Sociologia dell'acqua
Lo scorso 30 gennaio in Campania l'assemblea dei sindaci
di Napoli-Castelvolturno ha deciso, per l'area di propria competenza, il ritiro
di una precedente delibera (del 23 novembre 2004) che apriva le porte alla
privatizzazione di 136 comuni campani.
Si è trattato di una decisione importante, frutto
soprattutto di una pressione dal basso, di quella che Padre Zanotelli, in un
articolo sul "Manifesto" (del 31-1-05) ha definito "società
civile organizzata" . Ma purtroppo i grandi giornali non ne hanno parlato.
Il problema della proprietà pubblica dell'acqua (ma
sarebbe preferibile definirla "collettiva"), come del resto altri
grandi questioni "ambientaliste", sta assumendo un'importanza
strategica, per un capitale privato, sempre più affamato di profitti. E questo
spiega il silenzio del "Corriere della Sera", "Repubblica",
"Stampa", per non parlare dei giornali della destra conservatrice e
liberale. Tutti dipendono finanziariamente, chi più chi meno, da quelle lobby non solo italiane, che vogliono appropriarsi di un
"bene comune", come l'acqua, per trasformarlo, in una ennesima fonte
di lucrosi guadagni.
Di qui la necessità di opporsi, ovviamente sempre in modo ragionato. Di qui, la necessità di una spiegazione sociologica dell'intera questione.
L'idea economicistica di fondo è che non esistono beni
collettivi, ma solo beni privati e acquisibili, sul mercato, pagando un
"prezzo". L'assioma sociologico sottostante è che l'individuo è tutto
e la collettività nulla. Attenzione, si crede nell' individuo autosufficiente
in grado di lavorare e acquistare i beni di cui ha bisogno. Si dà, insomma, per
scontato che tutti siano in grado di farcela da soli. E che chi "non
riesce" sia colpevole, perché non si è abbastanza impegnato.
Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo anni
Ottanta, ama ripetere nei suoi libri, con autentico sadismo, che nel
capitalismo "nessun pasto è gratis": ogni bene ha un prezzo. E
soprattutto che nessuno può pretendere di vivere alle spalle dell'altro.
Tuttavia, affinché si giunga alla mercificazione totale è prima necessario
attribuire al bene un carattere di "fruibilità limitata". La scarsità
di un bene, determina il suo prezzo, e proprio perché il bene è scarso, e
quindi raro, il suo prezzo non deve essere eccessivamente basso. E comunque, sarà
il mercato, attraverso la concorrenza a fissare il prezzo "giusto"
per produttori e consumatori.
Questa, in breve, la vulgata liberista. Che, una volta
compresa nelle sue linee di massima, consente però di distinguere le tre
principali fasi di un processo "idealtipico di privatizzazione" : 1)
si dichiara l'acqua un "bene scarso";"2) si danno per scontate
l'autosufficienza dell'individuo e la bontà dei meccanismi concorrenziali; 3)
si dà il via alle privatizzazioni ( su questi aspetti processuali si veda il
post del 29-11-2005).
Fortunamente, grazie alla "società civile
organizzata", almeno in Campania, il processo è stato, per il momento,
fermato. Ma occorre una decisa inversione di rotta.
L'acqua non è un bene scarso. Ma è un risorsa mal
distribuita e poco condivisa (soprattutto tra Nord e Sud del mondo). E anche se
lo fosse, in quanto risorsa necessaria alla riproduzione della vita, andrebbe
messa gratuitamente a disposizione di tutti, evitando sprechi e
razionalizzandone, con investimenti pubblici, la rete di produzione e
distribuzione.
L' uomo non è un'isola: l' individuo non sempre è
autosufficiente, e dunque ha bisogno di un sostegno pubblico e di un rete di
solidarietà. E soprattutto di non essere mai privato di quelle risorse, come
l'acqua, necessarie alla sua riproduzione fisica.
I mercati, oltre a essere imperfetti, escludono coloro
che non possono "accedervi", perché privi di lavoro, e dunque di
reddito spendibile.
Privatizzare il settore significa avviare un processo di
concentrazione monopolistica e di conseguente assorbimento delle imprese più
piccole da parte di imprese più grandi, e probabilmente straniere.
Sono verità "sociologiche" semplici, diremmo quasi luoghi comuni. Eppure..
Nessun commento:
Posta un commento