domenica 14 dicembre 2025

La crisi della sinistra e i giornali

 


Se, come si dice, ‘Stampa’ e ‘Repubblica’ passassero a destra, l’Italia direbbe addio a una libertà di stampa già seriamente in difficoltà secondo precisi indicatori internazional(*).

Si dirà che un giornale è un’impresa come un’altra e che dunque può essere venduto e comprato. Giustissimo. Ma questo significa anche un’altra cosa: la sinistra non vende più, i valori si abbassano e la destra compra.

Semplifichiamo, certo. Ma la sostanza resta: la sinistra è in rotta, la destra stravince. Una destra non proprio normale, che non ha mai fatto davvero i conti con il fascismo, a cominciare dalla seconda carica dello Stato: un fascistone siculo-milanese che ad Atreju, come oggi scrive il “Secolo d’Italia” (versione aggiornata del “Popolo d’Italia”), intervistato da Mentana – dopo Zia Mara e Travaglio, altro segnale – non ha nascosto “un’ineludibile fierezza delle radici”.  

Attenzione: La Russa, grazie a una riforma elettorale ad hoc che si prepara, in un Parlamento ampiamente sbilanciato a destra, potrebbe essere il prossimo presidente della Repubblica.



Se dal punto di vista del mercato, dunque dell’economia, il punto di incrocio tra domanda e offerta premia imprenditori di destra, sul piano politico il rischio è chiaro: il monopolio dell’informazione.

Del resto la sinistra fa del suo peggio per favorire la destra. Riemerge quel massimalismo che favorì il fascismo, poi il lungo trentennio democristiano e infine il berlusconismo. Oggi, dopo Salvini e Conte, è il turno di Giorgia Meloni, che può presentarsi come salvatrice della patria minacciata dai “comunisti”. Si può sorridere dell’uscita della Bernini sui “poveri comunisti”, ma quelli sono voti: più di un elettore su due, dicono i sondaggi, vede nella destra – come nel 1922 – un baluardo contro il comunismo.

Al netto delle violenze e brogli denunciati de Matteotti, nel 1924 i fascisti superarono largamente il quorum previsto dalla legge Acerbo – fissato al 25 per cento dei voti validi (per ottenere i due terzi dei seggi) – andando ben oltre il sessanta per cento dei consensi.

All’epoca, non solo sui giornali filofascisti, si scriveva che gli italiani volevano “ristoro” e lo avevano provato con il voto: basta scioperi, basta manifestazioni, basta violenza. Lo ebbero – il “ristoro” – per vent’anni, più una guerra mondiale disastrosa, combattuta al fianco dei massacratori di ebrei. Compito oggi svolto, con zelo ideologico, dalla sinistra filopalestinese a oltranza.

 


La sinistra non vincerà più. E come potrebbe vincere una sinistra che parla di patrimoniale e di tasse ecologiche? Che invoca l’Europa ma non vuole la guerra? Che considera la produttività – in calo da almeno vent’anni – una parolaccia? E, cosa più grave, che dove dovrebbe essere inflessibile, sull’antifascismo, procede in ordine sparso. Si pensi al caso dell’editore nazista Passaggio al Bosco: “Mi si nota di più se vado o non vado (alla Fiera del libro)?”. Il livello è questo.

E allora, per dirla con Nanni Moretti, cara sinistra: te la meriti Giorgia Meloni.

Che cosa significa, allora, che la sinistra deve farsi liberale? Non liberal all’americana, ma liberale nel senso europeo e classico: difesa rigorosa dello Stato di diritto, delle libertà individuali, delle istituzioni rappresentative e dell’economia di mercato . 

 


Una sinistra che smetta di inseguire pulsioni massimaliste e identitarie e torni a parlare di responsabilità, produttività, merito, dentro un quadro europeo, non burocratizzato e fissato con la “transizione ecologica". Senza questo salto culturale, la sconfitta non è un incidente: è una condizione permanente.

Due figure come Landini e Conte rappresentano il peggio del massimalismo di sinistra. Non vinceranno mai. E ci ritroveremo, a meno che la natura non ci metta la mano, con un fascistone che colleziona busti del duce al Quirinale.

Carlo Gambescia

 

(*) Secondo il World Press Freedom Index 2025 di Reporters Sans Frontières, l’Italia è 49ª su 180 Paesi con un punteggio di 68,01/100, in calo rispetto al 2024 e peggior risultato nell’Europa occidentale. Per dare un’idea, paesi come Sudafrica (circa 27°) o Nuova Zelanda (entro i primi 20) garantiscono condizioni più solide di libertà di stampa; persino in alcune regioni dell’Africa e dell’Asia, dove si parla di instabilità politica e rischi quotidiani per giornalisti, il punteggio può risultare migliore del nostro. Qui: https://rsf.org/en/country/italy?utm_source=chatgpt.com .

sabato 13 dicembre 2025

Il premio Thatcher a Giorgia Meloni e l’arte dell’articolo inutile (che però va scritto lo stesso)

 


Scriviamo un articolo inutile. Lo sappiamo prima ancora di cominciare: inutile come spiegare la differenza tra liberalismo e liberismo a chi pensa che siano scritte su striscioni da stadio; inutile come evocare Margaret Thatcher in un Paese che la confonde con la Regina Elisabetta; inutile come ricordare che certi premi non consacrano, ma autocertificano. Eppure lo scriviamo lo stesso, perché c’è un livello di inutilità che diventa necessario: quello in cui, quando nessuno dice le cose ovvie, queste diventano improvvisamente profonde.

Il “Margaret Thatcher Awards” (“Premio Margaret Thatcher”) non è il Nobel della politica. Giorgia Meloni è stata premiata alla sua prima edizione (quindi si rifletta anche sulle improvvise ragioni di istituire un premio del genere…). Parliamo perciò di un evento ad hoc organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei (Ecr).

Cioè citiamo la stessa famiglia politica — Ecr — alla quale appartiene Fratelli d’Italia. Un premio di casa, dunque: legittimo, certo, ma più simile alla targhetta di una convention di partito che a un riconoscimento internazionale.

 


Nel riceverlo, Meloni ha rivendicato il suo essere una “conservatrice” e — soprattutto — di trovarsi “dalla parte giusta della storia”. Formula impeccabile per Instagram. Peccato che sia l’opposto del linguaggio e della mentalità di Margaret Thatcher. La “Iron Lady” non dichiarava mai di essere dalla parte giusta della storia: non per modestia, ma perché non concepiva la politica come un pellegrinaggio nel senso unico del destino. Per lei la storia non era un’onda da cavalcare ma un muro da sfondare. La sua filosofia era ferma e lineare: “Se non le faccio io, certe riforme non le farà nessuno”. Niente missioni morali, niente investiture provvidenziali.

