L’Europa prova a resistere alla prepotenza russa, in particolare tre grandi nazioni storiche: Francia. Gran Bretagna, Germania. L’Italia nicchia, la Spagna sembra essere ancora più esplicita nel defilarsi. Il resto sembra procedere in ordine sparso. Vedremo cosa uscirà fuori dagli incontri di ieri. Il viaggio di Zelensky a Roma non sembra essere di grande utilità. Per l’Ucraina ovviamente.
Lo sforzo dei tre “volenterosi” ha qualcosa di eroico. Sempre se durerà. E lo ha unitamente alla figura di Zelensky, che se fosse stato il “servo dell’Occidente”, quindi un uomo privo di ideali, come proclama quell’accoppiamento poco giudizioso tra destra e sinistra che lavora 24 ore su 24 per Putin, sarebbe scappato all’estero, e ora sarebbe al sicuro, ricco e forse meno famoso.
Un inciso, può darsi che intorno a lui, non tutti siano alla stessa sua altezza, ma non si capisce perché, gli stessi postfascisti e postcomunisti che tuttora difendono Mussolini e Stalin, e addirittura Hitler, prendendosela con il “contorno”, non applichino la stessa logica “perdonista” a Zelenski. Servi! Voi non Zelensky. Servi prima di Putin, poi di voi stessi e dei vostri fallimenti politici.
Oggi però desideriamo fare il punto sulle idee di pace di Mosca e Kiev.
L’idea di “pace” che circola a Mosca e quella che circola a Kiev non potrebbero essere più lontane. Da una parte c’è un Paese che difende la propria sovranità, la propria democrazia e la propria sopravvivenza; dall’altra una potenza che si comporta come se fossimo ancora nel 1974, convinta di avere un diritto naturale a comandare mezzo continente.
Per l’Ucraina “pace” significa una cosa molto semplice: fine delle ostilità, nessuna cessione territoriale, garanzie internazionali e un ritorno alla normalità possibile.
Non chiede l’impossibile: solo di non dover firmare la propria autocancellazione. Kiev accetta l’idea di un cessate il fuoco e di negoziati, ma rifiuta che la pace passi per la mutilazione del Paese, il disarmo e la neutralità imposta. Una pace senza sovranità non è pace, è amministrazione coloniale con un nome più elegante.
Mosca presenta una “proposta di pace” che più che un’offerta assomiglia a un ricatto: 1) l’Ucraina dovrebbe cedere di fatto Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia, rinunciando a territori strategici e popolazioni che considera proprie; 2) riconoscere l’annessione della Crimea; 3) dichiararsi neutrale per sempre 4) limitare le sue forze armate e rinunciare al sostegno occidentale (quindi zero NATO); 5) andare a elezioni anticipate, e, tra le righe neanche tanto sottili, liberarsi di Zelensky.
Nella retorica russa, Zelensky è il “problema”: come se un capo di Stato eletto democraticamente fosse un ostacolo alla pace, e non un ostacolo alla resa.Putin non chiede solo territori: pretende di decidere chi debba governare un Paese che non è il suo. Una pretesa talmente arrogante da far sembrare il Cremlino un condominio litigioso che vuole scegliere pure l’amministratore del palazzo accanto.
Il disegno è evidente: non solo mutilare l’Ucraina, ma plasmare la sua leadership politica secondo i propri interessi. È il vecchio copione sovietico riciclato: se non puoi controllare il Paese, controlla almeno chi lo guida.
Accettare le condizioni russe aprirebbe un precedente devastante: significherebbe, dopo 80 anni di lectio liberale, legittimare l’idea che la forza armata crea diritto. E che un’aggressione, se portata avanti abbastanza a lungo, diventa politica estera legittima. Una lezione micidiale per ogni potenza revisionista del pianeta. E diciamo pure, negazionista del liberalismo.
A complicare il quadro c’è chi, come Trump, continua a leggere il conflitto con una superficialità disarmante. Per lui la guerra si risolve “in 24 ore” sedendosi al tavolo con Putin e costringendo l’Ucraina ad accettare quello che vuole Mosca.
Una ricetta talmente ingenua da risultare pericolosa: Trump non ha capito — o fa finta di non capire — che una pace ingiusta non pacifica nulla. Normalizza la violenza, premia l’aggressore e indebolisce gli alleati occidentali. Un mix perfetto per avere più guerra, non meno. Il che però si combina bene, con la visione antiliberale di Trump, che si avvicina pericolosamente a quella autocratica di Putin. Per la prima volta dal 1789, gli Stati Uniti vedono al potere un presidente, animato da una volontà di potenza, che fa veramente paura. Ecco la “rotella” impazzita, per così dire della politica mondiale: Trump.
Si rifletta. Che interesse avrebbero gli USA – per non parlare dell’Europa – a rimettere insieme i pezzi dell’impero russo? Zero. I valori divergono, gli interessi sono incompatibili, e il mondo del 2025 non è quello del 1975.
La Russia mai tornerà al livello sovietico: non ha l’economia, la demografia, l’industria né il soft power, nonostante le leggende metropolitane di una geopolitica postnazista sulla "magistrale" guerra ibrida di Mosca. Alla Russia rimane solo il solito arsenale nucleare: reliquia di un passato che non tornerà.
Si permetta un altro inciso. Per quanto il paragone sia delicato,
Israele — pur con eccessi spesso criticabili — combatte per lo stesso
principio che muove l’Ucraina: difendere la propria esistenza contro chi
nega il suo diritto a esistere. Le situazioni sono diverse, i contesti
lontani, ma la logica democratica è la stessa: uno Stato ha il dovere di
proteggere i propri cittadini da un’aggressione percepita come
esistenziale.
Metterli sullo stesso piano non significa giustificare tutto ciò che fa Israele, ma riconoscere che entrambi difendono la propria sopravvivenza contro chi sogna la loro scomparsa.
La Russia avrebbe un’altra via per tornare protagonista nel XXI secolo: 1) liberalizzare l’economia; 2) sviluppare i commerci; 3)rafforzare lo stato di diritto; 4)competere tramite innovazione e non minacce. Si chiama ricetta liberale. È la strada seguita da Germania, Giappone e Corea del Sud e anche Italia, dopo conflitti devastanti. Ma richiede aperture, investimenti, riforme — non carri armati. Mosca invece continua a coltivare l’illusione che il prestigio internazionale passi per la forza bruta.
Certo, la Russia potrà essere un Paese importante Potrà crescere, commerciare, innovare. Ma a una condizione: abbandonare l’ossessione imperiale. Finché non lo farà, nessuna “pace russa” sarà davvero una pace.
La Russia non tornerà mai più ai livelli dell’URSS. La dissoluzione del suo impero è definitiva: la storia, come il postino, non suonerà due volte.
Ogni gesto, ogni concessione a Mosca, ogni indulgenza politica — come quella di chi, alla Trump, vede in Putin un interlocutore possibile a prescindere — permette al Cremlino di coltivare illusioni pericolose. Illusioni che minacciano l’Ucraina, l’Occidente e persino la stessa Russia.
Chi pensa di poter “normalizzare” la potenza russa riproponendo vecchi schemi imperiali gioca con il fuoco: e il mondo, questa volta, non può permettersi di essere bruciato.
Il che ci riporta alla logica della fermezza. E se necessario del brigante a brigante a mezzo. Ma questa è un’altra storia. Almeno per oggi. Diciamo pure una pena al giorno.
Carlo Gambescia






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