martedì 28 febbraio 2023

La tragedia di Crotone e i suoi usi politici

 


Il lettore sa benissimo che amiamo il realismo politico e che non facciamo sconti a nessuno. La sociologia è una scienza triste, illuminata però dalla scoperta dell’esistenza di regolarità metapolitiche, che, una volta comprese, dovrebbero persuadere (purtroppo il condizionale è d’obbligo) chi governa a guardare al di là del proprio utile immediato. Del proprio orticello, come si dice.

Ora, a proposito della tragedia di Crotone, notiamo due cose. Che a destra, con una disumanità non comune, si addossa la responsabilità ai migranti annegati: non dovevano avventurarsi con il mare cattivo pontifica Piantedosi. O comunque, come sottolinea trucemente la Meloni, rischieranno sempre di affogare fino a quando non saranno fermati alla partenza, quindi anche con il mare buono. Se non avessimo anni di studio e di acculturazione alle spalle, nessuno salverebbe questi due figuri e famiglie da una maledizione. Però, come ci hanno insegnato, la politica si studia a mente fredda. Andiamo avanti.

Per contro, ieri, la neoeletta segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, ha dichiarato che i migranti sono affogati perché non si è permesso loro di essere salvati dalla navi delle Ong. Ne ha fatto così un problema non umanitario ma organizzativo. Anzi, umanitario-organizzativo: riempire, ma a parole come vedremo, il Mediterraneo e mari affini di navi Ong per le operazione di salvataggio.

Perciò, come dire? Che il migrante parta liberamente, poi provvederanno le navi no global (semplificando) a salvarli. Però fatto è che sul Mar Ionio non c’èra una nave una Ong. Colpa dei decreti del governo di destra? O di una cattiva organizzazione delle Ong? Per la serie  “nobili chiacchiere, fatti pochi”. Decida il lettore.

Il vero problema è che destra e sinistra non sembrano capire che l’accoglienza o meno del migrante rimanda a una questione di fondo. Quale? Che l’accoglienza non deve essere considerata come un problema del “Siamo in troppi non possiamo dare da mangiare a tutti” (destra), o come una furba sfida politica, "Sul migrante da salvare in mare, possiamo provocare la caduta il governo Meloni" (sinistra).

Qualcuno potrebbe pensare che sull’utilitarismo politico del Partito democratico stiamo esagerando: il lettore sa quante sono le navi Ong in servizio effettivo nel Mediterraneo e mari affini? Poco più di otto. E su sedici complessive solo una batte bandiera italiana e non risulta finanziata dal nobile Pd (*).

Cosa vogliamo dire? Che i migranti, riducendo il concetto all’osso, sono usati dalla destra e dalla sinistra, come merce politica per prendere voti e non come esseri umani che sfidano gli elementi per garantirsi un futuro migliore. Perciò la vera risposta al problema non è come salvarli in mare (sinistra) o fermarli alla partenza (destra), ma di permettere loro di trasferirsi in Italia in piena sicurezza.

Ogni uomo ha diritto di scegliere. Prima di essere naufrago il migrante è persona, libera persona. Sarà poi il mercato del lavoro italiano, una volta giunto nel Belpaese per via aerea, navale, ferroviaria, stradale (semplificando, come avviene per qualsiasi turista), a decidere la loro sorte professionale.

Si lasci fare alla legge della domanda dell’offerta, senza inutili egoismi o furbi pietismi politici. Siamo davanti una vera e propria regolarità economica, con risvolti metapolitici, capace di governare i fenomeni economici. E riconoscerne la portata è un atto di realismo politico.

Sulla legge della domanda e dell’ offerta l’Occidente ha costruito la sua fortuna, senza conoscerne all’epoca l’esistenza. Fortuna che oggi può, anzi deve valere anche per i migranti. L’Occidente è libertà, come norma e fatto, come idea e realtà.

Certo, all’inizio, la confusione per così dire, potrà crescere, però nel tempo, saranno i flussi reali delle occasioni lavorative a decidere.

Si tratta insomma di una sfida. Per dirla alla buona, se in Italia il migrante vivrà peggio dei luoghi d’origine, i flussi caleranno, se invece sarà il contrario, cresceranno. Nei due casi le cose andranno meglio per tutti, per gli italiani come per i migranti.

Ci vuole tanto a capirlo?

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ilsole24ore.com/art/migranti-16-navi-e-5-aerei-pattugliare-mediterraneo-ecco-flotta-ong-AE9sJxGC .

lunedì 27 febbraio 2023

Dalle primarie Pd cattive notizie

 


 Ha vinto Elly Schlein. Se avesse vinto Stefano Bonaccini ora sarebbe lo stessa cosa. Il Partito democratico, a prescindere dal genere del vincitore, ancora prima delle primarie già guardava bramoso a sinistra.

Del resto si tratta di un semplice fatto sistemico: un governo spiccatamente di destra non potrà non favorire un’opposizione spiccatamente di sinistra. Si chiama anche politica del muro contro muro.

