«[Per Giorgia Meloni] È il momento delle scelte, e a guidarle, rivendicherà, sarà unicamente quella “difesa degli interessi degli italiani” che è stata la cifra della campagna elettorale che l’ha portata a essere la prima donna a capo dell’esecutivo (ANSA)».
Sarebbe bello scrutare l’espressione dei ministri e della stessa Meloni, se, un consulente esterno, un “tecnico” delle scienze sociali, interpellato dal governo, replicasse, messo dinanzi all’idea “della difesa degli interessi degli italiani”, come nell’esposizione che segue.
Quando si chiedeva a Max Weber, quali erano le principali doti di un politico, rispondeva che erano il carattere (ad esempio il non arrendersi mai, il ricominciare sempre da capo) e la coerenza nelle proprie idee (ad esempio, la fedeltà ai principi: non si può essere conservatore e progressista al tempo stesso). Oltre, cosa non secondaria, a una certa dose di diffidenza (mai disprezzo e odio però) verso la democrazia, giudicata come sistema migliore tra i peggiori.
Ecco allora la replica immaginaria di un tecnico delle scienze sociali (una specie di idraulico della politica con laurea e dottorati).
Il principio meloniano della “difesa degli interessi degli italiani” – impone di credere, e con coerenza, nel valore dell’esclusione rispetto a quello dell’inclusione.
Escludere significa dividere, includere unire. Quindi Giorgia Meloni sembra porre la divisione a principio di governo. Ovviamente, il principio di esclusione, implica l’inclusione di tutti gli italiani, nel senso però che anche chi la pensi in maniera contraria deve lasciarsi includere in qualche modo, esercitando in proprio il principio di tolleranza, eccetera, eccetera.
Per contro il principio di inclusione favorisce la cooperazione tra inclusi ed esclusi. Quindi unisce. Anche qui però il principio di tolleranza gioca un ruolo importante tra gli esclusi, che a mano a mano che vengono inclusi, devono, a loro volta, esercitare il principio di tolleranza verso i nuovi esclusi, eccetera, eccetera.
Una democrazia liberale è largamente inclusiva, coma prova la storia della modernità. Ovviamente, come tutti i processi storici, si tratta di fenomeni ricchi di contraddizioni e contrasti. Però la storia degli ultimi secoli, a partire dalle grandi scoperte geografiche e scientifiche, si è qualificata, oggettivamente, come un processo di graduale inclusione dei popoli nella cultura della modernità occidentale.
A questo punto, Giorgia Meloni e i suoi ministri comincerebbero a sbadigliare. In realtà, dovrebbero invece manifestare grande interesse, perché predicare il principio di esclusione significa fare alcuni pericolosi passi indietro rispetto al processo di inclusione mondiale che abbiamo ricordato.
Non si dimentichi mai che nazionalismo, l’apice politico di ogni processo esclusivo, non favorisce, per principio i rapporti pacifici tra i popoli: si include, escludendo. Rischiamo perciò di tornare all’Ottocento. Quando però – attenzione – l’idea di nazione e di istituzioni liberali, perciò di esclusione geopolitica (i “risorgimenti”) ma di inclusione giuripolitica (le istituzioni liberali), erano saggiamente coniugate insieme.
Si tratta tuttavia di un equilibrio non facile, sempre precario, come prova la storia del Novecento. Dal momento che il principio esclusivo esercita più fascino di quello inclusivo, soprattutto tra la gente comune facile preda dell’emotività politica. Sicché, ogni volta che è stata messa in discussione la miracolosa sintesi tra idea di nazione e istituzioni liberali si sono prodotte catastrofi politiche.
Pertanto insistere sul principio “della difesa degli interessi degli italiani” può esser pericoloso sotto il profilo dell’interruzione di un secolare processo storico di inclusione, intorno ai valori della modernità occidentale, tra l’altro sempre a rischio e in discussione, come impone la stessa filosofia illuministica della modernità.
Sarebbe perciò il caso di riflettere su una presa di posizione politica dalla conseguenze molto pericolose.
A questo punto, tra gli scongiuri dei ministri, il tecnico delle scienze sociali verrebbe ringraziato e invitato a tornare ai suoi studi.
Certo, si può sostenere che la modernità occidentale non è condivisa da tutti i popoli. E che dietro il processo di inclusione, magnificato, dal nostro tecnico delle scienze sociali, si nasconde l’egemonia geopolitica dell’Occidente.
Però, oltre a fatto che una cosa è privilegiare l’inclusione, quindi la tolleranza, pur tra le contraddizione storiche, eccetera, eccetera, un’altra sposare la causa dell’esclusione che deifica le contraddizioni, che invece nel quadro della modernità occidentale sono puri e semplici incidenti di percorso.
Infine, per tornare a Max Weber, sul piano dei valori, al politico si chiede coerenza. Perciò, per capirsi: non si può essere al tempo stesso pro e contro l’Occidente. Quando Giorgia Meloni, dichiara di voler difendere gli interessi degli italiani, si pone decisamente contro la modernità liberale, che così diventa una opzione tra le altre.
Però, attenzione, se facesse marcia indietro tradirebbe i suoi valori, mostrando di essere incoerente. Come si può capire, i principi in politica contano e spesso assumono forza propria. Quindi chi sceglie la “politica come professione” – per dirla di nuovo con Weber – deve prestare molta attenzione a quel che dice.
Un’ultima notazione. Che altri partiti politici, nella stessa Europa, ragionino come Fratelli d’Italia non significa che si possa mettere ai voti, come una qualsiasi legge, un processo storico che ha avuto proprio nel principio di inclusività dei popoli il suo valore più nobile.
Qual è allora in senso di tutto questo discorso? Che si rischia di ripetere lo stesso errore catastrofico degli illiberali nazionalismi novecenteschi. Probabilmente non sarà opera immediata di Giorgia Meloni. Però la responsabilità di avere rimesso in circolazione certe idee pericolose è tutta sua.
Carlo Gambescia
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