Non è stata ricostruita con chiarezza la dinamica dell’ “aggressione fascista” dinanzi al liceo fiorentino. Ma si dia pure per scontata la responsabilità della destra.
Detto questo, ricordiamo agli opinionisti di destra e sinistra, che esiste una cosa, ben studiata in sociologia, che si chiama ciclo della violenza politica. Che, in pratica, una volta innescato, segue inesorabilmente un meccanismo a spirale dalle conseguenze sociali e politiche imprevedibili. Insomma, non si deve mai scherzare con il fuoco.
L’ “innesco” rimanda al clima culturale e alle tradizioni storiche. Il che significa, che al di là degli aspetti legati alle responsabilità penali, il vero problema conoscitivo non è quello di scoprire chi abbia cominciato per primo, ma di analizzare le condizioni sociologiche che rendono possibile l’avvio di un infernale meccanismo a spirale.
Purtroppo, in Italia, la destra estremista, che ora in parte “ripulita” addirittura governa, ha solide tradizioni di violenza praticata. Ma lo stessa sinistra, non è mai stata da meno. Ovviamente, sul piano della retorica politica si tende a giustificare la violenza della sinistra come reattiva rispetto a quella di destra. Per capirsi, sul piano del discorso pubblico prevalente, sarebbe sempre la destra a cominciare.
Il gioco morale, se non moralistico, sul chi abbia cominciato, ripetiamo, non porta, analiticamente parlando, da nessuna parte. Il vero problema è capire perché la violenza politica, in una società con la più ampia libertà di pensiero e parola, risulti tuttora essere una componente, non del tutto secondaria, del conflitto politico.
In ordine scalare, e dal punto di vista storico, tra le società a sviluppo democratico, in larga parte di matrice occidentale o comunque di derivazione europea, la palma d’oro, per così dire, dell’uso sistematico della violenza in politica, spetta alle società centro e sudamericane. L’Europa occidentale, negli ultimi ottant’anni (circa), ha invece subito un processo di stabilizzazione, con alcune impennate negative come lo sviluppo del terrorismo politico, ad esempio nell’Italia degli anni Settanta.
Il terrorismo politico di quegli anni, a destra come a sinistra, toccò solo alcuni paesi, come la Germania, l’Italia, la Spagna (che tra l’altro si trovava, quest’ultima, in una fase di transizione alla democrazia), paesi con un passato politico segnato da dittature.
Cosa significa tutto ciò? Che la violenza politica, che ha nel terrorismo la sua massima espressione, rimanda a un sostrato, precedente, di tipo autoritario e illiberale, che nasce dalla sistematica conversione dell’avversario politico in nemico: in capro espiatorio. Insomma, si tende, non a includere l’avversario, come nemico relativo, ma a escluderlo come nemico assoluto.
In che modo però? Lo si fa, magari credendo di fare la cosa giusta. Per tornare all’Italia si pensi all’uso strumentale della Costituzione “antifascista” ogni volta che si verifica qualsiasi tipo di conflitto, quindi non solo di natura fisica. In che senso “uso strumentale”? Quando la si designa come patrimonio di alcuni che esclude altri. Il che, a dir poco, non aiuta il dialogo politico.
A dire il vero, l’elemento di discrimine tra contenuti effettivi della Carta e uso strumentale è molto sottile. Ciò che il costituzionalista giustifica in punto di diritto, spesso rinvia a interpretazioni in punto di spada, e viceversa. Qui, tra l’altro, andrebbe fatto un lavoro, articolo per articolo, che lasciamo agli specialisti. A noi interessa il punto sociologico.
Qual è insomma il problema di fondo? Il riconoscimento identitario di alcuni implica inevitabilmente il disconoscimento di altri, i quali, a loro volta individuano la propria contro-identità non riconoscendo i valori identitari dell’altro. Sono processi sociali inevitabili, dal momento che la formazione delle identità politiche è basata su meccanismi inclusivi-esclusivi. Ecco il punto sociologico fondamentale.
Certo, le tradizioni culturali e politiche della Costituzione italiana rinviano, giustamente, alla Resistenza e alla sconfitta del fascismo, eventi che però – cosa che per onestà intellettuale va ricordata – rimandano alla guerra civile, che, piaccia o meno, concettualmente, storicamente e sociologicamente, non è altro che terrorismo applicato di massa.
In pratica, il 1943-45, può essere inquadrato come un vero e proprio ciclo della violenza. Pensiamo a quelle età che la politologia sudamericana ha icasticamente battezzato della “violencia”: come fu per la società colombiana, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.
Va anche ricordato, a proposito di uso strumentale delle costituzioni, che l’esperienza sudamericana, con alcune eccezioni, vanta in due secoli un altissimo numero di costituzione varate. Ogni governo, dittatoriale o meno, ne promulgava una nuova contro gli avversari-nemici, e così via.
Cosa vogliamo dire? Che, chi scrive, pur essendo antifascista, si rende conto, come sociologo (e studioso di metapolitica), che – semplificando al massimo – la Costituzione italiana è nata dalla guerra civile, sicché riflette i valori vittoriosi dell’antifascismo. E forse non poteva non essere così.
Di conseguenza però, essendo di natura divisiva – oggettivamente divisiva – ha creato le condizioni di un conflitto, anche fisico, ricorrente e, per ricaduta, ha accresciuto le possibilità di reiterazione di quel ciclo della violenza, eccetera, eccetera.
Va detto che, a ipotesi rovesciate, una Costituzione fascista avrebbe determinato altrettante divisioni. Come pure va riconosciuto che la nostra Costituzione è lì da quasi ottant’anni. Quindi l’ Italia non è la Colombia. Però il rischio legato al suo uso strumentale esiste.
Si poteva evitare tutto ciò? Storicamente parlando il discorso sarebbe troppo lungo. E come detto il nesso tra divisioni politico-sociali e costituzioni è piuttosto rigido. Va però ricordato che la Costituzione italiana fu opera soprattutto di cattolici, socialisti e comunisti, culture politiche fortemente identitarie, quindi esclusive. Per contro, la cultura liberale della tolleranza e dell’inclusione politica fu in larga parte accantonata.
Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia
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