I tempi della corsa al centro sembrano essere finiti da un pezzo. Per questo motivo non si confondano con lo spirito moderato i passi indietro della Meloni e il profilo furbamente basso su alcuni temi (immigrazione e sicurezza) e su alcune dinamiche relazionali (con il Quirinale ad esempio). Il governo Meloni è saldamente arroccato a destra. Di conseguenza il Pd continuerà a rispondere con altrettanto radicalismo, ovviamenente a  sinistra.

Quanto andiamo sottolineando – la radicalizzazione – è un bene o un male dal punto di vista della stabilità politica? Dipende da cosa si intende per stabilità politica. Una politica che favorisca la crescita? O una politica capace di puntare sulla pura e semplice sopravvivenza?

Un passo indietro. Stando ai fondamentali economici non c’è di che essere allegri: tassi di interesse in crescita, produzione industriale in calo, debito pubblico in crescita, tasso di inflazione in crescita. Di fatto, è in gioco la pura sopravvivenza. Quindi, ricerca della stabilità, significa impedire che i fondamentali peggiorino.

Un Partito democratico, ancora più a sinistra, può invertire questa tendenza? Non riteniamo la cosa possibile, dal momento che una sinistra più a sinistra implica l'inevitabile accelerazione della spesa pubblica con conseguenze negative per i fondamentali.

Pertanto, ripetiamo, dalla primarie del Partito democratico non è uscito nulla di buono per l’Italia. Inoltre, il governo di destra, già di suo interventista in economia, difficilmente sarà in grado di contrastare il gioco al rialzo sulla spesa pubblica della sinistra.

Al di là del muro contro muro sui valori – diritti civili vs dio, patria e famiglia – il vero problema è rappresentato dall’assenza di una reale diversità sul piano delle idee economiche tra destra e sinistra. Ci si arrocca a destra e sinistra sui cosiddetti valori , ma non sulle quello delle politiche economiche. Tecnicamente, si chiama partito unico della spesa pubblica. Qui il vero problema per la stabilità del sistema.

Pertanto se per un verso, siamo davanti a un governo spiccatamente di destra, per l’altro, sul piano economico il governo in carica non potrà che continuare fare le stesse cose della sinistra. Anzi le cose potrebbero addirittura peggiorare.

Infatti parliamo di una sinistra che si sposterà, come detto, ancora più a sinistra, innescando un gioco al rialzo populista sulla spesa pubblica con la destra. Che, se non vorrà perdere voti, dovrà fare buon viso a cattivo gioco. Quindi resterà difficile conseguire persino l’obiettivo della stabilità-sopravvivenza.

Si noti a riprova di quanto fin qui esposto, come destra e sinistra, unitissime al riguardo, non intendano rinunciare ai fondi europei per la mitica ripartenza di cui si discute mesi. Più spesa pubblica più voti. Tutto qui. Destra e sinistra, per quanto sempre più “radicalizzate” sui valori, pari sono sull’uso elettorale della spesa pubblica. .

Che dire? Un disastro.

Carlo Gambescia

 

domenica 26 febbraio 2023

Il ciclo della violenza politica

 


Non è stata ricostruita con chiarezza la dinamica dell’ “aggressione fascista” dinanzi al liceo fiorentino. Ma si dia pure per scontata la responsabilità della destra.

Detto questo, ricordiamo agli opinionisti di destra e sinistra, che esiste una cosa, ben studiata in sociologia, che si chiama ciclo della violenza politica. Che, in pratica, una volta innescato, segue inesorabilmente un meccanismo a spirale dalle conseguenze sociali e politiche imprevedibili. Insomma, non si deve mai scherzare con il fuoco.

L’ “innesco” rimanda al clima culturale e alle tradizioni storiche. Il che significa, che al di là degli aspetti legati alle responsabilità penali, il vero problema conoscitivo non è quello di scoprire chi abbia cominciato per primo, ma di analizzare le condizioni sociologiche che rendono possibile l’avvio di un infernale meccanismo a spirale.

Purtroppo, in Italia, la destra estremista, che ora in parte “ripulita” addirittura governa, ha solide tradizioni di violenza praticata. Ma lo stessa sinistra, non è mai stata da meno. Ovviamente, sul piano della retorica politica si tende a giustificare la violenza della sinistra come reattiva rispetto a quella di destra. Per capirsi, sul piano del discorso pubblico prevalente, sarebbe sempre la destra a cominciare.

Il gioco morale, se non moralistico, sul chi abbia cominciato, ripetiamo, non porta, analiticamente parlando, da nessuna parte. Il vero problema è capire perché la violenza politica, in una società con la più ampia libertà di pensiero e parola, risulti tuttora essere una componente, non del tutto secondaria, del conflitto politico.

In ordine scalare, e dal punto di vista storico, tra le società a sviluppo democratico, in larga parte di matrice occidentale o comunque di derivazione europea, la palma d’oro, per così dire, dell’uso sistematico della violenza in politica, spetta alle società centro e sudamericane. L’Europa occidentale, negli ultimi ottant’anni (circa), ha invece subito un processo di stabilizzazione, con alcune impennate negative come lo sviluppo del terrorismo politico, ad esempio nell’Italia degli anni Settanta.

Il terrorismo politico di quegli anni, a destra come a sinistra, toccò solo alcuni paesi, come la Germania, l’Italia, la Spagna (che tra l’altro si trovava, quest’ultima, in una fase di transizione alla democrazia), paesi con un passato politico segnato da dittature.

