mercoledì 24 dicembre 2025

Buon Natale? Bah… Dal giornale al centrotavola, come la destra governa l’ immaginario

 


C’è un filo che lega la prima pagina del “Tempo” di oggi al micro-presepio piazzato come centrotavola nell’ultima puntata prenatalizia del “Paradiso delle signore”. Un filo sottile, ma resistentissimo. Non è complottismo: è egemonia culturale allo stato elementare.

Si dirà che le nostre critiche sono cose da intellettuali, anzi da “fissati”: alla gente comune, alla gente “normale” non interessano. Anche perché neppure ci fa caso. Ecco, questo è il vero punto della questione, Nessuno si accorge del veleno somministrato, goccia a goccia, giorno dopo giorno. Perciò non è questione da intellettuali, ma problema di libertà.

Partiamo dal ‘Tempo’, oggi diretto da Capezzone, che si proclama liberale: un po’ come Giovanni Gentile, filosofo liberale… e fascista. Solo che qui il Gentile è spiegato al popolo, con sottotitoli inclusi.

La prima pagina di oggi è esemplare, non per ciò che rivela, ma per ciò che mette in scena. Il titolo — “Il Federatore” — campeggia su un’immagine di George Soros isolata, monumentalizzata, caricata di una funzione simbolica che va ben oltre la notizia. Non un finanziatore, non un attore politico discutibile come molti altri, ma il centro occulto, Il “numero uno” che tiene i fili, colui che “chiama” e a cui la sinistra “risponde”. La politica ridotta a teatro delle ombre, dove i soggetti spariscono e restano solo burattini, nelle mani del grande Mangiafuoco.



Non è giornalismo d’inchiesta. È narrazione identitaria. Il lessico è quello: “ombra”, “capo”, “braccio operativo”, “federatore”. Un vocabolario che non serve a capire, ma a riconoscere. Il lettore non deve interrogarsi, deve sentirsi confermato. Non c’è complessità, non c’è contesto, non c’è dubbio. C’è un Nemico — sempre lo stesso — e un Noi che finalmente può dirsi innocente. L’ “Ebreo eterno” della propaganda nazista, come scrivevamo ieri l’altro (*). Ci risiamo insomma.

Qui sta la vera trasformazione del “Tempo”. Non semplicemente uno spostamento a destra — cosa legittima in una stampa pluralista — ma una mutazione più profonda: l’abbandono del dubbio come metodo. Per abbracciare l’altro metodo, quello complottista. Un metodo che presiede alla stesura di un classico dell’antisemitismo: I “protocolli dei “savi anziani” di Sion”, opera della polizia segreta zarista (quando si dice il caso: non è poi mutata molto la Russia dall’Okhrana di Nicola II alla guerra ibrida di Putin…).

“Il Tempo” non informa più per problematizzare; informa per rassicurare. Non apre conflitti interpretativi; li chiude in anticipo. È un giornale che urla per non dover pensare. E l’approccio può essere esteso a tutta la stampa organica alla destra. Questa destra che, nelle migliore delle ipotesi, ancora crede che il fascismo abbia fatto “anche” cose buone



E il paradosso è romano. Perché Roma non è mai stata la città del pensiero allineato. È la città di Pasquino, ma anche della Repubblica Romana del 1849, del liberalismo militante, della libertà pagata con l’esilio e con il sangue.

Delle cannonate e della satira che graffia il potere, che lo espone al ridicolo, che non costruisce miti ma li infrange.

La tradizione polemica romana è feroce, sì, ma intelligente; corrosiva, ma mai servile. Qui invece siamo alla caricatura: un potere che non tollera l’ambiguità e dunque la cancella, sostituendola con figure archetipiche che rinviano alla amara stagione dei fascismi. Del Manifesto e della Difesa della Razza.

 


Al riguardo si noti anche la sapida vignetta di Oshø, un esempio di umorismo identitario che lavora per allusione e semplificazione, associando implicitamente alterità culturale, Islam e degrado sociale. Non un’affermazione esplicita, ma una contiguità simbolica, tra Islam e “maranza”, che parla da sola.

 Il richiamo al presepe che per la destra sembra ormai essere come lo spadone del crociato, funziona però da collegamento con quel che accade nella stessa città che, insieme al “Tempo” ospita la Rai. E non è un dettaglio.

Nell’ultima puntata prima di Natale del “Paradiso delle signore”, una delle fiction più popolari del servizio pubblico, il momento culminante è un pranzo prenatalizio coronato da un “grande gesto”: un micro-presepio come centrotavola. Scena tenera, apparentemente innocua. E infatti il punto non è la religione. Il punto è il simbolo.

 


Quel presepio non racconta il Natale come esperienza plurale, culturale, storica. Racconta il Natale come marcatore identitario. È il “nostro” Natale, silenziosamente contrapposto a qualcos’altro che non viene nominato ma aleggia. L’Islam dei “Maranza”, neppure tanto adombrato nella vignetta di Oshø . Lo stesso Natale evocato negli editoriali del “Tempo”, dove il presepio diventa baluardo, confine, risposta implicita a un mondo percepito come ostile. E che il “politicamente corretto”, finanziato dall’ “Ebreo eterno” Soros, vuole cancellare.

Si dirà, ma come la destra – con Capezzone in testa – non difende Netanyahu? Certo, ma difende il nemico dell’Islam, o comunque un politico di destra, estrema tra l’altro, nazionalista fanatico. Inviso, come ci dicono i sondaggi, alla stragrande maggioranza degli israeliani e degli ebrei sparsi nel mondo. Netanyahu non è Israele, né tantomeno l’Ebraismo.

Così il cerchio si chiude: quotidiano e fiction, carta e televisione. Nessun ordine dall’alto, nessuna regia occulta. Molto più efficace: una convergenza spontanea di simboli, un senso comune che si deposita senza fare rumore. La destra che oggi governa non impone un’ideologia nuova: riattiva arcaici e indigesti repertori, li normalizza, li rende ovvi. Funziona da Maalox. Dal titolo cubitale al centrotavola.



La cosa più inquietante non è lo scandalo. È la banalità. Tutto questo non fa più rumore perché è diventato sfondo. E quando l’immaginario diventa sfondo, la partita è già avanzata. Trionfa la banalità del male, come abbiamo già scritto un milione di volte…

Roma, la città di Pasquino e del liberalismo militante, non dei santini; della beffa, non del catechismo mediatico, meriterebbe di meglio di un quotidiano che scambia la semplificazione per coraggio e di un servizio pubblico che confonde la tradizione con il conformismo.

Il problema non è il presepio. Il problema è chi lo mette, dove lo mette, e soprattutto perché.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/quando-la-propaganda-si-traveste-da.html .

martedì 23 dicembre 2025

Donald I, Imperatore dell’emisfero occidentale

 


 

Si legga qui, è di ieri: «Abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza nazionale, dobbiamo averla», ha detto — e ripetuto più volte — Donald Trump, parlando con i giornalisti e commentando la nomina del governatore della Louisiana, Jeff Landry, a inviato degli Stati Uniti per la Groenlandia. «Abbiamo bisogno della Groenlandia per la protezione nazionale, non per i minerali. Hanno una popolazione molto piccola… Dicono che la Danimarca fosse lì 300 anni fa con una barca. Beh, anche noi eravamo lì con le barche, ne sono sicuro», ha aggiunto Trump (*).

Sapete, cari lettori, chi era animato da una volontà di potenza simile e finì per contribuire in modo decisivo allo scoppio di una guerra mondiale? Guglielmo II Hohenzollern, imperatore del II Reich tedesco, 1871–1918 (il I Reich è il Sacro Romano Impero medievale, mentre il III Reich sarà quello di Hitler, quando si dice il caso…).

