C’è un filo che lega la prima pagina del “Tempo” di oggi al micro-presepio piazzato come centrotavola nell’ultima puntata prenatalizia del “Paradiso delle signore”. Un filo sottile, ma resistentissimo. Non è complottismo: è egemonia culturale allo stato elementare.
Si dirà che le nostre critiche sono cose da intellettuali, anzi da “fissati”: alla gente comune, alla gente “normale” non interessano. Anche perché neppure ci fa caso. Ecco, questo è il vero punto della questione, Nessuno si accorge del veleno somministrato, goccia a goccia, giorno dopo giorno. Perciò non è questione da intellettuali, ma problema di libertà.
Partiamo dal ‘Tempo’, oggi diretto da Capezzone, che si proclama liberale: un po’ come Giovanni Gentile, filosofo liberale… e fascista. Solo che qui il Gentile è spiegato al popolo, con sottotitoli inclusi.
La prima pagina di oggi è esemplare, non per ciò che rivela, ma per ciò che mette in scena. Il titolo — “Il Federatore” — campeggia su un’immagine di George Soros isolata, monumentalizzata, caricata di una funzione simbolica che va ben oltre la notizia. Non un finanziatore, non un attore politico discutibile come molti altri, ma il centro occulto, Il “numero uno” che tiene i fili, colui che “chiama” e a cui la sinistra “risponde”. La politica ridotta a teatro delle ombre, dove i soggetti spariscono e restano solo burattini, nelle mani del grande Mangiafuoco.
Non è giornalismo d’inchiesta. È narrazione identitaria. Il lessico è quello: “ombra”, “capo”, “braccio operativo”, “federatore”. Un vocabolario che non serve a capire, ma a riconoscere. Il lettore non deve interrogarsi, deve sentirsi confermato. Non c’è complessità, non c’è contesto, non c’è dubbio. C’è un Nemico — sempre lo stesso — e un Noi che finalmente può dirsi innocente. L’ “Ebreo eterno” della propaganda nazista, come scrivevamo ieri l’altro (*). Ci risiamo insomma.
Qui sta la vera trasformazione del “Tempo”. Non semplicemente uno spostamento a destra — cosa legittima in una stampa pluralista — ma una mutazione più profonda: l’abbandono del dubbio come metodo. Per abbracciare l’altro metodo, quello complottista. Un metodo che presiede alla stesura di un classico dell’antisemitismo: I “protocolli dei “savi anziani” di Sion”, opera della polizia segreta zarista (quando si dice il caso: non è poi mutata molto la Russia dall’Okhrana di Nicola II alla guerra ibrida di Putin…).
“Il Tempo” non informa più per problematizzare; informa per rassicurare. Non apre conflitti interpretativi; li chiude in anticipo. È un giornale che urla per non dover pensare. E l’approccio può essere esteso a tutta la stampa organica alla destra. Questa destra che, nelle migliore delle ipotesi, ancora crede che il fascismo abbia fatto “anche” cose buone
E il paradosso è romano. Perché Roma non è mai stata la città del pensiero allineato. È la città di Pasquino, ma anche della Repubblica Romana del 1849, del liberalismo militante, della libertà pagata con l’esilio e con il sangue.
Delle cannonate e della satira che graffia il potere, che lo espone al ridicolo, che non costruisce miti ma li infrange.
La tradizione polemica romana è feroce, sì, ma intelligente; corrosiva, ma mai servile. Qui invece siamo alla caricatura: un potere che non tollera l’ambiguità e dunque la cancella, sostituendola con figure archetipiche che rinviano alla amara stagione dei fascismi. Del Manifesto e della Difesa della Razza.
Al riguardo si noti anche la sapida vignetta di Oshø, un esempio di umorismo identitario che lavora per allusione e semplificazione, associando implicitamente alterità culturale, Islam e degrado sociale. Non un’affermazione esplicita, ma una contiguità simbolica, tra Islam e “maranza”, che parla da sola.
Il richiamo al presepe che per la destra sembra ormai essere come lo spadone del crociato, funziona però da collegamento con quel che accade nella stessa città che, insieme al “Tempo” ospita la Rai. E non è un dettaglio.
Nell’ultima puntata prima di Natale del “Paradiso delle signore”, una delle fiction più popolari del servizio pubblico, il momento culminante è un pranzo prenatalizio coronato da un “grande gesto”: un micro-presepio come centrotavola. Scena tenera, apparentemente innocua. E infatti il punto non è la religione. Il punto è il simbolo.
Quel presepio non racconta il Natale come esperienza plurale, culturale, storica. Racconta il Natale come marcatore identitario. È il “nostro” Natale, silenziosamente contrapposto a qualcos’altro che non viene nominato ma aleggia. L’Islam dei “Maranza”, neppure tanto adombrato nella vignetta di Oshø . Lo stesso Natale evocato negli editoriali del “Tempo”, dove il presepio diventa baluardo, confine, risposta implicita a un mondo percepito come ostile. E che il “politicamente corretto”, finanziato dall’ “Ebreo eterno” Soros, vuole cancellare.
Si dirà, ma come la destra – con Capezzone in testa – non difende Netanyahu? Certo, ma difende il nemico dell’Islam, o comunque un politico di destra, estrema tra l’altro, nazionalista fanatico. Inviso, come ci dicono i sondaggi, alla stragrande maggioranza degli israeliani e degli ebrei sparsi nel mondo. Netanyahu non è Israele, né tantomeno l’Ebraismo.
Così il cerchio si chiude: quotidiano e fiction, carta e televisione. Nessun ordine dall’alto, nessuna regia occulta. Molto più efficace: una convergenza spontanea di simboli, un senso comune che si deposita senza fare rumore. La destra che oggi governa non impone un’ideologia nuova: riattiva arcaici e indigesti repertori, li normalizza, li rende ovvi. Funziona da Maalox. Dal titolo cubitale al centrotavola.
La cosa più inquietante non è lo scandalo. È la banalità. Tutto questo non fa più rumore perché è diventato sfondo. E quando l’immaginario diventa sfondo, la partita è già avanzata. Trionfa la banalità del male, come abbiamo già scritto un milione di volte…
Roma, la città di Pasquino e del liberalismo militante, non dei santini; della beffa, non del catechismo mediatico, meriterebbe di meglio di un quotidiano che scambia la semplificazione per coraggio e di un servizio pubblico che confonde la tradizione con il conformismo.
Il problema non è il presepio. Il problema è chi lo mette, dove lo mette, e soprattutto perché.
Carlo Gambescia






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