Ed è proprio qui che emerge un’altra verità che molti preferiscono evitare: Giorgia Meloni e Margaret Thatcher non potrebbero essere più diverse, non solo politicamente ma nelle biografie, nella formazione, nella cultura originaria.

La Thatcher veniva da una famiglia ordinaria, figlia di un droghiere metodista, educata nella disciplina del dovere protestante, laureata a Oxford, con un impianto culturale costruito fra liberalismo classico e tenacia personale.

La Meloni arriva invece da un percorso completamente diverso: una cultura politica nata nel Movimento Sociale Italiano, la tradizione post-fascista che in Europa era ai margini; una formazione scolastica più fragile, interrottasi dopo il diploma tecnico; una biografia familiare complicata e poco lineare, dove la stabilità non era un dato ma una conquista.



La Thatcher aveva un marito e una vita familiare molto tradizionale; Meloni ha una figlia ma non un marito: tutto modernissimo, per carità, ma sideralmente lontano dal modello conservatore britannico del tardo Novecento che oggi qualcuno si ostina a evocare. Come del resto la stessa Meloni che dichiara di riconoscersi nel “Dio, patria e famiglia”.

In teoria. Perché poi di fatto non è si è mai particolarmente distinta nella pratica religiosa visibile o regolare: qualche celebrazione ufficiale, certo, com’è normale per un premier, ma nulla che rimandi a un cattolicesimo militante o di pubblico esempio. Per dirla alla buona, chi l' ha vista andare a messa ogni domenica? I paparazzi mai avrebbero perso un’occasione del genere. Di conseguenza, il contrasto con la retorica identitaria resta lì, evidente come un soprammobile fuori posto o una grossa macchia sulla tappezzeria dell’auto nuova.



Non sono sfumature da gossip: sono ciò che plasma due modi diversi di stare nella politica.

La Thatcher nasce nell’etica protestante del dovere e della competizione. Meloni dentro un mondo politico identitario, che per decenni è stato ai margini e che solo negli ultimi trent’anni ha tentato una blanda normalizzazione. Che le politiche migratorie, dell’ordine pubblico, dell’economia, solo per citare tre settori importanti, smentiscono.

La Thatcher costruisce la propria leadership attraverso studio e determinazione; Meloni attraverso militanza, appartenenza e una buona capacità comunicativa. La Thatcher condanna il fascismo senza possibilità di appello. Per la Meloni, Mussolini fece “anche” cose buone. Se la Meloni si dichiara conservatrice lo è in chiave occasionalista. Come lo erano i gerarchi che il 25 luglio votarono contro il duce, nemici del liberal-democrazia.

Se la destra, questa destra, evolverà verso una destra “normale” di tipo occidentale – cosa a nostro avviso molto difficile – sarà per un effetto non intenzionale delle azioni politiche e non per merito della Meloni. Solo ieri, ad esempio, discutevamo dell’atteggiamento revanchista di Fratelli d’Italia – e dei conseguenti silenzi meloniani – a proposito del vecchio cavallo di battaglia fascista sull’ “oro del popolo” (*). Per dirla alla buona, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Quindi – e ci rivolgiamo ai pochi intellettuali ancora vigili – mai proiettare i propri desideri sull’oggetto sbagliato.



Due storie che non si sfiorano nemmeno per sbaglio, se non nella fantasia dei comunicatori. E tuttavia, la macchina retorica della destra europea, soprattutto quella italiana dalle radici neofasciste, macina somiglianze anche quando non esistono, magari in cerca di titoli di nobiltà politica.

E il punto è che, se proprio vogliamo giocare ai paragoni, i poco più di tre anni di governo parlano da soli: Thatcher si ritrovò a vincere una guerra (le Falklands) e a imprimere una svolta economica che cambiò il Regno Unito; Meloni, per ora, cincischia tra Ue e Stati Uniti, e di vittoria può rivendicare il riconoscimento Unesco della cucina italiana. Due bilanci che non appartengono nemmeno alla stessa categoria analitica.


Ed ecco allora il teatrino del premio, che funziona perfettamente per un pubblico di aficionados politici e per la gente comune, che, come detto, non sa nulla di nulla. Giorgia Meloni diventa “l’erede” di questa o quella tradizione conservatrice, e a pochi interessa verificare se le due figure siano davvero comparabili. E se, come detto, il pubblico a cui ci si rivolge non conosce la Thatcher, tanto meglio: la metafora scivola morbida.

E noi? Noi scriviamo lo stesso, proprio perché sembra inutile. Per ricordare che la storia non è una scenografia, e che i paragoni non sono confronti tra figurine Panini. La Thatcher era la Thatcher, la Meloni la Meloni. E distinguere le due — anche quando sembra superfluo — è uno dei pochi atti di igiene intellettuale che vale ancora la pena di compiere.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/loro-del-popolo-storia-mezze-verita-e.html .

venerdì 12 dicembre 2025

L’oro “del popolo”: storia, mezze verità e tentazioni sovraniste (e fasciste)

 


Quando Lorenzo Bini Smaghi, quello con il vizietto dell’allusione controllata (come sulla caduta di Berlusconi), afferma che sul caso dell’oro italiano “si scatena una tempesta in un bicchiere d’acqua” e ricorda che nel 2005 e nel 2019 ci furono tentativi simili, dice qualcosa di storicamente vero ma politicamente fuorviante (*).

Perché questa volta il contesto è completamente diverso. E ometterlo significa, volenti o nolenti, regalare una sponda retorica a chi — dalla trincea sovranista — agita da anni vecchie teorie monetarie travestite da “giustizia per il popolo”.

Per capire il punto, bisogna tornare un attimo indietro. Nel 1936, in pieno fascismo, la grande riforma bancaria trasformò la Banca d’Italia in un istituto di diritto pubblico, le affidò il monopolio dell’emissione e ridisegnò il sistema creditizio. Sulla carta sembrava un rafforzamento dell’autonomia tecnica; nella realtà era un’autonomia di facciata. In uno Stato autoritario non esiste vera indipendenza: la politica dirige, la banca centrale esegue.