Guglielmo II – Il “Kaiser” – era celebre per il suo avventurismo politico, per la Weltpolitik e per dichiarazioni del tipo «ci serve questo, ci serve quello». Francia e Gran Bretagna ironizzavano spesso su quella sua mania di grandezza, che non di rado si traduceva in iniziative diplomatiche e militari mal calcolate. Poi però finì come tutti sappiamo.



Ora la domanda è: Guglielmo II aveva alle spalle una cultura aristocratico-militare prussiana, un ethos imperiale che, nel bene e nel male, inscriveva il suo comportamento in un contesto storico preciso, segnato da rivalità tra potenze e da una concezione aggressiva del prestigio internazionale. Trump invece? Dovrebbe muoversi all’interno della più antica costituzione scritta liberal-democratica del mondo. Gli sfondi storici e culturali sono profondamente differenti. Eppure, ci risiamo.

Il punto, allora, non è il gioco — sempre un po’ ozioso — delle analogie storiche prese alla lettera, ma la natura del potere che Trump incarna. Nella storia esistono leader animati da una volontà di potenza distruttiva e leader capaci di trasformarla in ordine politico. La differenza non sta nella forza dell’ego — comune a entrambi — ma nell’intelligenza istituzionale.

Silla distrusse la Repubblica senza lasciare nulla di duraturo; Cesare aprì uno spazio di possibile ricomposizione; Augusto trasformò la forza in stabilità, la violenza in ordine, l’eccezione in sistema. Trump, invece, appartiene alla prima categoria: non interviene su un corpo politico morente, ma su una democrazia ancora funzionante, seppure fragile. È proprio questo a renderlo pericoloso: non cura una malattia terminale, ma peggiora una crisi in divenire.

 


La sua volontà di potenza non si traduce in progetto, riforma o nuova architettura istituzionale, bensì in pura personalizzazione del potere. Non è un Augusto mancato: è un distruttore puro che agisce là dove l’ordine, pur imperfetto, esiste ancora.

Hitler e Mussolini, per venire ai tempi moderni, furono distruttori puri: capaci di mobilitare masse e consenso, ma incapaci di produrre un ordine stabile, se non attraverso la guerra permanente e la repressione. Napoleone I, per certi aspetti, fu un Augusto; Napoleone III tentò di seguirne le orme, ma senza possederne la statura politica. Il risultato fu la rovina di un sistema — quello della Francia di Guizot — che non era in decadenza, ma in crescita. Fu un povero Cesare…

Si dirà che il 1945 è lontano, che il mondo è cambiato, che certi paragoni sono impropri. È l’argomento preferito di chi confonde la cronologia con la storia. In realtà, dal punto di vista metapolitico, ottant’anni sono un’inezia: troppo pochi perché una potenza vittoriosa dimentichi come si governa se stessa dopo la vittoria. Ed è precisamente qui che il paragone smette di essere erudizione e diventa allarme.

 


Trump non minaccia un’America decadente, ma gli Stati Uniti vittoriosi sulla Cartagine hitleriana, pilastro dell’ordine liberale nato nel 1945. Come spesso accade nella storia, il pericolo non viene dal nemico sconfitto, ma dalla potenza che non sa più governare se stessa dopo la vittoria.

Le nostre sono fantasie storiche? Anzi metapolitiche? Per qualcuno probabilmente sì. Ovviamente pensiamo ai sostenitori di Trump, che dove noi vediamo crisi di crescita, scorgono l’apocalisse.

Ma la storia insegna che il leader distruttore puro è sempre animato da una volontà di potenza incontrollata, incapace di riconoscere limiti, istituzioni e mediazioni. E Trump è così. Pur di tramutarsi in un Donald I, può causare danni enormi a quella parte dell’emisfero che, nella nostra terza e vittoriosa guerra punica, veniva chiamata semplicemente: il mondo libero.

Si pensi  infine alla  sua smania di apparire come uomo di pace, al pari di altri leader distruttori del passato: Silla, pur concentrato sul consolidamento del potere, si presentava spesso come restauratore dell’ordine a Roma; Napoleone III proclamava l’“Impero come pace”; Hitler prometteva al popolo tedesco una nuova epoca di sicurezza e stabilità dopo la rivincita sul trattato di Versailles; Mussolini e Guglielmo II, ciascuno a modo suo, annunciavano regolarmente che le loro azioni avrebbero portato a una lunga era di pace.


 

In realtà, anche in Trump, questa smania non è che un riflesso del suo desiderio di legittimazione e consenso: un’illusione che nasconde la sua capacità reale di generare disordine.

Sappiamo di ripeterci, ma vogliamo che il concetto entri davvero nella testa dei lettori: chi parla di pace mentre costruisce il proprio trono di potere non è un pacificatore, ma un fabbricante di disordine travestito da salvatore. Trump lo dimostra, come dimostrarono Silla, Napoleone III, Guglielmo II, Hitler, Mussolini: la vera minaccia non viene da chi minaccia apertamente, ma da chi seduce con le parole mentre devasta con i fatti.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/lannuncio-di-trump-piano-per-costruire-due-nuove-navi-da-guerra-saranno-letali_3Ma7gdUwXAeQ8NpGqSYpiI .

lunedì 22 dicembre 2025

Quando la propaganda si traveste da storia…

 


Sarà pure Natale, ma il clima resta inquietante. Putin accusa Zelensky di essere un nazista, mentre il presidente ucraino è il difensore della libertà. Sui social, importanti politici tedeschi ed europei di orientamento democratico, come Ursula von der Leyen e Friedrich Merz, vengono rappresentati letteralmente come nazisti, addirittura con i baffetti alla Hitler. Eppure, la realtà mostra tutt’altro, una vera e propria revanche diversa da quella che si vuole far percepire.

Ad esempio circola su YouTube un video presentato come materiale “storico”. In realtà si tratta di “Der ewige Jude” (“L’ebreo eterno”, 1940), uno dei più noti e infami film di propaganda del regime nazista (*). Non un documentario, non una fonte storiografica da maneggiare con cautela: un prodotto ideologico costruito deliberatamente per diffondere odio antisemita e preparare il consenso sociale allo sterminio.

Altro esempio, che merita attenzione. Il film americano “Nuremberg”, su Hermann Göring, appena uscito, si concentra troppo sull’analisi psicologica del gerarca nazista durante i processi. La scelta di mostrarne il carisma, l’intelligenza manipolatoria e le sfumature della personalità non è neutra, perché rischia di suscitare fascino e comprensione per un individuo responsabile di crimini atroci. La rappresentazione psicologica, pur fondata su evidenze storiche, può generare un effetto di banalizzazione, perché lo spettatore viene spinto a concentrarsi sul “come” e sul “perché” delle sue azioni più che sul loro peso morale e storico.



Questo slittamento non riguarda solo singole opere, ma una tendenza riconoscibile. Negli ultimi anni sono circolati — spesso senza adeguato contesto critico — film e serie che trattano l’universo nazista con un grado di ambiguità tale da sfiorare la fascinazione. “Unsere Mütter, unsere Väter” (2013), produzione tedesca di enorme successo, ha contribuito a ripulire l’immagine della Wehrmacht, spostando sistematicamente la responsabilità dei crimini su SS e “altri”, secondo una linea revisionista ormai ben nota. “Rommel” (2012) insiste sul mito del “buon generale”, rafforzando l’idea di un nazismo deviato solo nei suoi vertici estremi, “Der Untergang” (“La caduta”, 2004), pur formalmente rigoroso, ha inaugurato una stagione in cui Hitler diventa personaggio tragico, umano, quasi patetico, più che il capo politico di un progetto genocidario.