Cosa significa tutto ciò? Che la violenza politica, che ha nel terrorismo la sua massima espressione, rimanda a un sostrato, precedente, di tipo autoritario e illiberale, che nasce dalla sistematica conversione dell’avversario politico in nemico: in capro espiatorio. Insomma, si tende, non a includere l’avversario, come nemico relativo, ma a escluderlo come nemico assoluto.

In che modo però? Lo si fa, magari credendo di fare la cosa giusta. Per tornare all’Italia si pensi all’uso strumentale della Costituzione “antifascista” ogni volta che si verifica qualsiasi tipo di conflitto, quindi non solo di natura fisica. In che senso “uso strumentale”? Quando la si designa come patrimonio di alcuni che esclude altri. Il che, a dir poco, non aiuta il dialogo politico.

A dire il vero, l’elemento di discrimine tra contenuti effettivi della Carta e uso strumentale è molto sottile. Ciò che il costituzionalista giustifica in punto di diritto, spesso rinvia a interpretazioni in punto di spada, e viceversa. Qui, tra l’altro, andrebbe fatto un lavoro, articolo per articolo, che lasciamo agli specialisti. A noi interessa il punto sociologico.

Qual è insomma il problema di fondo? Il riconoscimento identitario di alcuni implica inevitabilmente il disconoscimento di altri, i quali, a loro volta individuano la propria contro-identità non riconoscendo i valori identitari dell’altro. Sono processi sociali inevitabili, dal momento che la formazione delle identità politiche è basata su meccanismi inclusivi-esclusivi. Ecco il punto sociologico fondamentale.

Certo, le tradizioni culturali e politiche della Costituzione italiana rinviano, giustamente, alla Resistenza e alla sconfitta del fascismo, eventi che però – cosa che per onestà intellettuale va ricordata – rimandano alla guerra civile, che, piaccia o meno, concettualmente, storicamente e sociologicamente, non è altro che terrorismo applicato di massa.

In pratica, il 1943-45, può essere inquadrato come un vero e proprio ciclo della violenza. Pensiamo a quelle età che la politologia sudamericana ha icasticamente battezzato della “violencia”: come fu per la società colombiana, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.

Va anche ricordato, a proposito di uso strumentale delle costituzioni, che l’esperienza sudamericana, con alcune eccezioni, vanta in due secoli un altissimo numero di costituzione varate. Ogni governo, dittatoriale o meno, ne promulgava una nuova contro gli avversari-nemici, e così via.

Cosa vogliamo dire? Che, chi scrive, pur essendo antifascista, si rende conto, come sociologo (e studioso di metapolitica), che – semplificando al massimo – la Costituzione italiana è nata dalla guerra civile, sicché riflette i valori vittoriosi dell’antifascismo. E forse non poteva non essere così.

Di conseguenza però, essendo di natura divisiva – oggettivamente divisiva – ha creato le condizioni di un conflitto, anche fisico, ricorrente e, per ricaduta, ha accresciuto le possibilità di reiterazione di quel ciclo della violenza, eccetera, eccetera.

Va detto che, a ipotesi rovesciate, una Costituzione fascista avrebbe determinato altrettante divisioni. Come pure va riconosciuto che la nostra Costituzione è lì da quasi ottant’anni. Quindi l’ Italia non è la Colombia. Però il rischio legato al suo uso strumentale esiste.

Si poteva evitare tutto ciò? Storicamente parlando il discorso sarebbe troppo lungo. E come detto il nesso tra divisioni politico-sociali e costituzioni è piuttosto rigido. Va però ricordato che la Costituzione italiana fu opera soprattutto di cattolici, socialisti e comunisti, culture politiche fortemente identitarie, quindi esclusive. Per contro, la cultura liberale della tolleranza e dell’inclusione politica fu in larga parte accantonata.

Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

sabato 25 febbraio 2023

Sordi, Costanzo e Machiavelli

 


Sordi è morto venti anni fa, Costanzo ieri. Qualcosa però li unisce.

Da spettatore dei film di Sordi e dei talk di Costanzo, una volta uscito dal cinema o spento il televisore, rimuginavo sempre dentro di me qualcosa di sgradevole, che non andava né su né giù.

Qualcosa che non riuscivo a capire. Si ride sì, ma… Si riflette sì, ma…

Ieri, all’improvviso, appresa la notizia della scomparsa di Costanzo, ho finalmente capito.

Ecco, dicevo, c’era sempre un “ma”… Probabilmente, a ben riflettere, non mi è mai piaciuta quell’aria di superiorità, di saperla lunga sulla natura umana, diciamo sulle debolezze umane, e in particolare degli italiani, sulla quale Sordi e Costanzo hanno costruito la propria fortuna. Roba da necrofori dell’italiano medio… Da becchini antropologici, per capirsi.

