Ciampi, Scalfari Romano e i giudici
L'utopia dell'imparzialità
"Giudici siate e apparite imparziali".
L'appello di Ciampi ai giudici dell'Associazioni Nazionale Magistrati ha
suscitato un interessante scambio di editoriali polemici tra Sergio Romano e
Eugenio Scalfari. Che merita una riflessione.
Infatti le posizioni di Romano e Scalfari riassumono in
modo esemplare i termini ideologici del dibattito sull'imparzialità dei
giudici. E non solo.
Secondo Romano ("Il ritorno all'imparzialità"-
25.2.06 - www.corriere.it) "il
magistrato che si esprime nella vita pubblica come cittadino e come elettore
perde una parte della sua autorità morale. Se vuole essere rispettato deve
rinunciare ad alcune facoltà e licenze, deve essere magistrato anche quando non
tratta di affari della giustizia". In pratica il giudice deve "uscire
dalla mischia [politica] e parlare soltanto nei tribunali. Un passo -conclude
Romano - che gioverebbe alla loro autorità e all'Italia".
Secondo Scalfari ("Le toghe rosse e la guerra dei
cent'anni" - 26.2.06 - www.repubblica.it)
"un cittadino che decide a un certo punto della sua vita di scegliere la
carriera giudiziaria, di partecipare ad un concorso e di vincerlo, da quel
momento in poi [dovrebbe se desse ascolto a Sergio Romano] comportarsi come un
monaco di clausura, sordo, cieco e muto in tutto salvo che agli articoli delle
legge ". Il che però, conclude, suona come "un invito (...) scoperto
all'ipocrisia". Si "pretende che il magistrato ne faccia sfoggio
riducendosi a un manichino impagliato".
E qui è bene fare chiarezza. Scalfari rappresenta il
versante progressista del liberalismo. Mentre Romano ne rappresenta
quello conservatore. Le due facce della stessa moneta.
Per il liberismo progressista (che ha origini giacobine)
il diritto è uno strumento di intervento sociale, di cui il giudice si serve
per cambiare la società e migliorare l'uomo. In questo senso il giudice viene
prima delle legge.
Per il liberalismo conservatore (che ha origini
utilitaristiche) il diritto è uno strumento per limitare il danno sociale, di
cui il giudice si può servire solo nei limiti consentiti dalla legge. In questo
senso il giudice viene dopo la legge.
Scalfari vede nella difesa dell'imparzialità dei giudici
di Romano, una difesa dello status quo (della società italiana, messa invece a
dura prova da Berlusconi...). Mentre Romano vede nella difesa
dell'interventismo dei giudici di Scalfari un attacco a quella che nonostante
Berlusconi resta la migliore delle società italiane possibili...). Scalfari è
dalla parte di Saint-Just, Romano da quella di Bentham e Burke.
Entrambi, per esemplificare si ispirano a due modelli
società: con o senza Berlusconi... Perciò esprimono due posizioni assolutamente
politiche, segnate appunto dall' interventismo o dall' imparzialità verso
Berlusconi. Indicando ai giudici due precisi schemi di comportamento politico.
Da questo punto di vista, piaccia o meno, il diritto
rivela di essere sempre politico. Dal momento che è sempre in qualche misura
interventista, anche quando si richiama all'imparzialità: il giudice, come lo
Stato in economia, "interviene"anche quando si astiene perché
"lascia fare" sulle base di norme giuridiche, o economiche, superate
o inadeguate ai nuovi bisogni... Perciò l'imparzialità dei giudici è pura e
semplice utopia. In certa misura, il più coerente tra i due, è Scalfari, il
quale rivendica apertamente l'interventismo dei giudici. E bene fa a parlare di
ipocrisia, a proposito delle tesi di Romano.
A questo punto però è corretto continuare ancora a
parlare di divisione liberale dei poteri e di indipendenza della magistratura
dalla politica? Soprattutto se la si intende come indipendenza da un progetto
politico di società? Non è altrettanto ipocrita, come fa Scalfari, rivendicare
a un tempo l'interventismo dei giudici (in nome di un progetto politico) e
l'indipendenza degli stessi giudici dal potere esecutivo e legislativo, cioè da
istituzioni che di fatto e di diritto incarnano un preciso progetto politico?
Quello, comunque, rappresentato dalll'unica moneta del pensiero liberale...
La tragedia della teoria liberale dei diritto è appunto
questa: se c'è concordanza di progetti tra politica e magistratura si rischia
un totalitarismo interventista di tipo giacobino, se non c'è concordanza la
"guerra civile" tra politici e giudici (tra conservatori e
progressisti, o come sta accadendo tra berlusconiani e antiberlusconiani).
Il vero punto della questione è come uscire dal vicolo
cieco. E in definitiva della necessità - anche se l'espressione può
apparire paradossale - di una giustizia giusta, nei riguardi di tutti i
cittadini. Probabilmente andrebbe rimessa in discussione la divisione dei poteri.
Ma come? Ecco il problema...
Carlo Gambescia
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