Il libro della
settimana: Giampaolo Pansa, Carta Straccia. Il potere inutile dei
giornalisti italiani, Rizzoli 2011, pp. 412, euro 19,90.
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Una volta arrivati a pagina
412, l’ultima, del libro di Giampaolo Pansa (Carta
Straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani, Rizzoli, euro
19,90), ci si sente come dopo un lungo viaggio ferroviario in compagnia di
qualcuno simpatico ma verboso. Quando, scendendo, ci si chiede ma di cosa ha
parlato il nostro compagno? Boh… Di tutto un po’. E così è andata con Pansa:
«Tizio è un furfante, Caio un dritto, Sempronio un inetto…; Quando ero giovane
io, caro lei…; Quello sì che era un uomo…». Certo, Pansa non è uno qualsiasi,
sa sempre come farsi ascoltare.
Ma procediamo per gradi. Intanto, per parlare difficile qual è il sottotesto?
Che «il giornalismo di oggi » somiglia a una «macchina confusa, a volte immersa
nel caos, e non di rado un nido di vipere, uguali a tanti altri serpai
d’Italia». Non è una grande scoperta… Già il Balzac de Le illusioni perdute,
ego-dirimpettaio ottocentesco che a Pansa non dovrebbe dispiacere, aveva capito
tutto: « Il giornalismo è un inferno, un abisso d’iniquità, di menzogne, di
tradimenti ».
Certo, Pansa attualizza, facendo nomi e cognomi. E come sempre il suo stile è
inconfondibile, musicalmente lo si potrebbe definire un evergreen: «Questo è un
libraccio molto personale», scrive, «zeppo di ricordi, di personaggi di
situazioni. Tutta merce spacciata alla buona, quasi sempre in modo sornione e
allegro. Ma con un bel po’ di pagine toste scritte all’arma bianca, da vera
carogna».
Giusto, « merce spacciata alla buona ». Forse, troppo alla buona però. Perché
il libro ruota intorno al pop-tormentone, oggi targato Libero-il Giornale .
Quello della sinistra post-comunista e post-illuminata («Partito de La
Repubblica » in primis) che odierebbe a morte il parvenu Berlusconi, fino al punto di
evocarne la defenestrazione. Anche a colpi di mini-riproduzioni del Duomo
milanese.
Ora, per carità, nessuno nega la natura settaria dell’ antiberlusconismo. Ma
quel che manca è la corretta genealogia storica dell’odio un tanto chilo verso
il Cavaliere. Pansa (forse perché allievo di Alessandro Galante Garrone?)
glissa sulla natura autoritaria dell’azionismo politico, soprattutto di marca
torinese, principale collante storico e ideologico del fascismo degli
antifascisti: un mix di giacobinismo e perfettismo morale, oggi ben
esplicitato, perfino nei titoli, dal «Partito de La Repubblica ». Un
«partito» di spocchiosi Unti dalla Ragione che pretende di costruire ex novo l’italiano, sempre a calci nel
sedere come il fascismo, ma in nome delle libertà borghesi. Tuttavia, se ci si
perdona la caduta di stile, i calci in culo sono sempre calci in culo, a
prescindere dall’uniforme del sergente maggiore di turno.
Si dirà, un giornalista, anche bravissimo, non è tenuto a leggere a fondo quel
(pardon) palloso di Augusto Del Noce. Giusto. Peccato però, perché
approfondendolo, Pansa, col suo fiuto, avrebbe scoperto che tra la Repubblica di Scalfari
e quella di Mauro c’è solo differenza di grado e mai di specie...
Nel libro c’è anche del buono, e non poco. Infatti, nonostante la “tratta” sia
lunga, il viaggio scorre in modo piacevole. Perché dal finestrino si possono
apprezzare i numerosi ritratti in stile “bestiario” di colleghi e personaggi
politici, dove Pansa dà il meglio di sé, come nel caso di Gianfranco Fini: «Per
cominciare, aveva una faccia sbirola, stramba da seminarista frustato. Con quel
naso a proboscide che sembrava sempre sul punto di staccarsi. Il suo lento
accento bolognese mi ricordava il “lasagne, lasagne!”. Era la cantilena che, un
tempo, alla stazione di Bologna accoglieva i viaggiatori affamati di pasta al
ragù». Niente male come inizio. «Mentre lo seguivo passo dopo passo», prosegue
Pansa, «compresi di Fini più di una cosa. La prima era che Lasagne aveva la
stoffa non dell’ideologo o dello stratega, bensì soltanto del tattico. Capace
di marciare con un ritmo costante, ma senza correre a rompicollo. E soprattutto
senza avere ben chiaro il traguardo ». Colpito e quasi affondato. Ma ora viene
il meglio: « Argenio Fini [il padre di Fini, volontario della Divisione San
Marco, ndr] era scampato alle mattanze dei vincitori comunisti nel dopoguerra.
Chi non aveva avuto la stessa fortuna era stato un cugino del padre. Quel
parente si chiamava Gianfranco Milani e aveva vestito la divisa della Guardia
Nazionale Repubblicana a Bologna. Il 26 aprile 1945 venne sequestrato dai
partigiani rossi a Monghidoro (…). Da allora sparì nel nulla (…). E quando il
futuro presidente della Camera nacque (…) fu chiamato Gianfranco in memoria di
quel ragazzo assassinato». Ecco, la stoccata finale: «Le mie ricerche sulla
guerra civile mi hanno insegnato che, nel mondo dei vinti, non succede quasi
mai che le vicende famigliari vengano cancellate. È una costante che vale non
soltanto per i genitori, i fratelli e le mogli di chi ha perso la vita, ma
anche per i figli, i nipoti, i pronipoti. Il sangue versato e il silenzio
imposto dai vincitori rendono la memoria uno scudo. I vinti non dimenticano. E
quasi mai cambiano campo, anche quando arrivano a pensare che i loro morti
abbiano pagato per una causa sbagliata. Fini non appartiene a questa etnia» .
Pagina strepitosa. Da sola, vale il prezzo dell’intero "biglietto
ferroviario"...
Carlo Gambescia
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