Si dirà, ma allora Machiavelli? Un altro che la sapeva lunga? Il punto è che dopo cinque secoli il Segretario fiorentino è ancora in cattedra. Sordi e Costanzo, di qui al XXV secolo, chissà…

In qualche misura Sordi e Costanzo sono epigoni, tardissimi epigoni, di un gigante della scienza politica. Machiavelli però fu un fiero repubblicano e un anticlericale. Che, proprio per questo motivo, cadde in disgrazia. Uno scrittore politico, che non nascondeva le sue idee, pur conoscendo la vera natura del potere politico e degli uomini. Che in fondo non temeva né blandiva. Il che non giovò alla carriera di Machiavelli. Anche postuma.

Sordi e Costanzo non hanno mai dovuto affrontare  il ferro e il fuoco delle sfide epocali, quel napalm rinascimentale che galvanizzò Machiavelli. Certo, Costanzo, uomo di televisione, si è esposto più di Sordi. Risultò iscritto alla P2 e per poco la Mafia non lo fece saltare per aria. A dire il vero c’era in Costanzo un lato luciferino, anche quando era dalla parte delle forze del bene. Aspetto invece assente in Sordi.

Per rimanere ai “si dice”, Costanzo era visto, e probabilmente si comportava, come un abile uomo di potere (mediatico), nel senso di determinare, con un sì o con un no carriere artistiche e giornalistiche.

Sordi, invece, più appartato, stando sempre ai “si dice”, si occupava semplicemente dei fatti propri. Almeno così lo vedevano gli altri. C’è una novella di Mario Soldati, che senza fare il nome dell’ artista, ne descrive molto bene il rapporto utilitaristico con la vita e con l’amore.

Ricordo un momento cruciale in cui Sordi e Costanzo apparvero insieme in una puntata anni Settanta di “Bontà loro”. Seduto accanto a Sordi, come ospite c’era il ministro Pandolfi, democristiano in ascesa, allora alle Finanze. Sordi se ne uscì – mellifluo come l’antipatico commesso di scarpe di Sotto il sole di Roma – con un “Lei, Ministro, prima di venire qui, avrà preso sicuramente informazioni sulla mia posizione fiscale…”. Pandolfi, sconcertato, lasciò cadere l’argomento , giustamente non era sede quella. Costanzo ridacchiava sotto la camicia con i baffi della devastante ingenuità di Sordi.

Ecco, quell’ uscita naive di “Albertone” prova che Costanzo e Sordi non erano gemelli. Tutti e due attenti calcolatori, ma Sordi, che non aveva potere né lo cercava, ne aveva timore. E così qualche volta incespicava… Mentre Costanzo, non insensibile al potere, blandiva: chi mai aveva invitato prima di lui un politico a parlare di nulla?

Non erano gemelli, però non del tutto dissimili. Sordi e Costanzo rappresentano le due facce di un’Italia, dispiace dirlo, cortigiana. Che, quando si dice il caso, Machiavelli invece disprezzava.

Carlo Gambescia

venerdì 24 febbraio 2023

A un anno dall’invasione russa dell’ Ucraina. Tre lezioni

 


Intanto si dia un’occhiata a due siti specializzati (*) per capire subito come oggi in Italia, rispetto al resto del mondo occidentale, l’anniversario dell’invasione russa dell' ucraina non sia al centro delle prime pagine.

L’Italia offre un’immagine di sé, marcata da un incosciente provincialismo politico o comunque segnata da stupide divisioni su una questione epocale come la difesa della nostra libertà, battaglia che comincia a Kiev.

Proprio ieri scrivevamo del culto italiano del “particulare” (**), che non è solo questione di soldi, ma di mentalità ristretta, provinciale per l’appunto: ci si preoccupa solo del proprio cortiletto, non si vuole guardare più lontano. Anche in questo primo anno di guerra – una guerra scatenata dalla Russia – l’Italia, soprattutto il paese reale, si è prodotta, come un vecchio attore consumato da secoli di infingardaggine, in una recita collettiva, degna di una nazione che senza provare alcuna vergogna contempla il proprio ombelico.

Ieri, ad esempio, i mass media specchio  fedele del claustrofobico acquario  italiano,  davano largo spazio all’analisi degli effetti politici sulla maggioranza delle dichiarazioni contro Zelensky di Berlusconi… Capito? Ucraina in fiamme, Palazzo Chigi brucia…

Al di là di  questo felliniano gran galà del patetismo italiano, cosa ci lascia di positivo un anno di guerra? Perché qualcosa di positivo, come in tutte le cose umane, non può non esservi anche in un conflitto armato, per quando grave.

Tre lezioni.

La prima è che l’Ucraina non è crollata subito, come si augurava Mosca, che pensava di occupare Kiev in quarantotto ore, di fare fuori Zelensky e sostituirlo con presidente filorusso. La prova più bella, dalla quale noi italiani viziati dalla manna del welfare dovremmo imparare, è stata offerta dal popolo ucraino: rimasto compatto, sotto le bombe, a fianco del suo presidente. Un bella pagina di storia. Ovviamente, anche le forze armate ucraine hanno svolto bene il loro compito, aiutate, per quando a singhiozzo, dall’Occidente e dalle pessime prove dell’esercito russo. Quindi prima lezione: quella di un popolo, unito, armato, con una leadership all’altezza della sfida. Tanto di capello.

