Sono felice di questo “piccolo” dibattito su un tema importante come quello dei rapporti tra liberalismo e socialismo.
Ringrazio il professor Giovan Giuseppe Conte che nella risposta a un suo lettore ha mostrato di apprezzare il mio testo su Craxi e quello sul liberalismo socialista (*). È interessante leggere ciò che ha scritto:
«Del testo di Gambescia avevo apprezzato la ricostruzione storica e le acute riflessioni sulla figura di Craxi, sul PCI e sull’ operaismo. Per quanto riguarda la tua domanda, il nocciolo del problema mi pare possa riassumersi in questo: che nell’ espressione “socialismo liberale” socialismo è il sostantivo (sub stat da cui anche ‘sostanza’ ) e “liberale” l’ aggettivo (da adicere), con le implicazioni che si possono trarre dal modo di accostare i due termini. Ti allego qui un altro scritto, pubblicato oggi da Gambescia, come seguito di quello di ieri, sulla differenza tra socialismo liberale e socialdemocrazia. In esso viene citato anche il socialismo liberale di Rossellli che, però, può apparire – come molto probabilmente è - una costruzione ideologica caratterizzata da rischiose astrattezze nella concezione dello Stato e della società civile, concezione socialista ma con qualche tratto "anarchicheggiante . Inoltre, nelle ultime righe, lo scritto di Gambescia sembra adombrare una dura verità con la quale i liberali devono confrontarsi se non vogliono, a loro volta, incorrere nell’ astrattezza: la società di massa , per le sue caratteristiche specifiche (comprese le crescenti richieste di interventismo statale), è (non so se irrimediabilmente) segnata da una diffusa ostilità al liberalismo. Il secolo XX, secolo del trionfo della società di massa, è stato anche il secolo del totalitarismo, fenomeno affatto nuovo che sarebbe impensabile nei suoi tratti caratterizzanti al di fuori di tale società, all’ interno della quale il liberalismo rischia di risultare perdente. Non solo nei regimi dichiaratamente totalitari ma anche quando, pur in presenza di una facciata politico-istituzionale che si dichiara ad esso ispirata, viene smentito dalla effettiva configurazione del potere politico ,delle strutture economiche e delle dinamiche della società civile».
Sostanzialmente riconosco il mio pensiero in questa esposizione, pensiero, credo condiviso dal professor Conte. Quindi non aggiungo altro.
Non può invece essere ignorata la domanda che mi pone a bruciapelo l’amico, dottor Alessandro Litta Modignani. Leggiamola insieme:
«Impeccabile. Adesso rivolto la frittata e ti faccio io la prossima domanda: esiste un liberalismo sociale? Un governo schiettamente liberale, che abbia a cuore la libertà economica e non aumenti le tasse, che prenda misure per alleviare le condizioni di vita del dieci per cento più povero della popolazione? I c.d. "servizi sociali", in un governo liberale, esistono? O vanno eliminati? A Gambescia l'ardua sentenza».
Purtroppo avere a cuore la libertà economica e al tempo stesso alleviare le condizioni della parte più povera della popolazione, senza aumentare le tasse, mi sembra utopico. A meno che non si condivida la posizione della sinistra favorevole allo stato fiscale di polizia.
In realtà, la ricchezza, prima di essere ridistribuita - ammesso e non concesso che un governo liberale debba occuparsi di queste cose - deve essere prodotta. La storia economica degli ultimi secoli insegna che il sistema di mercato, basato sulla libertà di impresa e di lavoro sotto questo aspetto è imbattibile. Perciò il primo compito di un governo liberale è quello di favorire la libertà economica e la crescita costante del Pil. Altrimenti, come diceva Turati a massimalisti e comunisti, si rischia di ridistribuire solo la triplice fame e solo la triplice miseria.
Il Pil crescente, si ridistribuisce da solo, via mano invisibile, o serve la mano visibile del governo, se non addirittura dello Stato?
Chi scrive ritiene che la redistribuzione attraverso la leva fiscale sia sufficiente ma a una condizione: che i tributi non influiscano sui costi di produzione, e quindi sui prezzi, penalizzando la competitività dei beni prodotti.
Per contro, la politica della spesa pubblica crescente, se ha un senso nella fasi di decollo economico nei paesi latecomer, diventa di regola un fattore distorsivo della legge della domanda e dell’offerta in tutti gli altri casi. Si tratta di un meccanismo pericoloso che va a influire sui costi, e quindi sui prezzi penalizzando la competitività, eccetera, eccetera
Perciò come “si alleviano le condizioni di vita del dieci per cento più povero della popolazione”? Lasciando che il mercato faccia il suo corso. Quanto ai “servizi sociali”, bisogna distinguere tra politiche del lavoro, che vanno improntate alle leggi di mercato (previdenza inclusa) e politiche assistenziali, “sociali”, che riguardano invece coloro che sono incapaci di produrre reddito, ai quali va giustamente garantito un minimo vitale. Ma, di certo, non si tratta del dieci per cento della popolazione.
Quindi il termine “servizi sociali”, inteso come riassuntivo delle politiche del lavoro e dell’assistenza, è fuorviante. A questo proposito, mi piace ricordare che il termine “sociali” rinvia a quello di società, giudicata nel suo insieme come una scusante ambientale di eventuali errori cognitivi umani.
Errori che il socialismo, anch’esso derivante dai termini sociale e società, vuole addirittura correggere dall'alto, se non cancellare del tutto, puntando sulla mano visibile e ultracognitiva dello stato.Come se dietro lo stato non ci fossero altri uomini con gli stessi limiti cognitivi di tutti gli altri uomini... E questo è un gravissimo limite intellettuale del socialismo.
Certo, sul piano politico, promettere di ridistribuire dall’alto e indicare nemici del popolo a coloro che sono in basso, evocando il futuro paradiso in terra è molto più facile del fare appello alla mano invisibile del mercato. Che per dirla con Manzoni, è una specie di dio “che atterra e suscita, che affanna e che consola”.
Insomma, in ultima istanza e semplificando (forse troppo), il liberalismo è accettazione del rischio cognitivo individuale mentre il socialismo ne resta il principale nemico (del rischio). E questo ci riporta oltre che al concetto di “servizi sociali” a quello di “liberalismo sociale”, che a mano a mano che si fa sociale, assume colorazione via via sempre più rosso acceso. Distanziandosi così da un liberalismo manzoniano (per così dire), qui descritto, che invece, come già osservato, atterra e suscita, affanna e consola…
Ovviamente, chi si vuole accomodare, si accomodi pure.
Carlo Gambescia
(*) Qui il testo su Craxi: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/dal-pci-ad-hammamet/
Qui quello sui rapporti tra liberalismo e socialismo: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/e-possibile-un-socialismo-liberale/
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