giovedì 30 settembre 2010

Il libro della settimana: Matthew Fforde, Desocializzazione. La crisi della post-modernità, Cantagalli pp. 390, euro 15.50.

www.edizionicantagalli.com


A chi abbia letto con gusto e attenzione il nostro post di ieri sul neo-corporativismo, consigliamo di recuperare un libro uscito nel 2005: Matthew Fforde, Desocializzazione. La crisi della post-modernità (Cantagalli, Siena, pp. 390, euro 15,50). Dove c’è un gustoso capitoletto proprio sul mercatismo. Che da solo vale la lettura dell’intero libro. L’autore, storico e filosofo sociale, già docente a Oxford, vive in Italia da una ventina di anni. Attualmente insegna Storia della cultura inglese e Storia contemporanea presso la Libera Università Santissima Assunta di Roma (LUMSA). Desocializzazione, oltre a vincere il "Premio Capri-San Michele 2006", è uscito nel 2009 anche in Gran Bretagna. Di prossima pubblicazione l'edizione francese.
Piccolo inciso: già il titolo è dirompente, perché sottolinea la fine di ogni legame sociale: ognuno per sé e neppure Dio per tutti… Va inoltre ricordato che Fforde ha scritto anche un’avvincente Storia della Gran Bretagna (1832-2002), tradotta da Laterza. Dove attraverso le lenti di un intelligente e ribelle (per l’Inghilterra) conservatorismo a sfondo cattolico, ricostruisce, parafrasando Battiato, la lenta disgregazione spirituale e sociale, della sua “povera patria”. Un processo, da lui visto, come anticipatore, di movimenti similari, poi rifluito verso il resto dell’Europa nei termini di quella “desocializzazione” di cui sopra. Capace, appunto, di recidere ogni legame sociale in nome di una visione egoistica dei diritti dell’individuo, e in particolare di quelli economici.

Ma, attenzione, Fforde non è un reazionario. Il suo cattolicesimo pur essendo esplicito è della stessa stoffa, finemente lavorata al cesello del ragione, dei Chesterton, dei Belloc, dei Dawson. Il suo è un pensiero fondato sull’accettazione del dettato di Papa Wojtyła: Quale? Quello di un mondo moderno da ri-evangelizzare, non con la spada, ma con la testimonianza della ragione, o meglio delle “ragioni” cristiane. Non vorremmo però metterla sul religioso, rischiando di confondere - o far scappare - il lettore, magari poco “frequentante”… Anche perché desideriamo parlare di “mercatismo”.
Ora però entriamo nel merito. A pagina 267 di Desocializzazione si legge:

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“Negli ultimi decenni il dibattito politico (e la politica) sono stati caratterizzati anche dal conflitto fra le varie forme di collettivismo e un approccio che mette in netto risalto i benefici del libero mercato. ‘Mercatismo’ potrebbe essere una definizione adatta a quest’ultima dottrina”. Ma che cos’è il mercatismo? Per saperlo, basta voltare pagina: “ Secondo il mercatismo, in una società è di primaria importanza l’economia della libera impresa, ciò che il mercato promuove ha senz’altro un grande valore, e il futuro della civiltà va garantito tramite l’adesione ai principi del mercato. Questo “orientamento” - prosegue Fforde - è però “chiaramente economicistico, in quanto si privilegia la dimensione economica dell’uomo e della società. Per molti aspetti il mercatismo, al pari del collettivismo e del dirittismo [come culto secolarizzato dei diritti dell’uomo], diventa una sorte di filosofia di vita che influisce sul comportamento, sui valori e sugli atteggiamenti, sull’identità individuale e sulle prospettive collettive” .
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Il che però non significa, che si debba sostituirlo con lo statalismo, o peggio ancora con il collettivismo: entrambi nemici del vero comunitarismo. Su questo Fforde è molto chiaro: si deve impedire che “il pensiero e la pratica mercatista” operino “in direzione di uno sgretolamento della comunità”. Recidendo - o “desocializzando” - tutti i legami che non siano di tipo economico: familiari, parentali, amicali e comunitari; legami che invece dovrebbero essere alla base di una sana economia di mercato.
Ma, ancora una volta, lasciamo che sia Fforde a spiegarsi:

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“Nel recepire l’economia o il mercato come una macchina indipendente” si è grandemente “sottovalutato l’importanza e il valore del patrimonio antropologico della comunità sia per l’economia sia per la comunità nel suo insieme”: un “errore elementare che, visto a distanza, sembra incredibile. Chiunque abbia viaggiato ha potuto constatare come la cultura imprima tracce profonde sul mondo delle ricchezza e della sua produzione. Basta andare in Italia per rendersi conto di quante siano le imprese a carattere familiare, di piccole o medie dimensioni; oppure in Giappone, con i suoi valori legati all’unità aziendale” (p. 269).
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In buona sostanza la tragedia del “mercatismo contemporaneo” è che
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"tralascia gli aspetti strutturali della società (...) sminuendone la portata. Si mette in opera una tendenza distruttiva: ci potranno essere anche stipendi elevati e abbondanza di beni grazie alle politiche mercatiste, ma le tradizioni che sostengono la comunità vanno perdute” (p. 270)
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In poche parole, conclude Fforde, il mercatismo
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“può incoraggiare una sorta di fissazione sull’economia a detrimento di altri elementi vitali della nostra vita comune… questa dottrina, inoltre può ridursi a nient’altro che un contratto sociale da due soldi fondato sul reciproco laissez-faire mirato al perseguimento del profitto personale” (Ibidem) .
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Ovviamente Fforde, che non è un economista, piuttosto che risposte formula domande. Ma di quelle buone, come questa:
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“Può l’uomo vivere di solo pane? Il successo del mercato gli può davvero portare la felicità? Può l’economia dare all’uomo ciò di cui ha veramente bisogno? Dobbiamo davvero inquadrare la nostra vita nella società in termini di realizzazione economica?" (Ibidem)
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Probabilmente qulcuno penserà che le domande poste sono troppo filosofiche… Certo, il problema, al quale Fforde non risponde, per ragioni di formazione, è come contenere tecnicamente il mercatismo. Probabilmente la riposta è quella, molto classica, del capitalismo sociale di mercato: di un sistema economico, capace di conciliare mercato e comunità, come ad esempio avvenne nella Germania di Adenauer ed Erhard. O se si vuole, in grado di coniugare un moderato interventismo pubblico nei settori delle infrastrutture sociali (scuola, università, sanità, pensioni), lasciando però larghi spazi alle autonomie locali, in termini di sussidiarietà e di partecipazione dei lavoratori agli utili ma anche alla gestione delle imprese. Perciò, sul piano politico, si tratterebbe di innescare un meccanismo virtuoso capace di favorire il rafforzamento di una società civile, economicamente sviluppata ma al contempo non priva di legami comunitari. Per farla breve: passare dalla desocializzazione alla risocializzazione, attraverso la gestione del mercato, fondata su una visione sociale dell’impresa (in termini di responsabilità verso la collettività e non solo nei riguardi degli azionisti).
Qualcuno però penserà che il capitalismo sociale è una sorta di quadratura del cerchio mai riuscita, se non per puro caso nella Germania del secondo dopoguerra. E che il mercato, per produrre ricchezza, non può essere imbrigliato. O al massimo “sottoposto a regole”. In effetti... Ma come far rispettare le regole in un mondo “desocializzato”, che “adora l’economia” e non rispetta l’uomo? regola delle regole. Nonché, quella che è la Regola delle regole delle regole... Quale? Dio, of course.


Carlo Gambescia

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