La seconda è che, al di là degli antagonismi europei, l’Occidente ha retto il colpo. Il blocco atlantico, nel suo insieme, ha affiancato, come doveva, con le parole e con le armi, la giusta causa dell’Ucraina. Certo, come abbiamo più volte scritto si poteva fare di più. Però – va riconosciuto – per società impregnate di pacifismo, come quelle europee, e non sempre libere dal richiamo di un gretto isolazionismo, come gli Stati Uniti, la reazione è stata notevole. Diciamo “quasi” all’altezza della sfida. Quindi, seconda lezione, l’Occidente deve restare unito, perché solo se unito potrà battere o comunque portare a più miti consigli la Russia.

Alla luce di tutto questo, e veniamo alla terza osservazione, va apprezzato, almeno finora, l’atteggiamento abbastanza fermo di Giorgia Meloni ( su quello del suo predecessore, Draghi, nulla da eccepire: un Churchill formato Bce). È vero che abbiamo più volte scritto, a proposito della Meloni, di un occidentalismo senz’anima, a causa delle sue radici missine, però, tutto sommato, se si pensa al gretto e provinciale contesto italiano, impregnato di un pacifismo peloso, Giorgia Meloni – finora, ripetiamo – ha resistito a qualsiasi idea di fuga romantica nelle braccia del papa e dei ferrivecchi, di destra come di sinistra, stregati da Mosca e da un antiamericanismo ridicolo e tafazziano. Quindi terza lezione, avanti così.

Insomma, un anno di guerra, un anno di sfide, un anno vissuto pericolosamente, ma tutto sommato senza deflettere. Quindi un anno vissuto coraggiosamente.

Concludendo, in questo contesto, in cui dopo quasi ottant’anni di pacifismo sistematico, l’Occidente sembra avere raccolto, e coraggiosamente, il guanto della sfida, stona lo spettacolo, come dicevamo, di un'Italia recalcitrante, ripiegata sulla contemplazione ombelicale.

Purtroppo siamo fatti così. E se non si cambia vigliacco registro, anche questa volta ne pagheremo le amare conseguenze.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://en.kiosko.net/ (Mondo) , https://www.giornalone.it/ (Italia) .

(**) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/ucraina-berlusconi-e-travaglio-come-due-vecchi-amici/ .

giovedì 23 febbraio 2023

Ucraina. Berlusconi e Travaglio come due vecchi amici…

 


Quando politica e cultura prendono strade separate, ne accadono purtroppo di tutti i colori.

Facciamo subito un esempio. Berlusconi ha parlato male di Zelensky e il Presidente ucraino ha risposto per le rime.  Per quanto duro, si è trattato  di uno scambio di opinioni politiche. Subito in Italia, i filorussi, tra i quali molti avversari politici del Cavaliere come Travaglio, lo hanno difeso, pur di attaccare Zelensky.

Berlusconi, il nemico principale, culturalmente parlando, della sinistra giustizialista, oggi vicina a Mosca, è diventato un amico  politico.  Anzi un vecchio amico…

Si è di colpo passati dalla critica culturale (l’odiato berlusconismo) alla difesa politica ( contro il guerrafondaio Zelensky). Come se nulla fosse. Perché?

Presto detto. Se in Italia, tutti condividessero (anche a grandi linee e con sfumature per carità) una cultura di tipo liberale, certe cose non accadrebbero. Perché Berlusconi resterebbe zitto (come può un liberale stare dalla parte dell’autocrazia moscovita?), e Travaglio pure (come può un liberale attaccare Zelensky, aggredito da un reazionario come Putin?).

Perciò l’assenza di una cultura liberale conduce a questo tipo di divisioni. Che, ovviamente, hanno conseguenze sociali. Dal momento che l’uomo comune, privo di saldi esempi liberali, sul piano del discorso pubblico, finisce, culturalmente parlando, per concentrarsi, come scrisse profeticamente il grande Guicciardini, sul “particulare”. Avendo pure a portata di mano, come ben sapeva anche Machiavelli, quell’antica cultura sociale del “Franza o Spagna, purché se magna!”.

Non diciamo nulla di nuovo. Esiste in argomento una nutrita letteratura. Insomma, senza un cambio di marcia culturale, nel senso di una socializzazione diffusa (per parlare difficile) della cultura liberale, un episodio, come quello che vede Travaglio e Berlusconi darsi la mano, selfandosi idealmente, sotto la gigantografia di Putin, non può che ripetersi nel tempo. Provocando ogni volta scompiglio tra la pubblica opinione e soprattutto tra la gente comune: quella che ogni tanto butta un occhio distratto sulla politica, prontissima però a credere, perché conviene dal punto di vista del “particulare”, al primo arruffapopoli pacifista.

Ciò purtroppo accade perché non esistono posizioni culturali condivise. E di conseguenza il liberalismo viene considerato una specie di ideologia a singhiozzo.

Per fare un esempio, la cultura dello stato di diritto, tipicamente liberale, non va vista come un risorsa occasionale da impiegare in base alle circostanze contro i nemici del momento: sicché ciò che vale per Tizio, non vale per Caio, e così via, contraddicendosi. Come pure, altro esempio, quando si fa parte, per storia e tradizioni, di una Comunità Atlantica, che condivide valori liberali, non si può sposare la causa di una autocrazia come quella russa.