La sostanza cambia soltanto negli anni Ottanta, con il celebre “divorzio” del 1981 tra Tesoro e Bankitalia. Ciampi e Andreatta spezzano l’obbligo per via Nazionale di comprare i titoli invenduti dello Stato. Di conseguenza: 1) addio stampante monetaria d’emergenza; 2) addio deficit coperti “alla buona”; 3) benvenuto controllo dell’inflazione.



Fu un passaggio duro, perché gli interessi sul debito schizzarono verso l’alto: per attrarre investitori veri, non bastavano più le pacche sulla spalle del Tesoro. Ma fu anche l’unico modo per costruire una banca centrale moderna, finalmente autonoma dalla politica e soprattutto nelle decisioni e sganciata dagli umori del governo di turno. Il tutto in previsione di una moneta unica europea. Il lettore prende appunto mentale.

Insomma: nel 1936 l’indipendenza era un orpello giuridico; nel 1981 diventa sostanza. Ed è questo percorso storico che rende così stonata l’idea di “riappropriarsi” dell’oro per difendere l’Italia dallo “Straniero”.

Il passo del gambero è invece arrivato ieri con un emendamento di Fratelli d’Italia alla legge di bilancio, volto a “proteggere le riserve auree” e a precisare che l’oro “appartiene al popolo italiano” (**).

Motivazione ufficiale: tra gli azionisti di Bankitalia ci sono anche soggetti privati, alcuni dei quali riconducibili a gruppi esteri. Servirebbe dunque “chiarezza” per evitare “rischi”. In un talk show questa spiegazione funziona. Nelle realtà economica un poco meno.

Roba da ruota quadrata e di pietra. Perché  se anche ci fosse una “minaccia dallo straniero”,  la questione  andrebbe subito accantonata   come falso problema. 

L’Italia non può usare il suo oro come garanzia verso la BCE: nell’Eurozona la politica monetaria è gestita centralmente e la BCE resta indipendente dagli Stati membri. Lo stesso vale per le banche centrali nazionali, che partecipano al sistema europeo e non possono utilizzare le proprie riserve auree per operazioni di credito nazionali.

Inoltre il nostro oro serve a poco o nulla come leva economica verso Francoforte: il valore dell’euro non dipende dai caveau di via Nazionale, ma dalla credibilità complessiva dell’Eurozona e dalla politica monetaria europea. 

In altre parole, agitare l’oro come simbolo di sovranità è solo retorica: la realtà pratica è che la difesa dell’Italia passa dalla stabilità della moneta unica e dalla fiducia dei mercati, non dal metallo nei caveau (***).

Detto brutalmente: il problema non è la proprietà dell’oro, ma la fiducia dei mercati che scorgono, e giustamente, nei governi e negli stati, veri e propri intrusi affamati di denaro a scopo elettorale.

 


L’intento sotterraneo e fin troppo ambizioso di Fratelli d’Italia è di piegare il sistema europeo delle banche centrali con un emendamento identitario infilato nella notte di bilancio.

Non a caso la BCE ha chiesto di rivedere la norma, segnalando il rischio di minare l’indipendenza della Banca d’Italia. Quando Francoforte si muove così chiaramente, non siamo più nella polemica da talk show: siamo in zona rossa istituzionale.

La ripresa del tema non è casuale. Sotto c’è una precisa tradizione politica. Che ha il profumo delle bislacche teorie — una specie di modernariato — del professor Auriti (signoraggio, potere usurpato, denaro “del popolo”), fino al vero e proprio antiquariato di stampo fascista che rinvia alle allucinazioni di Ezra Pound e ancora prima alle stramberie della cosiddetta scuola del “denaro libero” di Silvio Gesell, che criticava l’interesse come forma di usura e proponeva monete a scadenza per favorire la circolazione della ricchezza, penalizzando però l' accumulazione e  il conseguente autofinanziamento delle imprese. Un suicidio.

Visioni prive di basi economiche, respinte da ogni banca centrale del mondo ma mai realmente scomparse: sopravvivono nei forum sovranisti, nei pamphlet identitari, nei video che girano a raffica su Telegram. Leggende metropolitane economiche che hanno sempre attratto fascisti e nazisti nelle loro versione ante, ex, post. Tutti nemici del libero mercato, nonché del denaro come la più alta forma di libertà economica.

E infatti, ora che Fratelli d’Italia è al governo — classico riflesso pavloviano-fascista — quella retorica viene riproposta in versione istituzionale: patriottismo monetario, diffidenza verso lo straniero e l’illusione che basti proclamare la “proprietà popolare” dell’oro per rafforzare la sovranità nazionale. 

 


Una retorica, da spostati, da “eravamo quattro amici al bar”, totalmente scollegata dai meccanismi reali di un mercato mondiale che vive, e giustamente, all’insegna dell’ubi bene, ibi patria.

Fratelli d’Italia parla di popolo ma in realtà adora lo Stato onnivoro pronto a tutto, persino a mettere le mani nei caveau della banca centrale.
Invece per la teoria economica liberale — quella seria, non quella da talk show — il valore dell’oro lo fa il mercato, non un decreto. Politicizzare le riserve significa solo puntare su una overdose di statalismo: usare l’economia come motore della spesa pubblica per rubare consenso.



Tornando a Bini Smaghi, va ripetuto che non sbaglia quando ricorda i precedenti del 2005 e 2019. Perché lì si discuteva — maldestramente, va detto — di vendere una quota dell’oro o tassarne le plusvalenze. Idee discutibili, ma inserite in un ragionamento tecnico. Oggi no: 1) non esiste una vera strategia economica; 2) non c’è un obiettivo concreto di gestione delle riserve; 3) si tratta di un gesto puramente simbolico, volto a rafforzare una retorica sovranista, e, diciamolo senza mezzi termini, con evidenti richiami fascisti.

Mettere tutto sullo stesso piano equivale a confondere un intervento edilizio con un incendio doloso. La casa è la stessa, ma le intenzioni sono opposte.

L’oro non è minacciato. Per contro resta fondamentale la fiducia dei mercati. Al limite l’oro va e viene. In un mondo globalizzato, tracciato dai flussi del denaro elettronico, solo chi ha nostalgie autoritarie e autarchiche può immaginare che l’Italia rischi di perdere il suo oro.



Il punto non è il metallo: è la politica che gli gira attorno. Dietro lo slogan dell’“oro del popolo” c’è la tentazione — antica e ricorrente — di riportare la banca centrale sotto il controllo diretto del governo. E diciamola tutta di sfasciare tutti e di uscire dall’Europa. Di andare addirittura oltre la stessa legge del 1936. Una tentazione che nulla ha a che vedere con la democrazia liberale e la libertà di mercato e che invece ha molto a che fare con la nostalgia autarchica.

