La strategia è una cosa seria, soprattutto se geopolitica e militare. La Russia ne ha sicuramente una. Che può essere articolata in due obiettivi: uno massimo, uno minimo.
Quello massimo, rimanda al ritorno ai confini del 1945 (semplificando), che racchiudono i sogni di gloria degli zar, anche rossi. Quello minimo, anch’esso vecchio progetto zarista, rinvia alla conquista degli sbocchi sul Mar Nero, tagliando fuori il Sud-Est dell’Ucraina.
Riuscirà non riuscirà? Non è questo il problema. Esiste una linea strategica. La Russia sa cosa vuole e cerca di perseguirlo, con i mezzi e l’intelligenza politica e militare a disposizione.
E gli Stati Uniti e l’Europa?
Sull’Europa è bene stendere un velo pietoso. Non esiste alcuna strategia né militare né geopolitica. Vive alla giornata. Con la Germania che rema contro.
Quanto agli Stati Uniti, gli storici insegnano che la sua classe politica, sostanzialmente isolazionista fin dalla nascita, non ha mai delineato alcuna strategia mondiale. Si può tranquillamente sostenere che gli Stati Uniti sono stati praticamente tirati per i capelli dentro due guerre mondiali.
La politica estera statunitense, del secondo dopoguerra, non è che la continuazione (incluse le guerre di Corea, Vietnam, Golfo e Afghanistan) di un film che potrebbe essere intitolato “Potenza mondiale per caso”.
Il che prova l’assenza di una precisa strategia geopolitica mondiale degli Stati Uniti, “eroi per caso” e... coca cola per tutti.
In questo senso, non si confonda mai la visione degli Stati Uniti come potenza malefica usata dai suoi nemici (quindi una costruzione ad hoc), con la realtà storica della politica estera americana, fatta di dubbi, incertezze, speranze, in un’alternanza di realismo economico e idealismo ideologico, di isolazionismo e interventismo, più o meno idealizzato, dell’ultimo minuto.
Ossia, grandi asserzioni ideali sui valori americani, buoni affari dove possibile concluderli, disimpegno militare finché possibile. E alla fine, quando proprio manca l’ossigeno, si scende in guerra. Per poi subito ritrarsi, come dopo il primo conflitto mondiale.
Lo stesso atteggiamento nei riguardi dell’America centrale e meridionale, stigmatizzato da antiamericani, fascisti e marxisti, è frutto di aggiustamenti politici, mezze misure economiche, interventi o aiuti militari solo quando indispensabili.
C’è una tendenza, come nel caso del Cile, di Cuba, ora del Venezuela, al laissez faire geopolitico, frutto di una convinzione che anima tutta la storia della politica estera americana, che può essere condensata così: “Siamo i migliori, prima o poi anche i nemici si convertiranno culturalmente ai nostri valori”. Kissinger ne era consapevole e criticava.
Personaggi politici con Monroe e Roosevelt (Theodore), attivi politicamente prima delle grandi guerre mondiali calde e fredde, sono pure e semplici eccezioni, che, come si dice, confermano la regola.
C’è un’incapacità culturale americana di “pensare la guerra” in un quadro geopolitico ben delimitato. Ad esempio, la Russia, al posto degli Stati Uniti si sarebbe impossessata militarmente dell’America centrale e meridionale: oggi quelle terre sarebbero una gigantesca Ucraina, ingabbiata però dentro i confini russi.
Ciò non significa che gli Stati Uniti non siano una potenza in termini risorse militari ed economiche, ma vuol dire che la Repubblica Stellata risulta incapace di inquadrare e finalizzare le risorse militari in direzione di una precisa strategia geopolitica.
Si parla tanto, e male, di “occidentalizzazione” del mondo. In realtà, gli Stati Uniti non riescono a spingersi al di là di una rete di relazioni economiche, tra l’altro sempre reversibili. Purtroppo, il cosiddetto soft power, rimanda all’idea del “nemico che prima o poi si convertirà”…
In realtà, si procede a tentoni e come per caso. Sull’ invasione dell’ Ucraina, a due mesi dall’attacco russo, si cincischia, si spera, più che credere, nella forza delle sanzioni economiche e di un aiuto militare parziale e da lontano. L’idea, di allungare a dismisura i tempi del conflitto, che sembra aleggiare su Washington, indica la completa assenza di una strategia, se non quella di attendere, se ci si passa l’espressione, che “Ha da passà ