Che cosa può dire oggi la figura filosofica di Benedetto Croce? È a questa domanda che pensavamo guardando il docufilm di Pupi Avati, “Un Natale a casa Croce”, trasmesso lunedì 26 dicembre intorno alle 23 su Rai 3 (*). A un anno dalla presentazione al Festival del cinema di Torino.
I dati Auditel parlano di uno share del 2,4% (**). Non è un “successone”, ma nemmeno un disastro totale. Rai 3, a notte fonda, non brilla quasi mai: dunque il 2,4% è basso, certo, ma nel contesto del canale e della fascia non sorprende né allarma più di tanto. Dice però un’altra cosa: la Rai sapeva fin dall’inizio che a quell’ora lo avrebbero guardato quattro gatti. Un mezzo disastro annunciato. Un mezzo terremoto di Lisbona, non frutto del caso, ma della volontà divina di Viale Mazzini.
Del resto, che cosa ci si può aspettare da una Rai che vede ai vertici un Giampaolo Rossi, proveniente dall’area della destra missina, quella che rivendicava l’opera dello Stato etico del fascismo? Come ricordava Croce dopo aver ricevuto a casa una visita notturna degli squadristi. Geniale, Avati, nel rammentarlo. Sebbene l’ironia — che un tempo bastava a mettere fuori gioco i nostalgici del fascismo — oggi non basti più. Ora sono in cattedra, cioè al governo: melliflui, ruffiani, per ora con i guanti di velluto, ma intenti a sbavare dietro Trump, Meloni, Orbán, Putin e gentaglia varia, reincarnazioni postmoderne di Hitler e Mussolini spiegati al popolo.
Nel docufilm di Avati c’è però un filosofo che la gente di oggi, ormai intrisa di stereotipi fascisti riverniciati come “sovranisti”, non può capire e forse neppure apprezzare. Va anche detto che la struttura del docufilm non aiuta. Sasso, classico esempio di professorale ossequiosità, e la colta signora Craveri — nipote di Croce, e va detto molto espressiva — incarnano uno snobismo liberale che talvolta può tradursi in giacobinismo. Un giacobinismo che, per truculenta reazione ( lo sgrammaticato “a lu pane e a lu vino ha da esse giacobino”), armò la mano dei sanfedisti napoletani nel 1799: i liberali finirono sul patibolo, con la complicità di un monarca che non vedeva più in là del proprio naso.
Per capirsi, snobismo come sordiano “io so’ io, e voi non siete un c…”.
Ma il vero nodo decisivo è un altro: Avati non “traduce” Croce, lo “addomestica”. La sua cifra intimistica — efficace altrove — produce una riduzione domestica del filosofo, trasformandolo in figura affettiva più che conflittuale. Il Croce di Avati è raccontato da dentro la casa e non dentro la storia: prevale il nonno sul polemista, il rituale familiare sul combattente civile. Così il regista, forse inconsapevolmente, disinnesca la carica europea e militante del pensiero crociano, che non è il giacobinismo di cui sopra, ma rigoroso impegno civile e civico, rendendo Croce compatibile con un presente che non vuole essere disturbato. Un Croce rassicurante e, proprio per questo, politicamente innocuo.
Il Croce di Pupi Avati, al di là di alcune fiammate — l’interventismo antidemocratico di D’Annunzio, l’estremismo di Gentile poi pagato con la vita, il brigantaggio fascista, la volgarità di Togliatti — resta più film che docu. Si indugia troppo, fin dal titolo, su un Croce nonno un po’ svanito, che sembra uscito da uno spot del panettone. Anzi: i nonni panettonati, oggi, sono postmodernamente più svegli.
È probabilmente questa l’idea che qualche spettatore capitato lì per caso si sarà fatto di Croce. Saremo brutali: un rincoglionito.
Avati, si sa, ha una cifra intimistica, talvolta fantastica, persino horror. È indubbiamente un uomo coltissimo. E qui si noti una sottigliezza — diciamo pure una cattiveria —: il taglio netto di Laterza, l’editore che fu una sorta di braccio editoriale delle idee di Croce almeno fino al 1950. La prova provata è l’edizione Adelphi di un testo crociano che appare a un certo punto in primo piano. Piccole vendette intellettuali.
Manca nel docufilm il respiro europeo, appena accennato, senza convinzione, a proposito del gigantesco epistolario crociano. Altri difetti concettuali? Troppa enfasi sul rapporto con Gentile, che più che un filosofo fu un teologo politico: l’esatto contrario del laico, politicamente laico, Croce. Perciò un rapporto, fascismo o meno, destinato inevitabilmente a esaurirsi. Quantomeno sul piano filosofico. E poi l’assenza dell’opera storica crociana, che pure aveva grande valore, soprattutto nel racconto dei progressi dell’Italia liberale. Non si può ridurre il liberalismo italiano alle cannonate di Bava Beccaris.
Insomma, ci siamo ritrovati tra le mani un Croce tutto famiglia e struffoli. E i nostri sono tempi in cui il liberalismo dovrebbe raccogliere da terra la spada. E per dirla tutto al posto dei birignao professorali, servirebbe persino un pizzico di giacobinismo. Perché i briganti sono tornati.
E gli struffoli non aiutano.
Carlo Gambescia
(*)Il film è visibile su RaiPlay: https://www.raiplay.it/video/2025/12/Un-Natale-a-casa-Croce-1a116d4d-b65d-4995-be58-0ac11edfa2a9.html .

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