E quando perfino economisti esperti, come Bini Smaghi, accettano di muoversi nel terreno delle mezze verità, il rischio è che la discussione si intorpidisca, che la democrazia perda lucidità e, soprattutto, che i cittadini vengano presi per il naso.

Concludendo, a fronte di un denaro elettronico si propaganda il ritorno allo scambio di conchiglie, ovviamente garantite dall’oro…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/economia/bini-smaghi-su-oro-di-bankitalia-tempesta-in-un-bicchiere-dacqua-per-distrarre_2iltLBMpDGhYI0nDG7IQxQ .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/economia/oro-di-bankitalia-emendamento-di-fratelli-ditalia-per-proteggerlo-da-mani-straniere_1BFCLznnLqIzzS1balJNTk .

(***) L’Italia possiede circa 2.450 tonnellate d’oro, tra le prime 10 riserve mondiali, pari a circa 40 grammi pro capite. Rispetto al PIL l’incidenza è modesta e gran parte dell’oro è custodita da Bankitalia o all’estero: serve poco per finanziare lo stato perché come detto nell’Eurozona la moneta è gestita dalla BCE, che resta indipendente dai governi nazionali. Qui: https://www.bancaditalia.it/compiti/riserve-portafoglio-rischi/riserve-oro/index.html?utm_source=chatgpt.com&dotcache=refresh .

giovedì 11 dicembre 2025

Volodymyr Zelensky o del coraggio

 


Quando la storia decide di decollare raramente chiede  permesso. Nel caso di Volodymyr Zelensky, presidente dell’Ucraina, l’accelerazione è arrivata con i carri armati russi alle porte di Kiev. E lì, dove molti al suo posto avrebbero cercato una via di fuga, secondo la superata modellistica terzomondista del dittatore fantoccio delle potenze neocoloniali, lui ha scelto la strada più rischiosa: restare e battersi con la sua gente.

Il famoso "mi servono munizioni, non un passaggio (in elicottero)" — frase a lui attribuita e rilanciata da un’ importante agenzia di stampa americana — non è solo uno slogan. Siamo dentro un intero programma politico condensato in poche parole: il dovere prima della paura, la responsabilità prima dell’interesse personale.



Zelensky non arriva ai vertici passando dai tradizionali corridoi di potere. Prima di entrare in politica, era noto per la serie “Servant of the People”, dove interpretava un professore di liceo catapultato alla presidenza quasi per caso.

Molti lo hanno sottovalutato: un comico, un outsider, un personaggio prestato alla politica. Ma la politica ucraina — e la guerra — hanno spazzato via ogni caricatura.

La notte del 24 febbraio 2022, quando l’invasione russa diventa un fatto compiuto, Zelensky resta a Kiev con il governo, filmando messaggi diretti al Paese mentre le sirene antiaeree riempiono l’aria.

Questa scelta ha impedito il collasso delle istituzioni ucraine, ha cementato il sostegno popolare e ha messo in difficoltà la retorica del Cremlino. Diciamolo pure: un Churchill ucraino.



È qui che diventano necessarie alcune precisazioni rispetto alle critiche piovute in questi anni, perché non hanno nulla a che vedere con la realtà dei fatti.

Che Donald Trump accusi Zelensky di essere un ostacolo alla pace è grottesco. Un piazzista politico – parliamo di Trump – che ha passato anni a vendere se stesso come soluzione universale, e che nel frattempo ha tentato di delegittimare le elezioni del proprio Paese, non è una fonte autorevole quando parla di democrazia.

Le critiche di Vladimir Putin, secondo cui Zelensky sarebbe un fantoccio dell’Occidente, fanno sorridere per una ragione semplice: arrivano da chi ha eliminato, anche fisicamente, ogni opposizione, incarcerato rivali e trasformato le elezioni in un rituale senz’anima. Sentir parlare di libertà politica da un personaggio del genere è comicità involontaria. Diciamo tragicomicità…

Infine alcune destre e sinistre filo-Mosca ripetono il mantra del  Zelensky  “servo dell’Occidente”, secondo la decrepita vulgata anticolonialista. L’Ucraina si difende perché è stata aggredita, punto. Non c’è nessuna metafisica della geopolitica dietro: c’è un esercito invasore, e un Paese che non vuole essere cancellato dalla carta. Qui la disinformazione raggiunge il suo apice.



Trump e Putin accusano Zelensky di non voler tenere le elezioni. Due campioni della democrazia, certo. Domanda: quando si è mai votato nel mezzo di una guerra totale? Risposta: mai. Durante la Prima guerra mondiale , le consultazioni furono rinviate ovunque. Durante la Seconda guerra mondiale nessuno pensò di mandare al voto cittadini sotto bombardamento o soldati in trincea.

E l’Ucraina è in una situazione ancora più estrema: territori occupati, milioni di sfollati, mobilitazione totale. Sarebbe ingiusto e materialmente impossibile tenere elezioni: chi combatte non vota, chi è sfollato rischia di non essere rappresentato, chi è sotto occupazione non può esprimersi.

Consigliamo a Zelensky, se ci è permesso, di non cedere sul punto. Anche perché Mosca vuole solo mettere al suo posto, e  non sarebbe la prima volta,  un vero fantoccio.

Da ultimo, le voci secondo cui Zelensky si arricchirebbe durante la guerra sono smentite dai fatti: non esiste una sola prova concreta. Le istituzioni anticorruzione — dal National Anti-Corruption Bureau of Ukraine ai media investigativi — continuano a operare liberamente. Se ci fosse qualcosa di vero, lo sapremmo. Il resto è propaganda riciclata.



Zelensky ha fatto il giro dei  parlamenti di mezzo mondo — incluso il Congresso — costruendo una rete diplomatica senza precedenti. Niente formalismi, niente frasi di circostanza: una comunicazione diretta, urgente, efficace. È la diplomazia di chi difende casa propria. Uno che sopporta il doppio gioco di Giorgia Meloni, oltre tutto, è un santo. Roba da prenderla a schiaffi. Come i cazzotti che avrebbe voluto dare a Trump e al suo vice. E si è trattenuto.

Non sappiamo come finirà la guerra, ma una cosa è chiara: Zelensky ha riportato nella politica un concetto che troppi avevano archiviato: il coraggio. E di cui l’Europa, volenterosi o meno, avrebbe tanto bisogno. Quello vero, non quello da conferenza stampa.