Insomma esistono confini, dettati da convinzioni culturali condivise, in questo caso di natura liberale, che non possono essere superati. Altrimenti non esiste più alcuna differenza, per l’appunto culturale, tra dittatura e liberal-democrazia. Un confine che una volta venuto meno non può non favorire quel “Franza o Spagna” di cui sopra. Che, a sua volta, sorregge quel pacifismo, del “Perché morire per Kiev?”, che, chiusura del cerchio, fa il gioco di Mosca.

Non ci si dica che è anche colpa di Kiev e che la Russia non ha tutti i torti, eccetera, eccetera. Quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito. Perciò, fuor di metafora, non si guardi il dito del doppiopesismo politico, ma la luna della cultura liberale. Lì è il nostro problema.

Carlo Gambescia

mercoledì 22 febbraio 2023

Neofascismo incorreggibile


 

Si può cambiare nome al partito: Msi, An, FdI. Ma certe idee difficilmente mutano. Sicché dal 1945 le discussioni interne al mondo missino e post missino non sono mai cambiate.

Insomma sempre lo stesso film. Un vero tormentone.

Esageriamo? No. In realtà esiste tutta un’area politica a destra, diciamo culturale, come prova oggi l’editoriale di Veneziani sulla “Verità”, in cui ci si interroga, tra le altre cose, sul viaggio di Giorgia Meloni a Kiev.

Però come? More solito, se stia ricalcando o meno, a cominciare dalla politica estera, le orme della sinistra. A che serve avere una destra al governo se poi si mostra filoatlantica come Draghi? Insomma, se fa le stesse cose… Ecco il punto da cui parte il discorso di Veneziani. Che ben riassume i tic culturali della destra neofascista.

Il neofascismo è incorreggibile. Perché? Per la semplice ragione che al di là degli aspetti folcloristici e di denominazione partitica quel mondo continua a rifiutare, nella sostanza, la dura lezione del 1945. Vi domina tuttora un’avversione, quasi a livello pavloviano, nei riguardi degli Stati Uniti, che sono in automatico identificati con il vincitore che ha privato Italia ed Europa della libertà… Sembra pazzesco ma è così.

Pertanto, anche secondo la cultura politica post missina (An e FdI),  un governo di destra, per essere veramente tale, dovrebbe fuoriuscire dalla Nato: un’alleanza che viene vista come una martellante replica della sconfitta del 1945. Diciamo pure che sotto questo punto di vista neofascisti e post missini sono la stessa cosa.

Attenzione, parliamo di “cultura”: una cosa che si pensa ma non si dice mai del tutto… Si immagini una specie di sottotesto antropologico, di natura antioccidentalista, che emerge, qui e là, in ogni dibattito e nella ciclicità di ogni dibattito. Si intravede ma non si vede. Però c’è.

Dicevamo sembra pazzesco. Eppure c’è un metodo nella follia: ciò che per il mondo libero fu una vittoria della libertà, per il mondo neofascista, in quanto rianimazione postbellica dell’ideologia fascista, il 1945 continua ad essere sinonimo di sconfitta.

Attenzione non si parla solo del piano militare, ma dei valori. Il neofascismo non ha mai accettato ciò che continua a definire la “cultura dei vincitori”: il liberalismo, l’economia di mercato, l’occidentalismo, la modernità, nei suo vari aspetti.

Pertanto il viaggio di Giorgia Meloni a Kiev viene vissuto come la prova del tradimento in favore della Nato e soprattutto dei valori che vi sono dietro. Di qui le solite polemiche neofasciste anche in ambito, ufficialmente parlando, post missino.

Il che spiega l’inevitabile ed ennesimo editoriale di Veneziani Un vero e proprio riflesso condizionato, interno al mondo neofascista che lo ha ideologicamente sempre nutrito.

In fondo Parigi, pardon Kiev, può valere una messa… Questa sembra la tesi adombrata da Veneziani.

Qui però sarebbe interessante capire come la pensi veramente l’enigmatica Giorgia Meloni. Che, cosa da non dimenticare mai, pur dichiarandosi, anche ieri, dalla parte di Kiev, sembra non disdegnare l’orgoglio neomissino, come quando asserisce che “Il Movimento Sociale era un partito democratico”: forse lo era nella forma, obtorto collo, non nella sostanza (*). Ma lasciamo stare.

Perciò, per tirare le fila del nostro discorso, per quel mondo il vero punto della questione e se Giorgia Meloni stia tradendo gli “ideali”, come Fini, come Tedeschi, come Almirante, come Michelini e dulcis in fundo come Badoglio, il Re e i “congiurati” del 25 Luglio. Altrimenti, a che serve avere un destra al governo?

Certo, serve una destra per regolare i conti con vincitori del 1945… Una destra neofascista.

Ora, per dirla tutta, una polemica del genere può essere considerata normale, politicamente normale, a settant’anni dalla sconfitta – e per fortuna – del nazi-fascismo?

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/ignazio-la-russa-isabella-rauti-e-le-radici-che-non-gelano/ .

 

martedì 21 febbraio 2023

La lagna antiamericana

 


La principale accusa contro l’Unione Europea, che gira nei circoli antiamericani, di destra come di sinistra,  è quella dell’asserire che l’Europa non ha difesa né politica estera comune, come provano, si dice, alcune reazioni in ordine sparso alla guerra russa contro l’Ucraina.