In questa linea si colloca anche Er ist wieder da (“Lui è tornato”, 2015), commedia satirica tedesca in cui Hitler “riappare” nella Germania contemporanea. Pur nata con intenti dichiaratamente critici, l’operazione è ambigua: la trasformazione del Führer in personaggio mediatico e comico rischia di ridurlo a maschera pop, rendendo di nuovo socialmente dicibile ciò che dovrebbe restare politicamente e moralmente incancellabile e imperdonabile (**)



Accanto a queste opere, esiste poi una galassia di prodotti minori — docufilm, serie pseudo storiche, contenuti digitali — che ricostruiscono l’estetica, la simbologia e persino la retorica del Terzo Reich con un’attenzione quasi feticistica: uniformi, disciplina, “efficienza”, spirito di corpo. Titoli come “Hitler’s Circle of Evil” (2018), “Nazi Mega Weapons” (2013–2016), “Inside the SS” (2017) vengono spesso presentati come divulgazione storica, ma finiscono per adottare il punto di vista del potere, raccontando il nazismo dall’interno, come se fosse un’esperienza manageriale o militare mal riuscita, non un sistema criminale fondato sull’eliminazione programmata di interi gruppi umani.

Il problema non è che questi prodotti esistano, ma che circolino sempre più spesso senza filtri, soprattutto sulle piattaforme digitali, dove l’etichetta “storico” sostituisce l’analisi critica e l’algoritmo premia ciò che affascina, non ciò che spiega. In questo contesto, la distanza tra ricostruzione storica e riattivazione simbolica diventa pericolosamente sottile.

La stessa Hollywood, già citata a proposito del film su Göring, nonostante le accuse, da parte della destra, di essere la custode del politicamente corretto, ha prodotto film come “Bastardi senza gloria” (“Inglourious Basterds”, 2009): nonostante il chiaro intento antinazista, l’approccio pulp e la riscrittura degli eventi storici giocano con l’estetica e la narrazione in modo che lo spettatore si trovi a “giocare” con il periodo nazista come se fosse un universo cinematografico alternativo, con figure di cattivi quasi fumettistiche, rischiando di trasformare il male storico in puro intrattenimento.

 


Ma torniamo a “Der ewige Jude”. Il film fu prodotto sotto la supervisione diretta del Ministero della Propaganda guidato da Joseph Goebbels. Come hanno mostrato in modo definitivo storici quali Raul Hilberg e Ian Kershaw (***), il nazismo non si limitò a esercitare violenza fisica: costruì prima una violenza simbolica sistematica, volta a disumanizzare gli ebrei, ridurli a stereotipo biologico e morale, renderli percepibili come minaccia collettiva.

Il film utilizza tutti gli strumenti classici della propaganda moderna: a) montaggio manipolatorio; b) falso linguaggio “scientifico”; c) accostamenti visivi degradanti; d) narrazione dicotomica (noi/loro). Non descrive la realtà: la fabbrica. E lo fa con uno scopo politico preciso, che non è oggetto di interpretazione ma di documentazione storica consolidata.

Inoltre la giustificazione inserita sotto il video non è sufficiente né accettabile. Riproporre integralmente un film di propaganda nazista, accompagnandolo da un disclaimer generico ma lasciandone intatto il linguaggio ideologico, significa contribuire alla sua normalizzazione. La storia non si tutela lasciando parlare la propaganda: si tutela smontandola. Tutto il resto è una scorciatoia pericolosa.

Qui occorre dirlo, forte e chiaro: la neutralità, in questi casi, non è una virtù ma una resa.

Il punto decisivo, oggi, non è il passato ma il presente. Ripubblicare questo materiale senza spiegazione critica attiva un meccanismo ben noto agli studiosi dei totalitarismi: la normalizzazione dell’ideologia attraverso la depoliticizzazione dei suoi strumenti.

Non si dice “viva il nazismo”. Si dice: “è solo un documento storico”. Non si giustifica l’odio. Lo si lascia circolare. Non si nega il genocidio. Si rende opaco il percorso che  ha condotto a tutto questo.

È una strategia sottile, ma efficace. Come ha mostrato Christopher Browning, lo sterminio non fu il risultato di un improvviso impazzimento collettivo, ma l’esito di una lunga opera di assuefazione morale. La propaganda serviva esattamente a questo (****).

Studiare questi materiali è necessario. Ma studiare non significa legittimare. Nessuno proporrebbe di mostrare un manuale di tortura come “opinione alternativa”. Eppure con la propaganda nazista si continua a giocare sull’equivoco, sulla falsa neutralità, sul “giudicate voi”.



Come abbiamo osservato, tira una brutta aria. Viviamo in una fase segnata dal ritorno di revisionismi, antisemitismo strisciante, relativismo storico. In Italia abbiamo al governo un partito che non ha mai fatto i conti con il fascismo. In Germania, l’AfD, partito di estrema destra, è oggi una delle principali forze parlamentari. Si tratta di forze politiche estremiste presenti anche in Francia, Spagna, nel resto d’Europa e soprattutto all’Est, che per ora mascherano i loro veri intenti.

In questo contesto, la diffusione non contestualizzata di materiali di propaganda nazista non è un incidente: è un fattore di rischio culturale e politico.

Non serve negare Auschwitz per minarne il significato. Basta rendere accettabile il linguaggio che lo ha reso possibile.

Si deve fare qualcosa. L’automatismo dei cosiddetti algoritmi non basta più. Perché quando la propaganda torna a circolare senza anticorpi, non è mai solo un problema del passato. È un segnale del presente. E, se ignorato, una pericolosa  ipoteca sul futuro della liberal-democrazia.

Carlo Gambescia

 

(*) “Der ewige Jude” (“L’ebreo eterno”), regia di Fritz Hippler, Germania, 1940; prima visione pubblica a Berlino, novembre 1940. Qui: https://www.youtube.com/watch?v=5Uy1LFDL9zU . Ma si vedano anche gli altri titoli disponibili sullo stesso sito (già visibili nella foto a corredo). Tutti a rischio, per usare un eufemismo.

(**) Un’operazione analoga è “Sono tornato” (2018), remake italiano con Mussolini protagonista: anche qui la satira gioca con il ritorno del dittatore nello spazio mediatico contemporaneo. Ma in un paese che non ha mai fatto davvero i conti con il fascismo, l’effetto non è solo ambiguo: è culturalmente irresponsabile.

(***) R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei in Europa, Einaudi, Torino, 2017; I. Kershaw, Hitler. Una biografia, Bompiani, 2004, 2 voll.; AA.VV., Storia della Shoah, Utet, Torino, 2005, 5 voll., con ricco apparato audiovisivo, opera fondamentale sull’argomento.

(****) C. R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino, 2022.

domenica 21 dicembre 2025

Il caso Giorgetti: la prova decisiva

 


Le tensioni sulle pensioni e le voci ricorrenti di un suo possibile siluramento non sono incidenti di percorso. Sono la prova decisiva: rivelano l’incompatibilità tra una minima razionalità economica e l’impianto culturale illiberale del governo Meloni.

Giorgetti prova – con prudenza quasi eccessiva – a ricordare che senza crescita, concorrenza e apertura dei mercati il sistema non regge: né le pensioni, né il debito, né lo Stato sociale. Fino a poco tempo fa, l’Italia aveva almeno qualche margine di manovra: una crescita lenta ma positiva, qualche riforma liberale, mercati ancora relativamente aperti. Con la Meloni, tutto questo è peggiorato: stagnazione economica, fiducia nel mercato ridotta, politiche timide o inesistenti a favore della libertà economica. Non per errore: per scelta.

