionistica che ora sono al centro del dibattito politico, come la cosiddetta quota cento, nel senso di 62 anni + 38 di lavoro per andare in pensione. O l’Ape sociale, un sistema che permette a coloro che svolgono un lavoro usurante di andare in pensione a 63 anni, invece che a 67, con soli 30 anni di contributi, godendo di una indennità mensile, più o meno congrua, fino a 67, erogata dallo stato.
Per capire la scarsa qualità sociologica di un dibattito, che sostanzialmente è pura e semplice questione di spartizione corporativa della spesa e del consenso pubblico, si pensi che i lavori usuranti, sono definiti sulle basi di una lista di lavori gravosi redatta in base ai criteri Inail.
Parametri che rinviano a tre indici del cosiddetto “mansionario Istat”: a) frequenza degli infortuni rispetto alla media; b) numero di giornate medie di assenza per infortunio; c) numero di giornate medie di assenza per malattia.
Lasciamo al lettore il giudizio sulla natura approssimativa di uno schema del genere, classico esempio di uso frettoloso di dati approssimativi: ad esempio, non tutti gli infortuni sono denunciati, e non tutti, anzi la maggior parte, sono gravi.
Ora, probabilmente per pure ragioni di consenso politico, si vorrebbe estendere, lo schema, al momento riservato ad alcune categorie (come ad esempio operai dell'industria estrattiva, dell'edilizia, della manutenzione degli edifici, conduttori di gru, eccetera), a bidelli, tassisti, falegnami, conduttori di autobus e tranvieri, benzinai macellai, panettieri, insegnanti delle scuole elementari, commessi e cassieri, operatori sanitari qualificati, magazzinieri, portantini, forestali. Praticamente a tutti... E per pure ragioni di consenso politico. Nemmeno troppo nascoste
E qui sarà interessante seguire le scelte del liberalsocialista (così si definisce) Mario Draghi...
Questo per dire come il “Secolo delle Pensioni” sia in realtà il secolo della demagogia. Un principio, in fondo umanitario, quello dell’assistenza alle persone non in condizione di lavorare, che può essere assolto in forma pubblica e privata, addirittura attraverso iniziative benefiche e caritatevoli, si è trasformato in un prepotente diritto sociale implementato dallo stato e, cosa più grave, in una velenosa risorsa politica capace di garantire il consenso ai vari governi di sinistra come di destra.
Altro che il vecchietto con la mano tremula, vestito di stracci, secondo la raffigurazione dei padri della costituzione italiana. Oggi i sessantenni se ne vanno, chimicamente baldanzosi, a Cuba e in Brasile...
La riforma delle pensioni, di cui si parla tanto, non è altro che una finestra aperta sul vuoto di una spartizione tribale di risorse pubbliche, sempre più limitate, non solo perché, come si dice, la popolazione invecchia, ma invecchia bene, e quindi, vuole godersi la pensione.
Di qui, la lotta sull’anno in più o sull’anno in meno, eccetera, eccetera. Conflitto che nulla toglie a quello che è il principale problema dell’Occidente: che nessuno vuole lavorare un minuto in più, per non sottrarre tempo al godimento di beni, non più prodotti, però, come un tempo, in Occidente.
Si vuole vivere di rendita, il più a lungo possibile e se possibile alla grande. Intaccando però il capitale…
Fino a quando?
Carlo Gambescia
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