Alvi, Bernanke
e il prezzo della ricchezza
Molti commenti economici si fondano su una
"verità" che non è tale. Quale? Che il mercato capitalistico
distribuisca e suddivida redditi e patrimoni in modo pressoché giusto,
premiando meriti e capacità.
E' perciò difficile trovare qualche commento, che invece
asserisca, con lucidità e senza piagnistei pseudospartachisti, quanto il
mercato in realtà, soprattutto quello monetario (tassi, banche e dintorni) sia
basato e moltiplichi le diseguaglianze di reddito e pratrimonio.
Sotto questo aspetto l'articolo di Geminello Alvi apparso
ieri sul "Corriere Economia", Bernanke a rischio bolla (www.corriere.it), rappresenta una eccellente
eccezione.
Alvi, riflettendo sulla situazione monetaria statunitense,
intuisce che il re è nudo. E va al di là delle questione se continueranno a
crescere o meno i tassi di interesse Usa. Secondo l'economista il "prezzo
della ricchezza", di case e titoli di stato (e di tutte quelle componenti
statiche che vanno a formare i patrimoni individuali) è negli ultimi anni
straordinariamente cresciuto, e non solo in America, a spese del reddito (cioè
di quel flusso di ricchezza, dinamico, creato dal lavoro umano).
Per Alvi, che concentra il suo interesse sugli sviluppi
del mercato immobiliare, tutto ciò significa due cose:
La prima è che la politica (Usa) di bassi tassi di
interesse ha determinato un crescita delle liquidità, e quindi una eccessiva
disponibilità di denaro, che ha fatto lievitare il mercato dei titoli di stato
e il soprattutto il prezzo degli immobili.
La seconda è che una politica del genere, non privilegia
chi vive dei propri redditi (del proprio lavoro, qualunque esso sia), ma chi
già dispone di ingenti patrimoni, e che perciò è "più avanti" degli
altri nella corsa verso l' appropriazione di ricchezze patrimoniali.
Fin qui Alvi.
Che cosa significa questo dal punto di vista sociologico?
Che i troppi dollari in circolazione fanno diventare i ricchi più ricchi e i
poveri più poveri. Facendo così lievitare il "prezzo" per diventare
ricchi (patrimonialmente parlando): più aumenta la domanda di proprietà
immobiliari più, ovviamente, ne aumenta il prezzo. E più diventa difficile, per
chi vive di reddito e non di patrimonio (di "rendita"), acquisire un
immobile (e mantenerlo). Mentre chi già ne possiede per miliardi di dollari,
vede il suo patrimonio rivalutarsi in misura crescente, e soprattutto può
continuare ad acquistarne ancora... E si tratta di un processo che riguarda non
solo l'America ma tutto l'Occidente, per così dire, "dollarizzato".
Quali sono le conclusioni di Alvi? Che una stretta
monetaria Usa, più che prevedibile, potrebbe provocare un aggiustamento dei
tassi ipotecari e far scoppiare la "bolla" patrimoniale. Ironicamente
scrive "che le famiglie americane hanno comprato dei derivati [i mutui
ipotecari per comprarsi una casa] e non lo sanno".
Giusto. Ma chi pagherebbe il costo sociale di tutto
questo? Quali potrebbero essere le conseguenze sociologiche della stretta
monetaria? Dell' "impulso deflattivo"? Le perdite di chi è ricco
sarebbero sicuramente inferiori, e di molto, rispetto a quelle di chi vedrebbe
crollare il valore di una casa, faticosamente acquistata. E magari costretto a
svenderla per far fronte a una improvvisa crisi di liquidità.
Alvi, come pochi, intuisce brillantemente il problema. E
dimostra con grande chiarezza come il mercato capitalistico, soprattutto
monetario, sia fonte e viva di ingiuste diseguaglianze. E come la moneta non
sia mai un velo... Ma, dopo aver scoperto che il re è nudo, preferisce tacere.
Nella chiusa infatti, si limita solo a consigliare, che i banchieri (centrali),
tengano conto in futuro anche del prezzo della ricchezza e non solo dei prezzi
al consumo.
E qui pecca di ottimismo. Perché è come chiedere al
famigerato scorpione della gnomica, non solo hollywoodiana, di non pungere. Non
può farne a meno: è la sua natura. Così come è natura, o regola, dei banchieri
centrali difendere i patrimoni di chi li ha nominati e consacrati.
Carlo Gambescia
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