Ed è questo che dà così fastidio ai piazzisti, ai pagliacci e ai nostalgici delle autocrazie: Zelensky, semplicemente, li smaschera con l’esempio.

Carlo Gambescia

Bibliografia minima

Non c’è buona letteratura in italiano su Zelensky, si vedano perciò S. Shuster, The Showman. Inside the Invasion That Shook the World and Made a Leader of Volodymyr Zelensky, Harper Collins, 2024; M. Minakov, J. Lloyd, A. Umland, From Servant to Leader: Chronicles of Ukraine Under the Zelensky Presidency 2019–2024, Ibidem Verlag, 2024. Per una buona raccolta dei suoi discorsi nella fase iniziale dell’invasione si veda V. Zelensky, Per l’Ucraina, La nave di Teseo, 2022.

mercoledì 10 dicembre 2025

Due parole conclusive (?) su Passaggio al Bosco

 


Un’ultima parola (?) su Passaggio al Bosco. Partendo proprio dalla riflessione postata su Facebook da questa casa editrice che non nasconde minimamente la sua passione nazifascista (*). Riflessione che abbiamo messo in copertina.

Vale la pena chiarire immediatamente il punto di fondo, prima di entrare nei dettagli.

Niente peli sulla lingua. Come già detto, conosciamo bene quel mondo (**). Un universo politico, certamente variegato, che va dai tradizionalisti ai fascisti e nazisti. Non va dimenticata, sebbene di minoranza, una corrente liberale, di destra, molto di destra, in cui però l’anticomunismo prevale sul liberalismo.

Per capire la natura profonda di questo universo politico occorre tornare alla distinzione essenziale.

Cosa lo distingue in blocco da tutti gli altri? Per quel che ci riguarda, crediamo che la migliore distinzione tra ciò che è destra e ciò che è sinistra risalga Norberto Bobbio. La destra è contro l’uguaglianza, la sinistra pro (***).



Ora, poiché la modernità è caratterizzata principalmente, diremmo concettualmente, dal principio di uguaglianza: la destra è contro la modernità. La sinistra no.

A questo punto è necessario un chiarimento, breve ma decisivo. Diciamo subito che la sinistra molte volte ha peccato e pecca per eccesso: perché rifiuta l’uguaglianza formale, dei punti di partenza, che rinvia al liberalismo (che si badi non è di destra né di sinistra), per scegliere l’uguaglianza dei punti di arrivo, che rinvia al marxismo, all’anarchismo, e per certi aspetti anche al redistributivismo del welfare state, quando attraverso la leva fiscale si mina la ragion d’essere stessa del capitalismo (che come il liberalismo non è di destra né di sinistra), cioè il profitto.

Questo ci porta direttamente al terreno della modernità, che è l’altro polo della discussione.

Liberalismo, capitalismo, stato di diritto, istituzioni parlamentari, diritti politici, civili e sociali: sono le principali componenti della modernità. Una costruzione recente, fragile, figlia di pochi secoli di storia. Per essere più precisi: la modernità, nel mare tempestoso di cinquemila anni di storia documentata, è un’isoletta che va dai cinquecento ai duecento anni.



Ora, se il socialismo (solo per fare un nome, diciamo una sintesi) si muove all’interno della modernità, pur con i limiti sopra citati, la destra, nelle sue varie forme, la critica e la rifiuta. È vero che c’è una destra parlamentare, composta di conservatori, venuti a patti con la modernità, che la critica pur finendo per accettarla. Ma c’è una destra che invece continua a rifiutarla. Cioè ne utilizza la libertà allo scopo però di sopprimerla una volta agguantato il potere. Il caso del nazifascismo è esemplare.

Quanto alla sinistra, si è avuto un processo contrario: esiste un socialismo evoluto, liberale e democratico, che proprio perché si muove all’interno di una accettazione della modernità ha rinunciato all’uguaglianza dei punti di arrivo, per optare per quella dei punti di partenza.

Ed è qui che il nodo si stringe. La sinistra evolve, la destra no. Non si è evoluta. Si pensi al triste destino conservatore (se non reazionario e razzista) di un partito come Forza Italia, che pure era partito da premesse liberali. Oppure allo spostamento a destra dei democristiani europei.

 


Esiste, purtroppo, il pericolo del filofascismo, come nell’Italia di Nitti, Giolitti, Bonomi, e nella Germania di Weimar. Si sta commettendo lo stesso errore degli anni Venti e Trenta del Novecento. Si dà credito a forze politiche che non hanno mai fatto veramente i conti con il fascismo.

Quindi forze di destra, destra parlamentare, compiacenti. Inoltre il nazifascismo, come prova il catalogo di Passaggio al Bosco, continua a rifiutare il concetto di uguaglianza e al tempo stesso a odiare e disprezzare la modernità, che è liberale in quanto modernità, e modernità in quanto liberale.

Fin qui la teoria; ora guardiamo alla pratica, cioè a  quel che è accaduto nel nostro Paese.

Cosa è accaduto in Italia? Che a poco a poco, le idee antiegualitarie sono tornate in circolazione. Al governo c’è un partito di destra, Fratelli d’Italia, che pensa che il fascismo abbia fatto cose buone. Per trascinamento si sono aperti spazi per una diffusa cultura antiegualitaria. E qui si pensi solo al trattamento riservato ai migranti… Idee che fino a qualche anno fa erano confinate negli ambienti della destra radicale, ora sono tornato alla luce del sole dipingendosi come portato di un’opinione come un’altra.

Non è così. Il nazifascismo non è un’opinione tra le altre. È un nemico della modernità, che come faceva Mattei con i partiti, usa come un taxi per agguantare il potere. E poi schiacciare la liberal-democrazia.

Pertanto, a rigore, tutto ciò che celebra le idee che “mossero il mondo” tra le due guerre (per citare un intellettuale neofascista) non dovrebbe avere diritto di parola in una società aperta, perché nemico della società aperta.



Non dovrebbe. Abbiamo usato il condizionale. Perché come sembra, ciò non è stato possibile, dal momento che purtroppo la società liberale teme di farsi dire che non è liberale, e di conseguenza subisce il ricatto morale dei suoi nemici. Si potrebbe parlare di un vero e proprio complesso d’inferiorità.

Il quadro, a questo punto, è chiaro e non rassicurante. Come venirne a capo?