Insomma, a detta degli antiamericani, Bruxelles si muove in ordine sparso, subendo così – qui il veleno – i diktat di Washigton: di un’America che invece se ne sta al sicuro, protetta dagli oceani.

Che l’Unione Europea sia disunita sul piano militare è purtroppo storia vecchia. Come pure che i nazionalismi siano duri a morire. Però, cosa che dà enormemente fastidio agli antiamericani, Stati Uniti ed Europa, fortunatamente, condividono una forte alleanza militare: la Nato. Che mette al sicuro l’Europa dai tentativi di assalto  dell’Orso russo, altra  cosa, per inciso, che gli antimericani, quasi tutti filorussi, non gradiscono.

Inoltre l’Unione Europea dispone di una moneta unica, tra l’altro forte, che ad esempio ci ha messo al riparo dal tentativo russo  di estorsione sulle forniture energetiche.

Gli antiamericani che di regola, pur blaterando di democrazia, hanno un debole per i governi autoritari, cosa propongono in alternativa alle attuali istituzioni Ue? O la romantica idea di impero, roba da ridere, puro passatempo intellettuale, per quanto pericoloso, soprattutto quando si sposano stupidamente idee eurasiste, molto amate a Mosca (quando si dice il caso…). O una specie di Europa confederale (l’ “Europa delle Nazioni”) dove al posto del Parlamento Europeo, come si auspica, vi siano le nazioni pure e semplici.

Questa, ad esempio, l’idea di Fratelli d’Italia. Si pensi a una specie di nazionalismo al cubo, in chiave europea, gestito dall’alto, sconfinante in un’unità di facciata, vuota e formale, tra nazioni tese a contrattare ogni cosa. Si tornerebbe a votare per ordini – questa volta nazionali – come nell’ Antico Regime: un passo indietro.

In sintesi, il nazionalismo esclude, l’europeismo include. I conti non tornano eppure le destre, a cominciare da quella italiana, si dichiarano, al tempo stesso, occidentaliste, europeiste e nazionaliste… Esercizi al trapezio, come si diceva un tempo, degni del Circo Togni

Sul punto specifico, soprattutto a livello propagandistico, non si sottovalutino mai, da un lato il tradizionale l’antiparlamentarismo delle destre, dall’altro l’assemblearismo innato delle sinistre. Mai dimenticare che il populismo, di destra o di sinistra, resta il peggiore nemico del liberalismo.

Si dirà che anche oggi è così. In fondo si decide tutto a Bruxelles. Certo, esiste però il Parlamento Europeo, che tuttavia – qui il problema – avrebbe potuto svolgere lo stesso ruolo unificatore che svolsero i parlamenti nazionali nell’Ottocento.

In realtà è accaduto l’esatto contrario: l’Unione Europea non si è mai realmente parlamentarizzata, dal momento che, dopo più di quarant’anni, esistono ancora i parlamenti nazionali. La crisi attuale della leadership europea è nel non possedere un parlamento che si comporti come tale: che legiferi, per tutti, con un esecutivo che ne rifletta le maggioranze. Si ricordi il nesso ottocentesco, tra parlamento e liberalismo.

Nella parlamentarizzazione liberale, le istanze regionali, vennero a poco a poco metabolizzate da quelle nazionali, così come oggi quelle nazionali, in un parlamento, potrebbero essere metabolizzate da quelle europee. Certo, sono processi storici, dai tempi lunghi. Però se mai si inizierà.

Finora i velenosi residui nazionalisti hanno impedito tutto questo. A dire il vero ha influito anche la mancanza di fiducia di molti liberali, convertitisi frettolosamente al socialismo e al welfarismo, nella forza unificante delle istituzioni parlamentari.

Sicché sul liberalismo parlamentare ha avuto la meglio lo statalismo contrattato, nudo e crudo, degli ingegneri dell’anima di Bruxelles, basato sulla tecnologia applicata degli egoismi nazionali. Un atteggiamento, verso la costruzione di una specie di superstato, con una parvenza di parlamento. Una “mala idea” promossa dalle correnti politiche di impianto socialista, cristiano-sociale e liberal-socialista. Una specie di dispotismo illuminato che si beffa delle istituzioni parlamentati europee ridotte a vetrina, se non a qualcosa di peggio.

Perciò insistere sul concetto di “Europa delle Nazioni” significa continuare a camminare nella direzione sbagliata dello statalismo welfarista, riconvertito su basi nazionali. Come pure l’arroccarsi, come fa la sinistra, intorno al grumo istituzionale di Bruxelles.

Come concludere sulla lagna antiamericana? Una volta preso atto dell’errore compiuto nel rifiutare la via della parlamentarizzazione, va comunque respinta ogni forma di romanticismo politico, imperiale o nazionalista. Che, di questi tempi, tende a nascondersi astutamente sotto le pelli dell’agnello pacifista per favorire Mosca.

Detto altrimenti: parliamo di tendenze pericolose che alla lunga rischiano di sospingere l’Europa nelle braccia del nemico russo.

