Le recenti decisioni europee sui finanziamenti all’Ucraina segnano, ancora una volta, un passo che Bruxelles presenta come responsabile, pragmatico, equilibrato. In realtà, si tratta dell’ennesimo compromesso: fondi sì, ma a debito; sostegno a Kiev, ma senza toccare gli asset russi congelati; continuità dell’impegno, ma nessuna scelta irreversibile.
Formalmente, l’Unione Europea continua a sostenere l’Ucraina. Politicamente, evita accuratamente di chiarire che cosa voglia davvero ottenere.
Il confronto è impietoso. La Russia di Putin ha un obiettivo chiaro: la vittoria sull’Ucraina e la revisione dell’ordine europeo. Zelensky ne ha uno altrettanto netto: resistere, vincere o almeno non perdere, non essere consegnato alla storia come il presidente che ha ceduto. Donald Trump – e con lui una parte non limitata dell’establishment americano – persegue un fine esplicito: chiudere il conflitto rapidamente, anche a costo di sacrificare l’Ucraina in nome della “pace”.
E l’Europa?
Qui sta il problema: l’Europa non esibisce un obiettivo politico riconoscibile, ma una sommatoria di cautele. Vuole evitare una guerra diretta con la Russia, contenere i costi economici e politici interni, preservare l’unità dei Ventisette. Per non parlare della ricerca degli equilibri interni dei singoli governi, oggi alle prese con opposizioni politiche filorusse o filotrumpiane. Tutto comprensibile in tempi normali. Ma non in tempo anormali. Perché nulla di tutto questo costituisce una strategia.
Dichiarare di voler favorire la vittoria dell’Ucraina senza predisporre un quadro temporale, industriale e militare credibile non è realismo: è retorica. Significa promettere sostegno illimitato con strumenti limitati e scadenze sempre rinviate. Il che è ridicolo. Tragicamente ridicolo. Kiev viene invitata a resistere, ma non le si offre la certezza di poter vincere. Vittoria, si badi, che consiste nel respingere i russi fuori dai confini violati. Tutto qui. L’invasione ucraina della Russia esiste solo per la propaganda filorussa.
Allo stesso tempo, l’Unione non si oppone davvero alla prospettiva di una pace imposta dall’esterno. Molte delle sue scelte – prudenza estrema, rinvio dei nodi giuridici, evitamento delle decisioni più radicali – restano compatibili con una futura soluzione negoziata dagli Stati Uniti, subita dall’Ucraina e accettata con sollievo a Bruxelles.
Ci sia consentito un inciso sull’evocazione dei cosiddetti “nodi giuridici” legati all’uso degli asset russi congelati. Si tratta, in larga misura, di una foglia di fico. Non perché i problemi legali non esistano, ma perché vengono agitati selettivamente per mascherare una scelta politica: non assumersi la responsabilità di un precedente che segnerebbe una rottura irreversibile con Mosca. Il diritto internazionale, qui, non è un vincolo invalicabile, ma un alibi conveniente. Quando serve, l’Europa sa interpretarlo; quando costa troppo, lo brandisce come scudo. Non è prudenza giuridica, è ritrosia strategica travestita da legalismo.
In definitiva, ciò che emerge è una linea che non è né bellicista né pacifista, ma attendista. L’Europa non pianifica la vittoria, non pianifica la sconfitta, non pianifica la pace. Pianifica piuttosto la gestione dell’incertezza. Venticinque secoli di realismo politico europeo gettati alle ortiche, sostituiti da una politica della prudenza che confonde il rinvio con la saggezza e l’assenza di decisione con la responsabilità. Ma nella storia europea l’indecisione non ha mai prodotto stabilità: ha solo preparato il terreno alle decisioni altrui, di dittatori, invasori e dinastie, anche ideologiche, più capaci.
Si potrebbe partire dalla forza dissolutrice della guerra del Peloponneso, quando l’inazione intermittente di Atene e Sparta aprì spazi a conflitti interni e indebolì le città-stato greche, creando le condizioni che permisero alla Macedonia di Filippo II di affermarsi come potenza dominante in Grecia. Passando poi alla debolezza del Senato romano durante la crisi della Repubblica, alla lentezza decisionale di alcuni imperatori del IV secolo, agli scandali e cedimenti dei Merovingi in Francia e ai problemi di consolidamento del regno vandalico in Spagna e Africa. Si potrebbe continuare con i successori di Carlo Magno, che spesso mancarono di una strategia coerente, per giungere, con un salto di non pochi secoli, alla dissoluzione dell’Impero asburgico e di quello russo tra Otto e Novecento. E infine cosa dire delle liberal-democrazie europee tra le due guerre mondiali che cedettero terreno ai fascismi? Proprio per la loro incapacità di assumere rischi politici tempestivi? Oggi, purtroppo, ci risiamo: il nemico si chiama Putin.
Purtroppo, in politica, l’incertezza non è mai neutra. Favorisce chi è
disposto a rischiare di più, chi ha meno vincoli interni, chi accetta
il conflitto come strumento. Non certo, come visto, l’Unione Europea.
Il risultato è una potenza economica che agisce come un nano politico-militare, quasi il tempo potesse
risolvere da solo i conflitti strategici, come se il galleggiamento
fosse una forma di saggezza. E invece non è così. Siamo davanti a una
prudenza che scivola nella rinuncia.
In questo quadro si colloca anche l’Italia, oggi rappresentata, dalle ciampanelle non solo di casa nostra, come attore decisivo o come coscienza atlantica dell’Unione. In realtà, il contributo italiano riflette la linea prevalente: cautela, adattamento, posizionamento senza assunzione di rischio. Non una guida, ma un accompagnamento disciplinato.
Giorgia Meloni viene celebrata come figura di equilibrio e affidabilità, con toni addirittura ditirambici, come oggi sulla prima pagina del “Secolo d’Italia” (si dirà non lo legge nessuno, però…).
In realtà, dietro una linea fatta di prudenza e posizionamento senza rischio, si intravede un attendismo calcolato: l’attesa che l’asse europeo si sposti più stabilmente a destra. È allora che una postura finora contenuta potrebbe trasformarsi in arrembaggio, liberando tendenze autoritarie, criptofasciste, ora tenute a freno dal contesto europeo e atlantico.
Non una nostalgia folkloristica, ma una disposizione politica: ordine prima del conflitto, forza prima della mediazione, obbedienza prima della deliberazione. Si guardi quel che sta accadendo con migranti e centri sociali. Siamo solo all’antipasto. Si potrebbe definire un uso selettivo, chirugico della forza.
Un impiego, che una volta agguantato saldamente il potere in Italia e in Europa, rischia di estendersi, considerata l’indole fascista – per dirla senza peli sulla lingua – se non a tutti i cittadini a quei gruppi o settori della società designati di volta in volta come “anti-italiani”. L’antico mantra mussoliniano.
Sotto questo aspetto, per ora non del tutto alla luce del sole, l’inerzia smette di apparire neutra e rivela la sua natura di investimento sul futuro: un adattamento pronto a rivendicare domani scelte che oggi non si assumono. Pura astuzia politica quindi.
In definitiva, la domanda che resta inevasa è semplice e insieme decisiva: quale strategia europea? Senza una risposta, ogni decisione finanziaria e ogni vertice restano amministrazione del presente. E il presente, prima o poi, presenta il conto.
Carlo Gambescia





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