Il suo governo non è liberale, né conservatore-liberale. È un governo illiberale, nel senso pieno del termine: diffida del mercato, teme la concorrenza, preferisce lo stato come scudo e regolatore morale. Da qui l’assenza quasi totale di politiche favorevoli alla libertà economica: niente liberalizzazioni significative, nessuna rottura delle rendite, nessuna fiducia negli individui come attori responsabili.



I dati parlano chiaro: secondo l’Index of Economic Freedom, l’Italia era meglio piazzata fino al 2022, con libertà economica in crescita. Oggi si colloca ottantunesima al mondo, sotto la media europea, con stagnazione dei punteggi e segnali di peggioramento (*)

Anche la libertà civile mostra il segno meno: rapporti europei e Freedom House evidenziano erosione di indipendenza della magistratura, controlli sui media e sulle ONG, segnali di “recessione democratica” rispetto agli anni precedenti (**)

Va ribadito un punto essenziale: libertà e libertà economica sono inseparabili. Non si tratta di scegliere tra spazi civili da una parte e mercati dall’altra: un individuo non è realmente libero se non può decidere come agire economicamente, né un mercato può funzionare senza cittadini capaci di muoversi liberamente al suo interno.



Per questo parliamo di liberalismo, e non di semplicistico “liberismo” (come invece fa certa sinistra populista, anticapitalista e antiliberale). Per capirsi una dittatura può essere liberista, ma non sarà mai liberale. Si pensi al primo Mussolini, che mise un liberista, De’ Stefani, all’economia (nella foto), o a Pinochet che favorì riforme liberiste. Da ultima la Cina, che non è assolutamente liberale.

Il liberismo riduce il discorso a numeri e profitti, che ovviamente vanno sempre tenuti in considerazione, tuttavia senza mai dimenticare che la libertà è un valore complessivo, civile, politico, economico. In fondo la timidezza di Giorgetti resta più liberista che liberale.

Se vogliamo usare un’espressione più precisa, possiamo parlare di liberalismo economico, ma sempre come parte integrante del liberalismo tout court. Senza questa connessione, ogni politica di controllo, pianificazione o restrizione — dai mercati al lavoro, dall’immigrazione alla concorrenza — mina la libertà stessa che pretende di difendere.



Tornando all’Italia del governo Meloni le politiche sull’immigrazione non sono una deviazione, ma una conferma coerente di questa visione. Il controllo rigido dei flussi non è solo securitario: è l’espressione di una mentalità che rifiuta apertura, mobilità e autoregolazione del mercato del lavoro. Lo Stato “meloniano”, per così dire, non si fida del mercato come non si fida delle persone: seleziona, blocca, amministra, reprime.

Su quest’ultimo punto, si veda quanto accaduto con i “ribelli dell’Aska” (secondo le definizioni della stampa governativa)… Lucidare l’argenteria della polizia e provocare tensione non è casuale: è repressione spettacolare, vecchia ricetta fascista, e serve a dipingere l’opposizione come banda criminale.

Il raffronto tra immigrazione e politiche pro-mercato è impietoso. Dove mancano queste ultime, la prima diventa terreno simbolico su cui esercitare l’illusione del controllo. L’immigrazione occupa lo spazio lasciato vuoto da una politica economica che non osa nemmeno pensare.



Gli italiani, del resto, sono poco liberali: chiedono protezione, non libertà; sicurezza, non concorrenza; ordine, non rischio. E la politica  deve adeguarsi. 

Questo governo non ha sacrificato il liberalismo per l’immigrazione. Ha sacrificato il liberalismo perché non crede nella libertà. E un paese che diffida della libertà, inclusa quella  economica,  può illudersi di governare l’immigrazione, ma resterà condannato alla stagnazione.

Sicché,  punto che ci preme sottolineare, un timido liberista (attenzione non liberale), come Giorgetti, può apparire ad alcuni sprovveduti come un salvatore della patria liberale. Cosa che, come spiegato, proprio non è.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://static.heritage.org/index/pdf/2025/2025_indexofeconomicfreedom_italy.pdf?utm_source=chatgpt.com .

(**) Qui: https://freedomhouse.org/country/italy/freedom-world/2025?utm_source=chatgpt.com .

sabato 20 dicembre 2025

Dopo il Consiglio europeo. Cosa vuole veramente l’Ue?

 


Le recenti decisioni europee sui finanziamenti all’Ucraina segnano, ancora una volta, un passo che Bruxelles presenta come responsabile, pragmatico, equilibrato. In realtà, si tratta dell’ennesimo compromesso: fondi sì, ma a debito; sostegno a Kiev, ma senza toccare gli asset russi congelati; continuità dell’impegno, ma nessuna scelta irreversibile.

Formalmente, l’Unione Europea continua a sostenere l’Ucraina. Politicamente, evita accuratamente di chiarire che cosa voglia davvero ottenere.

Il confronto è impietoso. La Russia di Putin ha un obiettivo chiaro: la vittoria sull’Ucraina e la revisione dell’ordine europeo. Zelensky ne ha uno altrettanto netto: resistere, vincere o almeno non perdere, non essere consegnato alla storia come il presidente che ha ceduto. Donald Trump – e con lui una parte non limitata dell’establishment americano – persegue un fine esplicito: chiudere il conflitto rapidamente, anche a costo di sacrificare l’Ucraina in nome della “pace”.

E l’Europa?



Qui sta il problema: l’Europa non esibisce un obiettivo politico riconoscibile, ma una sommatoria di cautele. Vuole evitare una guerra diretta con la Russia, contenere i costi economici e politici interni, preservare l’unità dei Ventisette. Per non parlare della ricerca degli equilibri interni dei singoli governi, oggi alle prese con opposizioni politiche filorusse o filotrumpiane. Tutto comprensibile in tempi normali. Ma non in tempo anormali. Perché nulla di tutto questo costituisce una strategia.

Dichiarare di voler favorire la vittoria dell’Ucraina senza predisporre un quadro temporale, industriale e militare credibile non è realismo: è retorica. Significa promettere sostegno illimitato con strumenti limitati e scadenze sempre rinviate. Il che è ridicolo. Tragicamente ridicolo. Kiev viene invitata a resistere, ma non le si offre la certezza di poter vincere. Vittoria, si badi, che consiste nel respingere i russi fuori dai confini violati. Tutto qui. L’invasione ucraina della Russia esiste solo per la propaganda filorussa.

Allo stesso tempo, l’Unione non si oppone davvero alla prospettiva di una pace imposta dall’esterno. Molte delle sue scelte – prudenza estrema, rinvio dei nodi giuridici, evitamento delle decisioni più radicali – restano compatibili con una futura soluzione negoziata dagli Stati Uniti, subita dall’Ucraina e accettata con sollievo a Bruxelles.

Ci sia consentito un inciso sull’evocazione dei cosiddetti “nodi giuridici” legati all’uso degli asset russi congelati. Si tratta, in larga misura, di una foglia di fico. Non perché i problemi legali non esistano, ma perché vengono agitati selettivamente per mascherare una scelta politica: non assumersi la responsabilità di un precedente che segnerebbe una rottura irreversibile con Mosca. Il diritto internazionale, qui, non è un vincolo invalicabile, ma un alibi conveniente. Quando serve, l’Europa sa interpretarlo; quando costa troppo, lo brandisce come scudo. Non è prudenza giuridica, è ritrosia strategica travestita da legalismo.