Quanto al dispotismo illuminato (si fa per dire) di Bruxelles, per ora è necessario stringere i denti e restare uniti, però restando vigili.

Concludendo, tenersi  la Nato e la moneta unica.  Al momento è tutto ciò che abbiamo.

Carlo Gambescia

lunedì 20 febbraio 2023

Stati Uniti, Cina, Russia e la regola del tre

 


La Cina cederà ufficialmente armi alla Russia? Al momento nicchia: dai colloqui di Monaco tra Blinken e Wang Yi, alto diplomatico cinese, non è uscito nulla di nuovo. Che la Cina non tolleri imposizioni al riguardo, come dichiara fin dall’inizio della guerra di aggressione russa all’Ucraina, non è certo una novità. Quanto alle polemiche sui palloni spia si tratta di puro folclore da schermaglie diplomatiche.

Inoltre del piano di pace cinese nulla ancora si sa. Probabilmente la Cina cercherà di risparmiare brutte figure internazionali alla Russia, proponendo a Mosca di accontentarsi di quel che finora ha ottenuto, che non è poco ( più o meno la quinta parte del territorio ucraino). Ma sul punto Ucraina e Stati Uniti potrebbero non essere d’accordo. L’Europa, forse. Di qui però la difficoltà di iniziare trattative “autentiche”. Come Mosca, anche Kiev non può perdere la faccia, non tanto sul piano internazionale, quanto su quello interno: una marcia indietro minerebbe la leadership di Zelensky.

Al di là di tali aspetti, pur importanti, resta interessante sul piano concettuale l’aspetto triadico della guerra. Quella che si può chiamare la regola del tre.

Ci spieghiamo meglio.

Se si esclude l’ Europa, divisa e militarmente debole, che non esercita alcun ruolo credibile, come pure l’Ucraina, costretta a muoversi, per ragioni di risorse militari a rimorchio della Nato, gli attori politici principali del conflitto sono tre: Stati Uniti, Russia e Cina.

Di regola nel rapporto triadico, due attori tendono sempre ad allearsi per mettere in minoranza il terzo. Ecco in sintesi spiegata la regola del tre.

Nella crisi scatenata dalla Russia, la Cina per ora non si è sbilanciata, anche se ha mostrato una certa benevolenza verso la Russia. Pur mantenendo, la porta aperta, almeno sul piano diplomatico, verso gli Stati Uniti.Probabilmente, quando e se verrà presentato il piano di pace, si capiranno meglio le scelte della Cina. Che, come riteniamo, non sono ancora definitive.

Tuttavia, che ieri non si sia approdato a nulla, perdendo tempo in schermaglie secondarie, come quella dei palloni spia, non è buon segno.

A volte gli schemi della politica internazionale, piaccia o meno, sono di una durezza estrema. Se si vuole di un realismo terrificante. Che cosa vuole la Cina? Taiwan. Gli Stati Uniti, sono disposti allo “scambio” (che brutta parola…) con l’Ucraina? Qui, il punto. Se si vuole portare la Cina dalla parte degli Stati Uniti , e chiudere la guerra in Ucraina, non scontentando Kiev, sulla base di un triadico 2 contro 1, Washington deve abbandonare al suo destino un alleato storico come Taipei.

Certo, si tratterà poi di lavorare sulle modalità e tempi della transizione e sulla gestione di alcuni interessi strategici americani. Però gli Stati Uniti devono decidere: o Taiwan o l’Ucraina.

Esiste anche un’altra ipotesi: semplificando il concetto, gli Stati Uniti possono decidere di cooptare nell’Alleanza Atlantica Taiwan e l’Ucraina (insomma, di “tenerle" tutte e due), dando per scontata la deriva dell’Alleanza Cina-Russia. E di conseguenza prepararsi a una guerra – non del tutto prevedibile negli esiti – sulla base del 2 a 1 triadico in favore di Mosca e Pechino.

Ovviamente resta anche la possibilità di tirarla per le lunghe, prendere tempo, eccetera, eccetera. Però per fare questo, l’Ucraina deve ricevere massicci aiuti militari. Che implicano sacrifici economici in Occidente nei termini dell’antica scelta tra burro o cannoni.

Infine resta l’opzione di cedere sull’Ucraina, senza nessuna contropartita, abbandonando Kiev al suo destino, ancora prima di aver appreso le decisioni cinesi

In realtà, al momento, dopo un anno di guerra, gli Stati Uniti sembrano non avere ancora le idee chiare. Si arma l’Ucraina, ma fino a un certo punto, consentendo ai russi di respirare. Russi, attenzione, che però sul piano propagandistico, sono regolarmente attaccati e trattati, anche giustamente, come criminali. Al tempo stesso, si irrita la Cina con inutili schermaglie, facendo orecchie da mercante su Taiwan, profondendosi in dichiarazioni di fedeltà nei riguardi di Taipei.

Gli Stati Uniti, purtroppo,  hanno scelto di non scegliere, si comportano come un impero acefalo (*): navigano a vista. Come già scrivemmo l’anno scorso a poche ore dall’invasione russa dell’Ucraina.

Così non va. Non si può ignorare le regola del tre.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/stati-uniti-un-impero-acefalo/ .