I discorsi di insediamento di un presidente del consiglio, dovrebbero essere il momento più alto della democrazia liberale. Non libretti dei sogni, in cui si promette il cielo, ma solo indicazioni di pochissimi punti su quali sicuramente si interverrà.
In Italia, con il Centrosinistra negli anni Sessanta si inaugurò la stagione dei voli pindarici. Alla concretezza degli anni Cinquanta, soprattutto della prima legislatura degasperiana, seguì l’assalto alla diligenza della spesa pubblica. Governi che governavano troppo, e che spendevano e spandevano.
Infine, con la cosiddetta Seconda Repubblica, si è rivelata in tutti i neopresidenti del consiglio una vena populista che ha condotto l’Italia lungo le scivolose strade di una impolitica contrapposizione tra il popolo buono e le élite cattive. Nuovo dogma delle piazze televisive. Che tuttora impazza.
Da questo punto di vista il discorso della Meloni si è inserito di diritto in questa mistificatoria e manichea nuova religione politica. Ecco un florilegio (*).
“E se per farlo dovremo scontentare alcuni potentati o fare scelte che potrebbero non essere comprese nell’immediato da alcuni cittadini, non ci tireremo indietro, perché il coraggio di certo non ci difetta”.
“Noi, per intenderci, non concepiamo l’Unione europea come un circolo elitario, con soci di serie A e soci di serie B o, peggio, come una società per azioni e diretta da un consiglio d’amministrazione, con il solo compito di tenere i conti in ordine”.
“Perché il modello degli oligarchi seduti su pozzi di petrolio ad accumulare miliardi senza neanche assicurare investimenti non è un modello di libero mercato degno di una democrazia occidentale”.
“…Anche per ambire a una piena sovranità alimentare non più rinviabile. Che non significa, ovviamente, mettere fuori commercio l’ananas, come qualcuno ha detto, ma più banalmente garantire che non dipenderemo da Nazioni distanti da noi per dare da mangiare ai nostri figli”.
Crediamo possa bastare: complottismo e populismo in quantità industriali. Insomma, una retorica politica che si commenta da sola.
Il che non significa che non si possa registrare addirittura un peggioramento. Se c’è una nota nuova, per così dire, è nel fatto che il feroce antielitismo populista ha trovato la sua eroina: Giorgia Meloni non si sente una signora. Si autoincensa tirando fuori tutto il suo velenoso odio sociale per quel sistema, che la militanza neofascista, tra l’altro rivendicata orgogliosamente, come vedremo più avanti, le ha insegnato a odiare.
“In fondo io sono la prima donna che arriva alla Presidenza del Consiglio, vengo da una storia politica che è stata spesso relegata ai margini della storia repubblicana e non ci arrivo tra le braccia di un contesto familiare favorevole o grazie a amicizie importanti; sono quello che gli inglesi definirebbero un underdog, diciamo così, lo sfavorito, quello che, per riuscire, deve stravolgere tutti i pronostici. È quello che intendo fare ancora, stravolgere i pronostici, con l’aiuto di una valida squadra di Ministri e sottosegretari […]. Perché, alla fine di questa avventura, a me interesserà una cosa sola: sapere che abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare per dare agli italiani una Nazione migliore. A volte riusciremo, a volte falliremo, ma state certi che non indietreggeremo, non getteremo la spugna, non tradiremo. “.
C’è poco da aggiungere. Una pennellata di femminismo rosa e quaranta sfumature di nero. Insomma, pura mitologia populista. E fascista. Roba da “Duce degli Umili”: la perdente (underdog), ora però vincente, che assume sulle spalle tutto il peso dei perdenti della Nazione, ovviamente con la maiuscola. Che vendicherà.
Ma c’è un altro aspetto interessante. L’ossessione della Meloni per il tradimento rinvia direttamente a un ambiente politico, quello missino, che scorge reincarnazioni di Badoglio ovunque. Un’ eredità ideologica che la Meloni rivendica orgogliosamente, fornendo una versione della storia repubblicana della destra missina da manuale del perfetto neofascista. Per inciso si noti il silenzio su Resistenza e Liberazione.
Ma quando mai il Movimento Sociale si è comportato da forza partitica che credeva sinceramente nella democrazia parlamentare... Diciamo che fu costretto dagli eventi, e senza neppure grande convinzione. Se è vero come è vero, che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando la Meloni frequentava la sua sezione, si celebrava, senza provare vergogna, il prossimo venturo “Fascismo del Duemila”.
Gianfranco Fini, che ci credesse o meno, come scrivevamo ieri, tentò vanamente di aprire Alleanza nazionale all’esperienza liberale. Sparito dai radar.
Se proprio di integrazione politica si deve parlare, va ricondotta, come ha scritto lo storico Roberto Chiarini, nell’alveo delle integrazioni di tipo passivo: obtorto collo. Dinamiche in cui l’apparire prevale sull’essere politico. O se si preferisce la menzogna sulla verità.
Con Giorgia Meloni si fa addirittura un passo indietro rispetto ad Alleanza Nazionale: si rivendica l’essere politico del Movimento Sociale. Usando lo stesso linguaggio populista di una destra missina che si è sempre rifiutata di fare i conti con il fascismo. A parole Giorgia Meloni condanna le leggi razziali, ma quando parla di “potentati” e di “oligarchi seduti sui pozzi di petrolio”, fa capire benissimo ai suoi, e neppure così in cifrato, dove voglia andare a parare.
Giorgia Meloni non è una signora. E ieri lo ha cantato squarciagola. Come Loredana Bertè.
Carlo Gambescia
(*) Qui il testo: https://www.governo.it/it/articolo/le-dichiarazioni-programmatiche-del-governo-meloni/20770 .
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