Molti non sanno che il punto più alto del consenso italiano, popolare, diciamo di proletari e borghesi, verso gli Stati Uniti, fu raggiunto nel 1918-19, dopo l’entrata in guerra effettiva degli Stati Uniti e la conseguente vittoria su tedeschi, austriaci e piccoli alleati.
Wilson, definito a furor di popolo uomo di pace, nel gennaio del gennaio 1919 venne accolto a Milano e Roma da folle strabocchevoli. Lo storico Piero Melograni ha dedicato al fenomeno del wilsonismo italiano pagine vivaci e interessanti. Come allora si diceva: “O Wilson o Lenin” (*).
Subito dopo le cose però cambiarono, a causa dell’atteggiamento filo-slavo degli Stati Uniti durante la stesura dei trattati di pace. Sicché gli italiani, vittime del mito della vittoria mutilata, dopo essere stati prigionieri di quello wilsoniano (“Pace e Legalità”), scelsero tra Wilson e Lenin, sospinti da antichi e misteriosi impulsi autodistruttivi, Benito Mussolini.
Si può dire che da allora per il mito politico degli Stati Uniti immacolati liberatori, eccetera, eccetera, andò sempre peggio.
Nonostante qualche rapsodica fiammata di simpatia durante il secondo intervento americano in Europa contro il nazi-fascismo e l'accomodante riparo offerto dal largo ombrello militare e atomico durante la Guerra fredda.
Tutto dimenticato. A destra e sinistra si celebra Sigonella come la conquista dell'India da parte di Alessandro Magno.
Il refrain è semplicissimo: sì, all’America, del cinema, della televisione, delle canzoni, delle mode, dello sballo, no al cosiddetto imperialismo militare yankee. Una forma di schizofrenia politica le cui origini ideologiche si possono ricondurre alla sbornia, e successivo risveglio, per il presidente Wilson.
Per chi segue più calcio che la sociologia, si può dire - per capirsi - che il meccanismo assomiglia a quello dell’allenatore portato prima alle stelle e poi alle stalle. I popoli, a differenza dei tifosi, dovrebbero sempre guardarsi dai facili entusiasmi. In particolare gli italiani... Ma non è così. Il che non significa, come vedremo, che l’indifferenza paghi.
La visita romana di Biden, qui per il G20, probabilmente rappresenta il punto più basso di questo processo. E' andata peggio della famoso viaggio di Nixon, nel settembre del 1970, in piena guerra del Vietnam, contestato ferocemente nelle piazze dalla sinistra parlamentare ed extraparlamentare.
Peggio per gli incidenti? No. Ieri i romani ( e più in generale gli italiani) sono rimasti indifferenti. E, come noto, l’indifferenza è un veleno politico più potente di qualsiasi contestazione.
D'altra parte, Biden dal punto di vista politico è di una mediocrità assoluta. Detto altrimenti: se la mediocrità di Trump era ed è di tipo attivo, quindi può fare danni, quella di Biden è passiva. Rimanda all’interpretazione di un mediocre attore di provincia, che recita senza infamia e senza lode la propria parte di attore principale. Lo spettatore torna a casa, senza ricordarsi nulla né del protagonista, né di ciò che ha visto a teatro.
Del resto, il fatto che papa Francesco, il presidente Mattarella e Biden si siano trovati d’accordo, "su pandemia e clima", indica che la politica mondiale, e non solo americana, si è ridotta a pura e semplice gestione geriatrica della realtà.
E questo, dispiace dirlo, è un altro aspetto della crisi dell’Occidente liberale. Di cui Biden, Mattarella e papa Francesco sono i necrofori. E quel che è peggio, tra l’indifferenza generale della gente, che ormai presta orecchio, ma neppure sempre, solo alle contrastanti affabulazioni dei virologi.
Carlo Gambescia
(*) Si veda l’ ottimo P. Melograni, “Storia politica della Grande Guerra (1915-1918)”, Editori Laterza, Bari 1972, pp. 529-530, 560.
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