Il libro della
settimana, Kenneth Minogue, La mente liberal, Liberilibri,
Macerata 2011, pp. XXXIV-288, euro 18.00.
Angelo Panebianco nell’eccellente Il
potere, lo stato, la libertà (2004) non cita neppure in
bibliografia il collega Kenneth Minogue, professore emerito di Scienze
politiche alla prestigiosa London School of Economics.
Un vero peccato, perché alcuni libri dell’attuale Presidente della Mont Pelerin
Society come The Liberal Mind
(1963) Nationalism (1967), Politics: A Very Short Introduction (1995) avrebbero impreziosito lo
studio di Panebianco, meritoriamente rivolto a conciliare liberalismo e
“politico”.
In che modo? Si prenda ad esempio The
Liberal Mind, finalmente uscito in Italia (La mente liberal, Liberilibri, pp.
XXXIV-286, euro 18.00). Si tratta di un libro ricco e problematico perché non
riduce il liberalismo a pura appendice del mercatismo antipolitico. Ma
procediamo per gradi.
Innanzitutto, si rifiuta la tesi del liberalismo come fenomeno non ideologico.
Per Minogue, infatti, il liberalismo è «un’ideologia» cresciuta, come tante
altre «all’interno di una tradizione particolare» di tipo individualistico.
Detto altrimenti: «Un insieme di idee la cui coerenza primaria deriva non dalla
loro verità e coerenza, come nella scienza e nelle filosofia, ma da qualche
causa esterna; più immediatamente, questa causa esterna sarà uno stato d’animo,
una visione, o un un’emozione». Tradotto: dal desiderio, storicamente
enucleatosi, di imporre una certa concezione sociale ritenuta giusta, più in
termini psicologici che scientifici.
Questo fattore emotivo-culturale ha però prodotto, come in altre ideologie, una
tensione interna. Dal momento che il liberalismo (una certa visione delle cose
come dovrebbero essere) si è ritrovato a fare i conti con la realtà storica
(con le cose come sono); realtà che, come ogni onesto sociologo ammette,
proprio individualistica non è.
E così, da un lato si è sviluppato uno spirito libertario, pronto a contrastare
qualsiasi attacco, da parte delle istituzioni reali, alla libertà
dell’individuo, dall’altro uno spirito salvazionista o liberal (come
preannuncia il titolo del libro) che ritiene di sapere quale sia il vero bene
per ogni individuo, fino al punto di favorire la dissennata manipolazione
costruttivista delle istituzioni reali.
Va perciò cercato un punto di equilibrio tra libertarismo e salvazionismo
liberal. Minogue crede nella possibilità di individuare una terza via liberale
tra il Far West di cartapesta, caro a certi libertari e l’opprimente welfarismo
liberal. Ma in che modo? Partendo da tre consapevolezze di tipo politico.
Uno, che la politica «si manifesta quando esiste conflitto e spesso sembra
provocare, o quanto meno accentuare , il conflitto stesso ». Perciò «l’ambizione
di quanti cercano l’armonia», come ad esempio propugnano i liberal, «comporta
l’abolizione dell’attività politica ».
Due, che «come la soluzione dell’intesa definitiva è un’ illusione, così il
tentativo», gradito ai libertari più accesi, «di eliminare la politica dagli
affari umani può avere come conseguenza solo il suo mascheramento».
Tre, che « la politica è una modalità d’azione, appannaggio di certi insiemi
autocoscienti di pensiero e di sentimento, che possiamo chiamare movimenti; e
il risultato dell’emergere di una politica è la creazione e il mantenimento
delle istituzioni». Quindi se è vero che esiste l’individuo, è altrettanto vero
che l’uomo necessita di istituzioni, che, di riflesso, sono frutto di movimenti
sociali.
Di conseguenza, individui, istituzioni e movimenti, contrastandosi, innervano
il moto perpetuo della politica, segnato da decisioni politiche e dilemmi
morali. Altro che il pacifico welfare universale per tutti e per sempre, come
predicano i liberal… O l’ O.K. Corral mercatista con le pistole a tappi del
dolce commercio, come propugnano certi libertari…
Una chicca: l ’argomentazione di Minogue si avvicina molto a quella di Carl
Schmitt, che proprio amico del liberalismo non era… C’è addirittura un punto
dove Minogue sembra parafrasare, certo in modo inconsapevole, il pensatore di
Plettenberg: « La distinzione politica più importante è fra ciò che è esterno e
interno. Ogni governante è un Giano bifronte che guarda all’interno verso i
suoi sudditi e all’esterno verso gli altri Stati sovrani. Per i suoi sudditi è
un protettore, nei suoi rapporti esterni è un difensore del suo popolo, e
perciò un potenziale nemico[per altri popoli, ndr]. Tale punto è stato trattato
minuziosamente da Hobbes , ed è riconosciuto nell’anelito liberal per un’istituzione
- il governo mondiale - che non abbia nulla che le sia esterno. Questa
sembrerebbe infatti la soluzione al problema delle inimicizie: chi governasse
il pianeta, non sarebbe nemico di nessuno. Il problema che questo sogno
presenta consiste nel fatto che ciò che è fisicamente interno all’istituzione
potrebbe essere politicamente esterno. Per esempio, i criminali per definizione
considerano un nemico chi governa; e se, come nelle rivoluzioni, lo Stato fosse
politicamente concepito nei termini di fedeltà a un insieme di idee, intere
categorie di individui potrebbero essere emarginate - ebrei, bantù, kulaks
[Kulaki, ndr], aristocratici , oppositori, tanto per fare solo gli esempi più
ovvi ».
Insomma, il liberalismo di Minogue è politico, perché, in ultima istanza,
rinvia al conflitto amico-nemico e alla consapevolezza «che gli uomini, in vari
tempi e luoghi, sono stati pronti a combattere per una bizzarra congerie di
obiettivi; in molti casi sono pronti a combattere per il solo gusto di
combattere».
E qui vale la pena di ricordare che un liberal come Keynes in Politici ed economisti ironizzò su
Churchill, ritenendolo animato dalla stessa consapevolezza politica, qui
rilevata in Minogue. L’economista scrisse di provare «un tantino di invidia
[verso Churchill, ndr], per la sua convinzione incrollabile che frontiere,
razze, patriottismo, perfino guerre se necessario, siano per il genere umano
verità ultime: convinzione che conferisce ai suoi occhi una specie di dignità,
e perfino nobiltà, a eventi che per altri non sono che un ossessionante
interludio, qualcosa da bandire in eterno ».
Certo, Churchill era un conservatore, Minogue un liberale. Il che però
significa che le vie del “politico”, come quelle del Signore, sono infinite…
Carlo Gambescia
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