In definitiva, ciò che emerge è una linea che non è né bellicista né pacifista, ma attendista. L’Europa non pianifica la vittoria, non pianifica la sconfitta, non pianifica la pace. Pianifica piuttosto la gestione dell’incertezza. Venticinque secoli di realismo politico europeo gettati alle ortiche, sostituiti da una politica della prudenza che confonde il rinvio con la saggezza e l’assenza di decisione con la responsabilità. Ma nella storia europea l’indecisione non ha mai prodotto stabilità: ha solo preparato il terreno alle decisioni altrui, di dittatori, invasori e dinastie, anche ideologiche, più capaci.

Si potrebbe partire dalla forza dissolutrice della guerra del Peloponneso, quando l’inazione intermittente di Atene e Sparta aprì spazi a conflitti interni e indebolì le città-stato greche, creando le condizioni che permisero alla Macedonia di Filippo II di affermarsi come potenza dominante in Grecia. Passando poi alla debolezza del Senato romano durante la crisi della Repubblica, alla lentezza decisionale di alcuni imperatori del IV secolo, agli scandali e cedimenti dei Merovingi in Francia e ai problemi di consolidamento del regno vandalico in Spagna e Africa. Si potrebbe continuare con i successori di Carlo Magno, che spesso mancarono di una strategia coerente, per giungere, con un salto di non pochi secoli, alla dissoluzione dell’Impero asburgico e di quello russo tra Otto e Novecento. E infine cosa dire delle liberal-democrazie europee tra le due guerre mondiali  che cedettero terreno ai fascismi? Proprio per la loro incapacità di assumere rischi politici tempestivi? Oggi, purtroppo, ci risiamo: il nemico si chiama Putin.



Purtroppo, in politica, l’incertezza non è mai neutra. Favorisce chi è disposto a rischiare di più, chi ha meno vincoli interni, chi accetta il conflitto come strumento. Non certo, come visto, l’Unione Europea.
Il risultato è una potenza economica che agisce come un nano politico-militare, quasi  il tempo potesse risolvere da solo i conflitti strategici, come se il galleggiamento fosse una forma di saggezza. E invece non è così. Siamo davanti a una prudenza che scivola nella rinuncia.

In questo quadro si colloca anche l’Italia, oggi rappresentata, dalle ciampanelle non solo di casa nostra, come attore decisivo o come coscienza atlantica dell’Unione. In realtà, il contributo italiano riflette la linea prevalente: cautela, adattamento, posizionamento senza assunzione di rischio. Non una guida, ma un accompagnamento disciplinato.

Giorgia Meloni viene celebrata come figura di equilibrio e affidabilità, con toni addirittura ditirambici, come oggi sulla prima pagina del “Secolo d’Italia” (si dirà non lo legge nessuno, però…).



In realtà, dietro una linea fatta di prudenza e posizionamento senza rischio, si intravede un attendismo calcolato: l’attesa che l’asse europeo si sposti più stabilmente a destra. È allora che una postura finora contenuta potrebbe trasformarsi in arrembaggio, liberando tendenze autoritarie, criptofasciste, ora tenute a freno dal contesto europeo e atlantico.

Non una nostalgia folkloristica, ma una disposizione politica: ordine prima del conflitto, forza prima della mediazione, obbedienza prima della deliberazione. Si guardi quel che sta accadendo con migranti e centri sociali. Siamo solo all’antipasto. Si potrebbe definire un uso selettivo, chirugico della forza.

Un impiego, che una volta agguantato saldamente il potere in Italia e in Europa, rischia di estendersi, considerata l’indole fascista – per dirla senza peli sulla lingua – se non a tutti i cittadini a quei gruppi o settori della società designati di volta in volta come “anti-italiani”. L’antico mantra mussoliniano.

Sotto questo aspetto, per ora non del tutto alla luce del sole, l’inerzia smette di apparire neutra e rivela la sua natura di investimento sul futuro: un adattamento pronto a rivendicare domani scelte che oggi non si assumono. Pura astuzia politica quindi.

In definitiva, la domanda che resta inevasa è semplice e insieme decisiva: quale strategia europea? Senza una risposta, ogni decisione finanziaria e ogni vertice restano amministrazione del presente. E il presente, prima o poi, presenta il conto.

Carlo Gambescia

venerdì 19 dicembre 2025

Geopolitica e ridicolo. Quando il potere perde il senso del reale

 


Che in alcuni uomini e in alcuni gruppi esista una volontà di potenza è un dato elementare. Né è assurdo sostenere che tale volontà rinvii anche a strutture materiali, soprattutto economiche.

Il problema nasce quando questa constatazione descrittiva viene trasformata in una giustificazione normativa. È qui che entra in scena la geopolitica, non come strumento di analisi, ma come linguaggio di legittimazione. Ed è qui che emerge il suo tratto più caratteristico e meno confessabile: il ridicolo.

Il ridicolo della geopolitica non sta nella violenza in sé, ma nella pretesa di razionalità con cui la violenza viene rivestita. Sicurezza e autonomia (semplificando) vengono invocate come fini supremi, quasi naturali, mentre le scelte adottate per garantirle producono sistematicamente l’effetto opposto. In nome della sicurezza si genera insicurezza strutturale; in nome dell’autonomia si moltiplicano dipendenze. Ciò che dovrebbe essere mezzo diventa fine, e il fine si dissolve. La geopolitica, nata come strumento, finisce per autolegittimarsi come scopo ultimo. Quando accade questo rovesciamento, la razionalità si spegne come una lampadina fulminata.

L’aggressione russa all’Ucraina è un esempio quasi didattico di tale dinamica. Giustificata come necessaria per la sicurezza e l’autonomia della Russia, ha spinto la NATO a rafforzarsi, isolato ( o quasi) Mosca, indebolito la sua economia, logorato il suo apparato militare. Se questo è realismo, è un realismo maldestro, da copione mal scritto. Un realismo criminogeno, che gode nel male che procura agli altri,  ma dalle tendenze autodistruttive  (*). Classico effetto inintenzionale delle azioni sociali.

La geopolitica promette controllo e produce reazioni a catena che sfuggono a ogni controllo. Il risultato, non previsto, non è tragico nel senso classico del termine: è tragicomico, perché milioni di morti diventano il prezzo di argomentazioni che, a posteriori, appaiono goffe.



Diverso è il caso della reazione ucraina. Qui la geopolitica entra in gioco solo per “trascinamento”. Non c’è una volontà di potenza, ma una volontà di sopravvivenza. L’Ucraina non combatte per ridisegnare equilibri globali, ma per non essere cancellata come comunità politica. Mettere sullo stesso piano aggressione e difesa è uno dei trucchi più tipici del discorso geopolitico: serve a mascherare l’asimmetria causale dietro un lessico apparentemente neutro.

La storia moderna è costellata di esempi simili. Mussolini parlò di spazio, prestigio, sicurezza imperiale e ottenne il collasso dello Stato. Hitler, e nei suoi anni la geopolitica, venne trasformata dagli sgherri intellettuali del regime, in scienza esatta, portò la volontà di potenza a coerenza ideologica totale — sicurezza, autarchia, spazio vitale — producendo la distruzione della Germania e dell’Europa. Guglielmo II, con la sua Weltpolitik, contribuì a rendere la guerra generale probabile; Nicola II vi entrò per difendere onore e sicurezza, perdendo entrambi e l’Impero; Napoleone III, perdendolo,  precipitò il Secondo Impero  in  una guerra “necessaria”; Napoleone I costruì un ordine europeo fondato sulla forza e si trovò di fronte a una invincibile coalizione universale. La volontà di potenza, reiterata, non genera stabilità: genera nemici.