Difficile dire. Potrebbe essere troppo tardi. Perché un meccanismo culturale ormai rodato tende a riprodursi da solo, alimentato dalla debolezza di chi dovrebbe contrastarlo. Ovviamente non aiuta il continuare a fingere che il nazifascismo sia un folklore inoffensivo o un’opinione rispettabile. La verità, che pochi hanno il coraggio di dire, è che ogni cedimento culturale prepara un cedimento politico. E quando questi mondi afferrano il potere, non lo mollano più: la storia l’ha già mostrato. Il rischio che si corre è enorme.

Se c’è un compito oggi, è smettere di autopatologizzarci con complessi d’inferiorità liberali. Si legga come i responsabili di Passaggio al Bosco irridono alle reazioni della sinistra, considerata come morente. E come la destra di governo acconsente tacendo. Si sentono forti.

La società aperta non si difende chiedendo scusa, ma ricordando a voce alta, e senza tremare, che i suoi nemici non hanno diritto di accompagnarla alla forca con il sorriso.



O ci svegliamo ora, oppure verremo svegliati dopo. E sarà peggio.

Come? Nessuna manifestazione scomposta. Questa gente va messa fuori legge. Non perché piaccia proibire, ma perché piace difendere la libertà. Serve la lama del diritto. Prima che sia troppo tardi.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://www.passaggioalbosco.it/catalogo/ .

(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/legalita-si-legittimita-no-passaggio-al.html .

(***) Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, 1994.

martedì 9 dicembre 2025

Tra ricatto e sovranità: la pace che Mosca non vuole

 


L’Europa prova a resistere alla prepotenza russa, in particolare  tre grandi nazioni storiche: Francia. Gran Bretagna, Germania. L’Italia nicchia, la Spagna sembra essere ancora più esplicita nel defilarsi. Il resto sembra procedere in ordine sparso. Vedremo cosa uscirà fuori dagli incontri di ieri. Il viaggio di Zelensky a Roma non sembra essere di grande utilità. Per l’Ucraina ovviamente.

Lo sforzo dei tre “volenterosi” ha qualcosa di eroico. Sempre se durerà. E lo ha unitamente alla figura di Zelensky, che se fosse stato il “servo dell’Occidente”, quindi un uomo privo di ideali, come proclama quell’accoppiamento poco giudizioso tra destra e sinistra che lavora  24 ore su 24 per Putin, sarebbe scappato all’estero, e ora sarebbe al sicuro, ricco e forse meno famoso.

Un inciso, può darsi che intorno a lui, non tutti siano alla stessa sua altezza, ma non si capisce perché, gli stessi postfascisti e postcomunisti che tuttora difendono Mussolini e Stalin, e addirittura Hitler, prendendosela con il “contorno”, non applichino la stessa logica “perdonista” a Zelenski. Servi! Voi non Zelensky.  Servi prima di Putin, poi di voi stessi e dei vostri fallimenti politici.

 


Oggi però desideriamo fare il punto sulle idee di pace di Mosca e Kiev.

L’idea di “pace” che circola a Mosca e quella che circola a Kiev non potrebbero essere più lontane. Da una parte c’è un Paese che difende la propria sovranità, la propria democrazia e la propria sopravvivenza; dall’altra una potenza che si comporta come se fossimo ancora nel 1974, convinta di avere un diritto naturale a comandare mezzo continente.

Per l’Ucraina “pace” significa una cosa molto semplice: fine delle ostilità, nessuna cessione territoriale, garanzie internazionali e un ritorno alla normalità possibile.

Non chiede l’impossibile: solo di non dover firmare la propria autocancellazione. Kiev accetta l’idea di un cessate il fuoco e di negoziati, ma rifiuta che la pace passi per la mutilazione del Paese, il disarmo e la neutralità imposta. Una pace senza sovranità non è pace, è amministrazione coloniale con un nome più elegante.

Mosca presenta una “proposta di pace” che più che un’offerta assomiglia a un ricatto: 1) l’Ucraina dovrebbe cedere di fatto Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia, rinunciando a territori strategici e popolazioni che considera proprie; 2) riconoscere l’annessione della Crimea; 3) dichiararsi neutrale per sempre 4) limitare le sue forze armate e rinunciare al sostegno occidentale (quindi zero NATO); 5) andare a elezioni anticipate, e, tra le righe neanche tanto sottili, liberarsi di Zelensky.

 


Nella retorica russa, Zelensky è il “problema”: come se un capo di Stato eletto democraticamente fosse un ostacolo alla pace, e non un ostacolo alla resa.Putin non chiede solo territori: pretende di decidere chi debba governare un Paese che non è il suo. Una pretesa talmente arrogante da far sembrare il Cremlino un condominio litigioso che vuole scegliere pure l’amministratore del palazzo accanto.

Il disegno è evidente: non solo mutilare l’Ucraina, ma plasmare la sua leadership politica secondo i propri interessi. È il vecchio copione sovietico riciclato: se non puoi controllare il Paese, controlla almeno chi lo guida.

Accettare le condizioni russe aprirebbe un precedente devastante: significherebbe, dopo 80 anni di lectio liberale, legittimare l’idea che la forza armata crea diritto. E che un’aggressione, se portata avanti abbastanza a lungo, diventa politica estera legittima. Una lezione micidiale per ogni potenza revisionista del pianeta. E diciamo pure, negazionista del liberalismo.



A complicare il quadro c’è chi, come Trump, continua a leggere il conflitto con una superficialità disarmante. Per lui la guerra si risolve “in 24 ore” sedendosi al tavolo con Putin e costringendo l’Ucraina ad accettare quello che vuole Mosca.

Una ricetta talmente ingenua da risultare pericolosa: Trump non ha capito — o fa finta di non capire — che una pace ingiusta non pacifica nulla. Normalizza la violenza, premia l’aggressore e indebolisce gli alleati occidentali. Un mix perfetto per avere più guerra, non meno. Il che però si combina bene, con la visione antiliberale di Trump, che si avvicina pericolosamente a quella autocratica di Putin. Per la prima volta dal 1789, gli Stati Uniti vedono al potere un presidente, animato da una volontà di potenza, che fa veramente paura. Ecco la “rotella” impazzita, per così dire della politica mondiale: Trump.

Si rifletta. Che interesse avrebbero gli USA – per non parlare dell’Europa – a rimettere insieme i pezzi dell’impero russo? Zero. I valori divergono, gli interessi sono incompatibili, e il mondo del 2025 non è quello del 1975.

La Russia mai tornerà al livello sovietico:  non ha l’economia, la demografia, l’industria né il soft power, nonostante le leggende metropolitane di una geopolitica postnazista sulla "magistrale" guerra ibrida di Mosca.  Alla Russia rimane solo il solito arsenale nucleare: reliquia di un passato che non tornerà.

