Le tensioni sulle pensioni e le voci ricorrenti di un suo possibile siluramento non sono incidenti di percorso. Sono la prova decisiva: rivelano l’incompatibilità tra una minima razionalità economica e l’impianto culturale illiberale del governo Meloni.
Giorgetti prova – con prudenza quasi eccessiva – a ricordare che senza crescita, concorrenza e apertura dei mercati il sistema non regge: né le pensioni, né il debito, né lo Stato sociale. Fino a poco tempo fa, l’Italia aveva almeno qualche margine di manovra: una crescita lenta ma positiva, qualche riforma liberale, mercati ancora relativamente aperti. Con la Meloni, tutto questo è peggiorato: stagnazione economica, fiducia nel mercato ridotta, politiche timide o inesistenti a favore della libertà economica. Non per errore: per scelta.
Il suo governo non è liberale, né conservatore-liberale. È un governo illiberale, nel senso pieno del termine: diffida del mercato, teme la concorrenza, preferisce lo stato come scudo e regolatore morale. Da qui l’assenza quasi totale di politiche favorevoli alla libertà economica: niente liberalizzazioni significative, nessuna rottura delle rendite, nessuna fiducia negli individui come attori responsabili.
I dati parlano chiaro: secondo l’Index of Economic Freedom, l’Italia era meglio piazzata fino al 2022, con libertà economica in crescita. Oggi si colloca ottantunesima al mondo, sotto la media europea, con stagnazione dei punteggi e segnali di peggioramento (*)
Anche la libertà civile mostra il segno meno: rapporti europei e Freedom House evidenziano erosione di indipendenza della magistratura, controlli sui media e sulle ONG, segnali di “recessione democratica” rispetto agli anni precedenti (**)
Va ribadito un punto essenziale: libertà e libertà economica sono inseparabili. Non si tratta di scegliere tra spazi civili da una parte e mercati dall’altra: un individuo non è realmente libero se non può decidere come agire economicamente, né un mercato può funzionare senza cittadini capaci di muoversi liberamente al suo interno.
Per questo parliamo di liberalismo, e non di semplicistico “liberismo” (come invece fa certa sinistra populista, anticapitalista e antiliberale). Per capirsi una dittatura può essere liberista, ma non sarà mai liberale. Si pensi al primo Mussolini, che mise un liberista, De’ Stefani, all’economia (nella foto), o a Pinochet che favorì riforme liberiste. Da ultima la Cina, che non è assolutamente liberale.
Il liberismo riduce il discorso a numeri e profitti, che ovviamente vanno sempre tenuti in considerazione, tuttavia senza mai dimenticare che la libertà è un valore complessivo, civile, politico, economico. In fondo la timidezza di Giorgetti resta più liberista che liberale.
Se vogliamo usare un’espressione più precisa, possiamo parlare di liberalismo economico, ma sempre come parte integrante del liberalismo tout court. Senza questa connessione, ogni politica di controllo, pianificazione o restrizione — dai mercati al lavoro, dall’immigrazione alla concorrenza — mina la libertà stessa che pretende di difendere.
Tornando all’Italia del governo Meloni le politiche sull’immigrazione non sono una deviazione, ma una conferma coerente di questa visione. Il controllo rigido dei flussi non è solo securitario: è l’espressione di una mentalità che rifiuta apertura, mobilità e autoregolazione del mercato del lavoro. Lo Stato “meloniano”, per così dire, non si fida del mercato come non si fida delle persone: seleziona, blocca, amministra, reprime.
Su quest’ultimo punto, si veda quanto accaduto con i “ribelli dell’Aska” (secondo le definizioni della stampa governativa)… Lucidare l’argenteria della polizia e provocare tensione non è casuale: è repressione spettacolare, vecchia ricetta fascista, e serve a dipingere l’opposizione come banda criminale.
Il raffronto tra immigrazione e politiche pro-mercato è impietoso. Dove mancano queste ultime, la prima diventa terreno simbolico su cui esercitare l’illusione del controllo. L’immigrazione occupa lo spazio lasciato vuoto da una politica economica che non osa nemmeno pensare.
Gli italiani, del resto, sono poco liberali: chiedono protezione, non libertà; sicurezza, non concorrenza; ordine, non rischio. E la politica deve adeguarsi.
Questo governo non ha sacrificato il liberalismo per l’immigrazione. Ha sacrificato il liberalismo perché non crede nella libertà. E un paese che diffida della libertà, inclusa quella economica, può illudersi di governare l’immigrazione, ma resterà condannato alla stagnazione.
Sicché, punto che ci preme sottolineare, un timido liberista (attenzione non liberale), come Giorgetti, può apparire ad alcuni sprovveduti come un salvatore della patria liberale. Cosa che, come spiegato, proprio non è.
Carlo Gambescia
(**) Qui: https://freedomhouse.org/country/italy/freedom-world/2025?utm_source=chatgpt.com .
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