È utile chiarire cosa resta fuori. Le grandi conquiste delle dinastie mongole non sono geopolitica, ma conquista premoderna. Perciò anche la Cina, contrariamente a una certa vulgata allarmistica, non ha conosciuto una tradizione continuativa di volontà di potenza in senso geopolitico. Al netto delle parentesi delle dinastie mongole e del comunismo novecentesco, la sua proiezione storica è stata prevalentemente interna e imperiale, non espansiva. L’attuale dirigenza sembra aver scelto la geoeconomia come linguaggio del potere. Resta aperta una sola domanda, tutt’altro che oziosa: fino a quando?

La geopolitica, prodotto tipicamente moderno, nasce quando la volontà di potenza si traveste da linguaggio tecnico e pretende di essere razionale. Peccato che questo aspetto sia sfuggito a Heidegger, nemico giurato della tecnica ma propagandista filosofico del nazionalsocialismo. Quando si dice il caso…

Va ammesso che il cinema ha ben fotografato il fenomeno. Si pensi al “Dottor Stranamore” di Kubrick e ai suoi generali caricaturali. La geopolitica appare per ciò che è: una messinscena grottesca in cui uomini convinti di dominare il mondo sono in realtà prigionieri delle proprie mappe. Il potere che perde il senso del ridicolo diventa cieco. E quando il potere è cieco, diventa pericoloso.



Figure come Donald Trump rendono questa dinamica ancora più evidente. Non perché inaugurino una nuova geopolitica, ma perché ne mostrano il lato farsesco senza mediazioni. L’ossessione per i rapporti di forza, i confini, i dazi, unita al disprezzo per le conseguenze sistemiche, porta alla luce ciò che di solito resta nascosto sotto un linguaggio solenne. Trump non è un’anomalia: è la geopolitica senza trucco. Ed è proprio per questo che è pericoloso.

Il confronto con la geoeconomia chiarisce ulteriormente il punto. La geoeconomia rinvia al mercato, allo scambio, ai contratti, alle interdipendenze. Capitalismo e liberalismo, che ne sono il motore storico,  non eliminano il conflitto, ma lo regolano; non promettono sicurezza assoluta, ma riducono la distruttività. Accettano il limite. La geopolitica, invece, assolutizza il mezzo militare e lo trasforma in fine, finendo per distruggere le stesse condizioni della sicurezza che dichiara di perseguire.

Ecco perché la geopolitica è ridicola in senso strutturale. Non perché sbagli sempre, ma perché sbaglia sempre allo stesso modo. Distrugge ciò che dice di difendere, confonde l’aggressività con la lungimiranza, scambia la volontà di potenza di pochi per destino collettivo. Non è una scienza della necessità storica, ma una razionalizzazione ex post di decisioni già prese. Parliamo di una precisa regolarità metapolitica (**).



Il che spiega perché ci si deve opporre alla Russia: non per moralismo astratto o pacifismo d’accatto, né per aderire a una geopolitica concorrente, ma perché l’aggressione russa rappresenta una perdita totale del senso del ridicolo. 

E come detto quando il potere smarrisce il senso del ridicolo  diventa davvero pericoloso. Opporvisi non significa alimentare il conflitto, ma tentare di evitarne l’esito peggiore, che è quasi sempre lo stesso: una tragedia reale giustificata da argomentazioni tragicomiche.

In definitiva, la geopolitica è l’arte di trasformare mezzi distruttivi in fini apparentemente nobili e di chiamare realismo ciò che, a conti fatti, è solo una forma particolarmente costosa di criminogena miopia organizzata.
 

Carlo Gambescia

 

(*) Sul punto rinviamo al nostro Il Grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio, 2019.

(**) Sulle “regolarità” si veda il nostro Trattato di Metapolitica, vol. I, Storia, concetti e metodo, Edizioni Il Foglio, 2023, 2 voll.

giovedì 18 dicembre 2025

La destra e la distinzione tra cultura militante e vera cultura

 


Purtroppo sembra prevalere l’idea che la cultura di matrice o derivazione fascista sia un’opinione come un’altra.

In realtà non è così. La distinzione tra cultura militante e vera cultura è oggi più necessaria che mai, proprio perché viene sistematicamente oscurata. Si pensi alle polemiche in fondo inutili su Passaggio al Bosco. Inutili, ovviamente in un paese “normale”. Nel quale è cosa scontata non assegnare patenti di normalità al nazionalsocialismo.

Queste due forme di cultura, come detto, vengono invece presentate come equivalenti, quando non addirittura confuse per scelta strategica. Ma non lo sono affatto.

Partiamo allora dalle definizioni.

La cultura militante nasce da una presa di posizione ideologica preliminare. Parte da una conclusione già data e costruisce, in modo selettivo, un apparato concettuale che la giustifichi. Il suo obiettivo non è comprendere la realtà, ma orientarla; non è interrogare i fatti, ma usarli. È una cultura funzionale: semplifica, omette, enfatizza ciò che serve e rimuove ciò che disturba. Può essere colta, raffinata, persino brillante, ma resta subordinata a una causa. Il dubbio, quando compare, è puramente ornamentale.

La vera cultura, al contrario, non parte da una verità già decisa. Non si mette al servizio di un progetto politico, semmai lo sottopone a verifica. Non promette certezze, ma espone a rischi intellettuali. Accetta la complessità, tollera l’ambiguità, sopporta l’incoerenza dei fatti rispetto alle teorie. È per sua natura antidogmatica e per questo spesso scomoda. Non mobilita, non rassicura, non fidelizza: problematizza.

La differenza fondamentale è semplice: la cultura militante chiude il discorso; la vera cultura lo apre, anche quando il risultato è disturbante.



Un esempio attuale di cultura militante è offerto da una parte della destra italiana oggi al governo, in particolare quella riconducibile a Giorgia Meloni, le cui radici storiche e simboliche affondano nel filone post-fascista. Qui la cultura non serve a fare davvero i conti con il fascismo come esperienza storica concreta, ma a renderlo presentabile: depurato, normalizzato, ricollocato entro una  retorica identitaria controllata. 

Il lavoro più esplicito di riscrittura e sdoganamento è delegato all’area culturale ed editoriale di riferimento, mentre il partito mantiene una posizione ambigua, fatta di omissioni, recuperi selettivi e continui rimescolamenti delle carte (*).

Si citano autori, si evocano tradizioni, si parla di popolo, nazione e sovranità entro un perimetro rigidamente sorvegliato, da cui è escluso tutto ciò che potrebbe mettere in discussione la legittimità dell’impianto ideologico. È cultura militante allo stato puro: selettiva, apologetica, orientata alla legittimazione, ma praticata per delega e protetta dall’ambiguità.

Accanto a questo esempio negativo, è però essenziale indicare un esempio positivo di vera cultura: il liberalismo.

Non il liberalismo ridotto a etichetta di partito o a programma contingente, ma il liberalismo come orizzonte culturale. Come ricordava Benedetto Croce, esso è una sorta di prepartito: non una dottrina chiusa, ma una cornice di civiltà che rende possibile la convivenza di posizioni diverse. Non un’ideologia tra le altre, ma la condizione che consente alle ideologie di confrontarsi senza annientarsi.

Proprio per questo, il liberalismo non include tutto indiscriminatamente. Al contrario, esclude automaticamente chi nega i suoi presupposti fondamentali: il pluralismo, la limitazione del potere, lo Stato di diritto, la libertà individuale. Fascismo, nazionalsocialismo, comunismo totalitario e, più in generale, tutte le forme di autoritarismo non sono “opinioni alternative”, ma negazioni di questo orizzonte. Non vengono esclusi per intolleranza, ma per incompatibilità logica e storica.