Si permetta un altro inciso. Per quanto il paragone sia delicato, Israele — pur con eccessi spesso criticabili — combatte per lo stesso principio che muove l’Ucraina: difendere la propria esistenza contro chi nega il suo diritto a esistere. Le situazioni sono diverse, i contesti lontani, ma la logica democratica è la stessa: uno Stato ha il dovere di proteggere i propri cittadini da un’aggressione percepita come esistenziale.
 


Metterli sullo stesso piano non significa giustificare tutto ciò che fa Israele, ma riconoscere che entrambi difendono la propria sopravvivenza contro chi sogna la loro scomparsa.

La Russia avrebbe un’altra via per tornare protagonista nel XXI secolo: 1) liberalizzare l’economia; 2) sviluppare i commerci; 3)rafforzare lo stato di diritto; 4)competere tramite innovazione e non minacce. Si chiama ricetta liberale. È la strada seguita da Germania, Giappone e Corea del Sud e anche Italia, dopo conflitti devastanti. Ma richiede aperture, investimenti, riforme — non carri armati. Mosca invece continua a coltivare l’illusione che il prestigio internazionale passi per la forza bruta.

Certo, la Russia potrà essere un Paese importante Potrà crescere, commerciare, innovare. Ma a una condizione: abbandonare l’ossessione imperiale. Finché non lo farà, nessuna “pace russa” sarà davvero una pace.

La Russia non tornerà mai più ai livelli dell’URSS. La dissoluzione del suo impero è definitiva: la storia, come il postino, non suonerà due volte. 

Ogni gesto, ogni concessione a Mosca, ogni indulgenza politica — come quella di chi, alla Trump, vede in Putin un interlocutore possibile a prescindere — permette al Cremlino di coltivare illusioni pericolose. Illusioni che minacciano l’Ucraina, l’Occidente e persino la stessa Russia.



Chi pensa di poter “normalizzare” la potenza russa riproponendo vecchi schemi imperiali gioca con il fuoco: e il mondo, questa volta, non può permettersi di essere bruciato.

Il che ci riporta alla logica della fermezza. E se necessario del brigante a brigante a mezzo. Ma questa è un’altra storia. Almeno per oggi. Diciamo pure una pena al giorno.

Carlo Gambescia

lunedì 8 dicembre 2025

Atreju 2025. La destra dei due volti: il poliziotto buono e quello cattivo

 


Da qualche tempo la destra italiana sembra vivere in un film americano di serie B: quello in cui un poliziotto buono ti offre il caffè mentre il collega cattivo ti sbatte la testa sul tavolo.

Solo che questa sceneggiatura non è Hollywood: è Atreju 2025, la festa di partito di Fratelli d’Italia, che quest’anno si propone come vetrina del volto “culturale” e rassicurante del “conservatorismo nazionale” (*). Benché nel suo biglietto da visita non rinunci alla metafora della forza, magari sublimata, però… Insomma anche questo rinvia a una specie di richiamo della foresta.

Il tutto mentre, fuori campo, altri ambienti della destra — quelli che si riconoscono in Passaggio al Bosco — recitano senza pudore il ruolo degli intransigenti, identitari, radicali.

Il trucco è semplice: ci si divide le parti. A Roma vanno in onda due fiction politiche: Castel Sant’ Angelo, i giardini, la messa in piega, la cultura patinata, l’egemonia dei valori; Eur, Nuvola, si spinge invece una visione muscolare, esclusiva, organicista della società. Come in un interrogatorio ben orchestrato: il “buono” ti dice che ti capisce, il “cattivo” ti ricorda che non hai alternative.

Ad Atreju hanno montato un pantheon che sembra partorito da un algoritmo impazzito: da Simone Weil a Pasolini, da Edith Stein a Charlie Kirk, passando per Majorana e il “tenente” Amedeo Guillet. Invece di celebrare l’antifascismo e la Resistenza italiana, si celebra un ufficiale fascista che combatté con le “Fiamme nere” in Spagna e in Africa orientale, come partigiano, dalla parte sbagliata, contro le truppe britanniche. Una specie di Lawrence, ma di Mussolini. Che però a differenza di quello britannico, nel dopoguerra indossò la feluca di ambasciatore democristiano (nella foto sotto) e morì a 101 anni. Viva l’Italia: giusto da noi possono capitare certe cose. In Francia De Gaulle l’avrebbe fucilato. E, immancabile, infine, Gabriele D’Annunzio, sul quale torneremo a breve.



Una galleria così eterogenea sembra fatta apposta per neutralizzare la percezione di radicalità e costruire l’immagine di una destra “inclusiva”, moderna, spirituale. Il tutto impacchettato nella cornice pseudo-gramsciana dell’“egemonia”, un uso improprio del concetto in cui vediamo lo zampino di Guerino Nuccio Bovalino, autore, ultimamente, molto amato negli ambienti della destra meloniana.

Bovalino, “chercheur”, viene spesso presentato come il lettore raffinato della postmodernità; in realtà ricicla, come nel suo ultimo libro Algoritimi e preghiere (Luiss University Press, 2024), le idee di Pareto (istinto delle combinazioni), Simmel (disorientamento metropolitano), Weber (la modernità come “gabbia d’acciaio”, quale effetto non voluto post-calvinista). Per non parlare dell’assolutizzazione della metafora della prostituta come paradigma della società capitalista, che Benjamin non rappresentava come figura centrale della metropoli, in particolare parigina, ma piuttosto come una tra le molte: il flâneur, la folla, il collezionista, il giocatore d’azzardo, il detective.



Insomma, ciò che la destra aspettava da decenni riceve finalmente forma, ma l’interpretazione è quantomeno creativa — e spesso arbitraria. Nella sua versione, l’egemonia diventa una sorta di guida morale, un cappello etico quasi mistico, nulla a che vedere con il nodo gramsciano tra struttura sociale, conflitto, organizzazione, lotta per l’accesso agli spazi del potere. È un gramscismo d’arredo, utile a decorare i pannelli della festa, non a spiegare la società.

Prendere categorie nate per leggere il conflitto e trasformarle in premi assegnati a figure scelte a tavolino non è un dettaglio: è l’operazione. E tutto mentre si ironizza sulla sinistra che, al contrario, avrebbe inteso l’egemonia come strumento di sottogoverno.

