La vita "low cost" dei giovani
Stando a certi giornali sembra che oggi sia di moda tra i
giovani mostrare di saper vivere con mille euro al mese. In realtà, tra i
ventenni-trentenni non affiora grande entusiasmo per la vita low cost, ma
soltanto rassegnazione.
Infatti, secondo alcune ricerche sociologiche, i giovani
tra i 25 e il 35 anni (ma si è ancora "giovani" a 35 anni?),
avrebbero smesso di lottare per migliori condizioni lavorative. Anche se con
titoli accademici finiscono per accontentarsi (1 laureato su 2) di lavori
precari. Perché?
Per almeno quattro ragioni.
La prima ragione, risale al fatto che i giovani sono le
vittime più facili, e in certo senso predestinate, di una società che dipinge
la "flessibilità" come il migliore dei mondi possibili. Chiunque oggi
accetti di buon grado un lavoro a termine e sottopagato, è subito definito un
"buon lavoratore": gode di consenso sociale. E se giovane, si ritiene
che sia più che giusto per lui "fare gavetta". La flessibilità rinvia
a sua volta al nuovo modello di relazioni lavorative adottato in Europa negli
ultimi 15-20 anni. Che tendenzialmente è molto simile (anche se non ancora
uguale per fortuna) a quello americano, basato sulla discontinuità del rapporto
di lavoro.
La seconda ragione, risale a un fatto culturale: il mordi
e fuggi delle imprese nei riguardi del lavoratore precario è dovuto a un vero e
proprio mutamento di valori. Anche se in passato lo era, oggi non è più
accettata (e se lo è, spesso a fatica) l'idea di una soglia dignitosa, per
tutti, di benessere, sicurezza e stabilità lavorativa.
Pertanto, ed ecco la terza ragione, per gli under 35,
formatisi (in termini di processi di socializzazione e
"acculturazione") negli ultimi 15-20 anni, "precarietà" e
"basso stipendio" oggi rappresentano la "normalità". E qui
ha giocato e gioca un ruolo determinante la pressione sociale (la
"coazione" ad assorbire e imitare certi comportamenti ritenuti
socialmente vincolanti e inclusivi). Soprattutto sul piano mediatico, il
messaggio, per così dire "subliminale" è di dover accettare qualsiasi
lavoro anche malpagato, precario e privo di tutele, per mostrare al mondo
"quanto si è bravi". Per "sentirsi" con se stessi, come
quel attore, oggi, importante, ma che ieri, faceva anche lui cameriere o il
dipendente di un call center... Insomma, il precariato viene presentato come un
segno di distinzione sociale: il biglietto fortunato per una carriera luminosa.
Infine, e questa è la quarta ragione, la rassegnazione
dei "giovani perdenti", che è pero mitigata dalla speranza di poter
prima o poi emergere, o comunque "sistemarsi bene", si accompagna a
una socialità conflittuale, segnata da bassa sindacalizzazione e da una
insufficiente vita relazionale sul posto di lavoro. Tutti, pensano a se stessi,
e nell'altro non c'è lo specchio del proprio precariato, ma un potenziale e
pericoloso concorrente, nella gigantesca gara che ha come traguardo rinnovi
contrattuali e premi di produzione. Tutti rigorosamente individuali.
Quali conclusioni?
Sicuramente non positive Dal momento che quanto più si
diffonde la flessibilità tanto più si afferma il processo collettivo di
degradazione del lavoro.
Perciò per molti giovani il "low cost" potrebbe
diventare una condizione permanente di vita.
Carlo Gambescia
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