Qui la vera cultura mostra il suo lato normativo senza trasformarsi in militanza ideologica. Non neutralizza i conflitti, ma ne stabilisce i confini. Ed è qui che torna decisiva la lezione di Karl Popper: una società aperta non può permettersi una tolleranza illimitata. Chi utilizza le libertà democratiche per distruggere la democrazia non può invocare il pluralismo come scudo. Negargli spazio e legittimazione non è censura, ma autodifesa razionale dell’ordine liberale.

In questo senso, il liberalismo è l’esempio più chiaro di vera cultura: non mobilita le masse, non fornisce slogan, non promette redenzioni collettive. Fornisce regole, limiti, procedure. E soprattutto difende la libertà anche contro chi la usa per negarla.



In conclusione: la cultura militante serve una causa; la vera cultura serve la comprensione e la libertà che la rende possibile.

Quando certe idee si rivelano incompatibili con la democrazia liberale, la vera cultura non media, non relativizza e non fa sconti. Difende la società aperta anche con decisione, se necessario schiacciando i suoi nemici. 

Carlo Gambescia

                                                                                 

 

(*)   Si immagini, come nei film americani di serie B, la classica divisione dei ruoli durante gli interrogatori: il poliziotto buono da una parte, quello cattivo dall’altra. Ne avevamo già parlato qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/atreju-2025-la-destra-dei-due-volti-il.html  .

mercoledì 17 dicembre 2025

Pace, mercato e guerra: un paradosso moderno

 


Pace è una parola magica. Funziona sempre. Tutti la invocano, tutti la rivendicano, nessuno osa dichiararsi contro. Proprio per questo è una parola pericolosa: più è consensuale, meno dice qualcosa di preciso. La retorica che l’accompagna è nota e rassicurante: i popoli vogliono la pace, le élite fanno la guerra; i primi sono innocenti, le seconde colpevoli. È una tesi antica, anzi antichissima. E come spesso accade alle tesi molto antiche, consola più di quanto spieghi.

La realtà è meno edificante. La guerra non è mai stata solo un’imposizione dall’alto. Ha sempre avuto una dimensione elitaria, certo, ma anche una capacità di mobilitazione, adesione, entusiasmo. Pensare i popoli come masse naturalmente pacifiche, trascinate controvoglia da governanti bellicisti, è una semplificazione che serve soprattutto a lavarsi la coscienza.

La guerra come privilegio

Per lunghi secoli la guerra è stata, in senso letterale, un affare per pochi. Un privilegio dei migliori: nobili, cavalieri, professionisti delle armi. Era limitata negli obiettivi, regolata nei tempi, relativamente contenuta nei costi umani. Non perché fosse più umana, ma perché era socialmente separata. Chi combatteva non coincideva con chi produceva, commerciava, viveva.



Il rovesciamento avviene con la modernità politica, quando entra in scena un concetto nuovo e potentissimo: la sovranità del popolo. La guerra smette di essere roba da re o mestiere (delle armi) e diventa una causa. Non più eserciti dinastici, ma popoli in armi. Non più conflitti circoscritti, ma guerre totali, combattute in nome di valori universali o ritenuti tali, dalla libertà alla rivoluzione, dalla nazione alla razza. Un mix (razza a parte) che ritroviamo nelle guerre rivoluzionarie, fuori della Francia, condotte al suono della Marsigliese dai generali repubblicani, primo esempio storico,di “guerra di popolo”, che Napoleone perfezionerà, razionalizzando ideologicamente e militarmente la carneficina.

È qui che nasce il problema.

Il pacifismo come reazione moderna

Il pacifismo non è un sentimento eterno. È una reazione storica precisa: nasce quando la guerra smette di essere elitaria e diventa democratica. Quando non combattono più pochi per conto di molti, ma molti in nome di se stessi. Quando la legittimazione della guerra passa attraverso il consenso, l’identificazione, la mobilitazione emotiva.

Il pacifismo moderno non si oppone alla guerra in astratto. Si oppone alla guerra di popolo, alla sua capacità di assorbire intere società, economie, generazioni. È una critica alla politicizzazione totale del conflitto armato.

Ma qui si apre una contraddizione che raramente viene affrontata fino in fondo.



Un secolo di prova storica: liberalismo, pace e reazione nazionalista

La tesi secondo cui mercato e istituzioni liberali producono pace non è una costruzione astratta. Ha alle spalle una verifica storica precisa. Tra il Congresso di Vienna (1815) e lo scoppio della Prima guerra mondiale (1914), l’Europa conosce il periodo di pace più lungo e stabile della sua storia moderna: quasi un secolo senza guerre generali tra grandi potenze, un fatto senza precedenti dopo tre secoli di conflitti quasi continui. Non è un’assenza totale di conflitti, ma l’assenza di guerre generali tra grandi potenze. E questo è merito del liberalismo e delle sue istituzioni: parlamenti e mercato in primo luogo.

Infatti, il secolo XIX coincide con l’avanzare — diseguale ma reale — del liberalismo: apertura commerciale, standard monetari comuni, integrazione finanziaria, limitazione progressiva del potere arbitrario degli Stati. Tra il 1820 e il 1913 il commercio internazionale cresce di circa dieci volte; la quota degli scambi sul prodotto europeo raddoppia; la mobilità di capitali e persone raggiunge livelli che non verranno eguagliati fino alla fine del Novecento. La pace non nasce da un’improvvisa moralizzazione dei governi, ma dall’intreccio crescente degli interessi economici. La guerra diventa costosa, rischiosa, difficilmente giustificabile.

La rottura dell’equilibrio

Questo equilibrio si rompe all’inizio del Novecento. E qui vorremmo, segnalare, che il fenomeno noto come imperialismo, che si sviluppa alla fine dell’Ottocento, non è un prolungamento del liberalismo, ma l’ultimo sussulto di antiche aristocrazie militare, in conflitto con la borghesia pacifista. Oltre che essere il prodotto di una fase di depressione economica (1873-1896), che si voleva curare, rendendola così ancora più grave, con l’imperialismo e il protezionismo. Pertanto, dietro l’autarchia (imperiale o militare) c’è sempre non un eccesso di mercato ma una reazione politica al mercato.

Tra il 1914 e il 1945 l’Europa attraversa trent’anni di guerra quasi continua, con oltre 70 milioni di morti, in larga parte civili, e una distruzione sistematica delle economie nazionali. È l’età dei nazionalismi, che dichiarano di volere la pace ma organizzano la società in funzione del conflitto. Come in precedenza Guglielmo II parla di equilibrio e sicurezza, ma costruisce una potenza fondata sulla competizione imperiale, così Hitler e Mussolini promettono ordine, stabilità e pacificazione interna, mentre smantellano sistematicamente le interdipendenze economiche e subordinano il mercato a obiettivi politico-militari.



Imperialismo politico

Non è il mercato a guidare questa fase, ma come detto un imperialismo politico: un’economia comandata dallo stato, orientata all’autarchia, alla conquista, alla preparazione permanente della guerra. In questo senso, il fascismo e il nazismo possono essere letti come l’ultimo sussulto delle antiche logiche aristocratiche della guerra: élite armate che trascinano intere società in un conflitto presentato come destino storico.

Il risultato è noto: la guerra totale.