Altre contraddizioni emergono guardando a Edith Stein, celebrata come simbolo dell’“egemonia dell’amore”. Molto toccante. Peccato che la stessa destra che oggi l’incensa domani vorrebbe trasferire i migranti in campi di detenzione extraterritoriali. Amore sì, purché resti in cornice.   E soprattutto appassionato  studio da parte di  Giorgia Meloni del famoso volume sul valore dell'empatia, tesi di laurea, della Stein...

Dall’altra parte, Passaggio al Bosco — fucina, blog, casa editrice, comunità culturale — coltiva un immaginario ben più cupo: identitarismo duro, anti-modernismo, comunità organiche, figure di nazistoidi come Codreanu e Legrelle, nonché tutta un’estetica da uomini della caverne politiche che non ha bisogno di travestimenti per dire cosa vuole. Qui l’universalismo è sospetto, la democrazia liberale è un problema, e l’individuo è tollerato solo se inquadrato dentro un ordine superiore, ne abbiamo già scritto abbondantemente. È l’altra faccia della medaglia: ciò che Atreju (dove fino a qualche anno fa si invitava Bannon, ideologo evoliano di Trump) non può dire — e infatti non dice — altri lo dicono al suo posto. Senza pudore e senza filtri (**).

 


Ma il punto più rivelatore è che in entrambi i pantheon, quello del “buono” e quello del “cattivo”, troneggia Gabriele D’Annunzio.

Attenzione. Il poeta-soldato non fu un semplice esteta: fu il prototipo del leader nazionalista pre-mussoliniano. Progettò una marcia su Roma prima di Mussolini, occupò militarmente Fiume sfidando lo Stato italiano, alimentò una rivolta nell’esercito, disprezzò il Parlamento liberale (memorabile l’episodio del volo Keller su Roma, da lui ispirato, che gettò un pitale su Montecitorio). D’Annunzio teorizzò un’estetica politica guerriera e plebiscitaria che fu la culla stessa del fascismo. Che sia celebrato come “egemonia poetica” dal poliziotto buono e come eroe guerriero dal poliziotto cattivo dovrebbe bastare a far crollare la scenografia. Quando il ponte simbolico è lo stesso, la distanza tra le due destre non è poi così grande. È un corridoio, non un abisso.



Mettiamo insieme i pezzi: la destra italiana sta costruendo una narrazione duale. Una destra “civile”, elegante, colta, che cita Pasolini e Simone Weil — attenzione, due figure tutt’altro che liberali, la Weil voleva addirittura sopprimere i partiti — e una destra ruvida, identitaria, che dice ad alta voce ciò che l’altra pensa a microfoni spenti. Il risultato è un dispositivo culturale efficace: una destra che simula spaccature per risultare più presentabile, mentre in realtà condivide miti, riferimenti, immaginario e aspirazioni. La presenza simultanea di figure come D’Annunzio nei due mondi lo dimostra: la radice è la stessa, cambia solo la tonalità del racconto.

 

E allora basta guardare bene la scena. Non ci sono due poliziotti: c’è una sola regia. Uno ti accarezza, l’altro ti intimidisce, ma il messaggio è lo stesso e arriva dritto: o accetti il mondo che ti proponiamo, o sei fuori dalla storia. Il resto — il sorriso rassicurante, la colata identitaria, l’evocazione dell’“egemonia” — è solo trucco di scena. Il film lo conosciamo già. E non finisce bene per chi ci cade.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/politica/atreju-2025-da-pasolini-a-charlie-kirk-ecco-il-pantheon-di-fratelli-ditalia-video_7JQS13PLokGr9n8iisDOnz .

(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/legalita-si-legittimita-no-passaggio-al.html e qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/il-cretino-politico-perche-feltri.html .

domenica 7 dicembre 2025

Paolo Macry ci avverte: senza riarmo morale l’Europa affonda

 



Desideriamo segnalare l’editoriale di Paolo Macry, uscito sul “Riformista” (*), storico e professore emerito dell’Università Federico  II. Autore di libri acuti e interessanti, capaci di cogliere l’ignoto nel noto storico. Di particolare interesse per i nostri studi fu il suo arguto Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento (Il Mulino, 2009), che  tornò molto utile nella preparazione del nostro Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza (Il Foglio, 2016).

Il suo editoriale coglie un punto essenziale a proposito del girone infernale in cui si è infilata l’Europa, che da anni vive sulle rendite di una specie di pacifismo presuntivo. E che ora, dopo decenni  di cambiali a babbo morto, deve invece vedersela con il conto salatissimo sventolato da Trump. Un personaggio corpulento e maligno, che ricorda, anche nel fisico, uno di quei brutti e antipatici osti dei Racconti romani di Moravia.



Cosa dice Macry? Che si fa un gran parlare, anche giustamente, dei cedimenti verso Hitler, culminati nell’inginocchiatoio di Monaco, auspice il “Bonito Napoloni” immortalato da Chaplin, ma non si parla della vittoria del 1945, che nel 1938-1939 sembrava qualcosa di irrealizzabile. E invece il “Mondo Libero” vinse.

Ovviamente grazie all’intervento americano e al coinvolgimento della Russia comunista, ma soprattutto  grazie a  due fattori: un riarmo rapidissimo e il cemento morale rappresentato dalla certezza che si stava combattendo una guerra giusta. Per la libertà di tutti i popoli.

In questo momento, in cui Trump ha girato le spalle all’Europa e la Russia di Putin ci sfida apertamente, grazie a una Cina che si compiace di vedere andare a pezzi nel XXI secolo i nemici europei del XIX, l’Europa è in grado di dare un colpo di reni come nel 1941-1943?

Questo è il problema posto da uno storico sottile come Paolo Macry, che evoca il recupero della stessa “mobilitazione morale” per non “lasciare la guerra nelle mani dei tiranni”.



Siamo completamente d’accordo. Sono cose che scriviamo anche noi, e da tempo. Però la vediamo dura. Anche perché, come osserva Macry, si tratta “di una lezione dimenticata, oggi, dai pochi sopravvissuti e sconosciuta alle nuove generazioni”. E soprattutto — cosa più grave — la classe politica europea, per una parte, è imbevuta di pacifismo e per l’altra guarda ammirata ai nuovi "Napoloni".

Un mix perfetto, o quasi, per andare a fondo.

Forse, come nel 1939, sarà necessaria la doccia gelata dell’aggressione militare. Ma sarebbe l’ennesima prova che l’Europa non impara mai nulla finché non è costretta, e che la storia, quando torna, non è mai gentile con chi la ignora.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui:  https://www.ilriformista.it/loccidente-senza-mobilitazione-morale-lascia-la-guerra-nelle-mani-dei-tiranni-492112/