La pace dopo la tempesta

Dopo il 1945, la lezione viene — almeno in parte — appresa. Tra il 1950 e il 1990 il commercio mondiale cresce a un ritmo superiore a quello della produzione, mentre in Europa occidentale scompaiono le guerre tra stati comparabili, cioè stati con capacità economiche e militari tali da potersi infliggere reciprocamente danni gravi in caso di guerra: una fortunata anomalia storica spiegabile solo con il benefico intreccio tra mercato, istituzioni e sicurezza collettiva (anche grazie al potere deterrente dell'atomica). 

Nella seconda metà del Novecento, soprattutto in Europa occidentale, il mercato torna a prevalere sulla guerra. L’integrazione economica, le istituzioni sovranazionali, la liberalizzazione degli scambi non eliminano il conflitto, ma lo rendono strutturalmente meno distruttivo. Non è un’epoca idilliaca, ma è un’epoca in cui la guerra tra Stati comparabili diventa l’eccezione.

Oggi, però, il linguaggio politico segnala un ritorno inquietante. Leader che parlano simultaneamente di pace e autarchia, di cooperazione e di chiusura, di sovranità assoluta e stabilità globale. È una contraddizione già vista. Storicamente, non ha mai prodotto pace. A livello diffuso, cioè tra la gente, se ci si passa la battuta, è un atteggiamento tipico di certo cretinismo da bar sport, spacciato per “buon senso”, quello che consiglia agli uomini di “farsi gli affari propri”… (veramente talvolta si usa un’espressione più colorita). Insomma l’elogio del chilometro zero come strumento di pace. Non è così, come abbiamo visto.



Dal campo di battaglia al mercato

Le società moderne hanno trovato un modo per ridurre la guerra senza abolire il conflitto: trasporlo. Il mercato svolge esattamente questa funzione. Non elimina la competizione, la canalizza. Non sopprime lo scontro, lo rende reversibile. Al posto delle armi: prezzi, contratti, scambi. Al posto della distruzione: fallimenti, riconversioni, adattamenti.

Il mercato non è la pace dei buoni sentimenti. È una pace fredda, imperfetta, spesso cinica. Ma è pace nel senso politico del termine: riduce gli incentivi strutturali alla guerra tra stati integrati economicamente. Non perché gli uomini diventino migliori, ma perché diventa più conveniente non combattersi. 

Per questo l’idea di una pace senza mercato è un’illusione. Peggio: è una contraddizione.

Pacifismo e nazionalismo: un matrimonio impossibile

Non si può essere nazionalisti e pacifisti allo stesso tempo. Non per ragioni morali, ma per una questione di logica istituzionale. Il nazionalismo, quando è coerente, tende all’autarchia: controllo dei confini, riduzione delle interdipendenze, primato della sovranità economica. L’autarchia, storicamente, è una formidabile fabbrica di conflitti.

La globalizzazione — con tutti i suoi difetti — ha funzionato come una gigantesca infrastruttura di pace. Ha legato interessi, reso costosa la guerra, creato perdite diffuse laddove prima c’erano solo vincitori e vinti. Essere contro la globalizzazione e insieme invocare la pace significa volere gli effetti senza accettarne le condizioni.

Il sovranismo dice di volere la pace e i commerci, – si pensi a Putin e Trump, e ancora prima a Hitler e Napoleone – ma organizza il mondo come se la guerra fosse inevitabile.



Il paradosso liberale

Resta l’obiezione più scomoda: se il mercato produce pace, perché i liberali fanno talvolta la guerra?

La risposta non è piacevole, ma è semplice. La pace di mercato non è garantita automaticamente. Esiste solo finché esistono istituzioni che la rendono possibile: libertà di scambio, sicurezza giuridica, apertura economica. Il multilateralismo, per usare un termine tecnico, Quando queste istituzioni vengono aggredite o rifiutate – bilateralismo – il conflitto rientra dalla finestra.

In certi casi, difendere l’ordine che riduce strutturalmente la guerra può implicare l’uso della forza. Non è una giustificazione morale della guerra, ma il riconoscimento di una tragedia politica: la pace liberale non è pacifista, perché non può permettersi di esserlo sempre.

Possibili altre obiezioni

(1) “Il mercato non ha impedito le guerre”.
Vero, ma irrilevante. Nessuna istituzione elimina la guerra in assoluto. Il punto non è l’assenza totale di conflitti, ma la riduzione strutturale della loro probabilità e intensità. Le guerre tra economie profondamente interdipendenti sono più rare, più costose e più difficili da legittimare politicamente. Il mercato non è una garanzia metafisica di pace, è un potente disincentivo empirico alla guerra.

(2) “La globalizzazione produce diseguaglianze, quindi conflitto”.
La globalizzazione produce diseguaglianze visibili, non necessariamente maggiori di quelle prodotte dall’autarchia. Le società chiuse non sono più egualitarie: sono solo più povere, più rigide e più aggressive verso l’esterno. Storicamente, la combinazione più esplosiva non è mercato e diseguaglianza, ma autarchia, stagnazione e mobilitazione identitaria.



(3)“Si può essere pacifisti e sovranisti”.
Si può dichiararlo, non praticarlo. Il sovranismo economico riduce le interdipendenze e aumenta la competizione geopolitica. Quando gli scambi diminuiscono, cresce il peso della forza. È una regolarità storica, non un’opinione ideologica. Il pacifismo sovranista è una contraddizione  in termini.

(4) “Così si giustifica la guerra liberale”.
No. Già abbimao in parte risposto: si rifiuta la retorica pacifista assoluta, non si santifica la guerra. Riconoscere che in alcuni casi la forza viene usata per difendere un ordine che riduce complessivamente la guerra non equivale a celebrare la guerra stessa. È una distinzione scomoda, ma necessaria, tra spiegazione e giustificazione.

(5) “Questa è una visione cinica della pace.”
Esatto. Ed è un pregio, non un difetto. La pace fondata sulla virtù morale degli attori è fragile; quella fondata su interessi intrecciati e istituzioni stabili è meno nobile, ma più duratura. Le società moderne non funzionano sulla base della bontà, ma sulla base di incentivi.

Conclusioni

La pace non è uno stato d’animo, né una virtù individuale. È un assetto istituzionale. Senza mercato, senza interdipendenza economica, senza istituzioni liberali, la pace resta una parola nobile e vuota.



Non ogni guerra produce pace. Ma nessuna pace duratura nasce dall’autarchia, dal nazionalismo economico o dalla nostalgia per una sovranità armata. Chi vuole davvero la pace deve accettarne il prezzo. E il prezzo, oggi, si chiama protezione del liberalismo.  Anche con la guerra. Ovviamente, quando non si può proprio farne a meno.

Carlo Gambescia

 

Bibliografia minima

I pochi dati citati sono rinvenibili in qualsiasi buona storia economica, a partire dalla Storia economica Cambridge (Einaudi). Quanto al rapporto tra i consistenti relitti di una tradizione aristocratica militare, antiliberale e guerre novecentesche, rinviamo al notevole studio di A. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla Prima Guerra Mondiale, Editori Laterza, 1999. Non si dimentichi che fascismo e nazionalsocialismo dipingevano se stessi come nuove aristocrazie militari. Per una sociologia dello stato, come prolungamento delle conquiste militari si veda F. Oppenheimer, Lo Stato. Storia ed evoluzione, uno sguardo sociologico, a cura di C. Gambescia, Edizioni Il Foglio, 2020, un piccolo classico in argomento, che ricostruisce molto bene il contrasto tra logica militare e logica di mercato. Infine per un’analisi dei complessi rapporti tra liberal-democrazia e guerra, cfr. A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Il Mulino, 1997. Come si osserva, talvolta anche le democrazie ricorrono alla guerra, ma lo fanno in misura maggiore contro le autocrazie che contro altre democrazie.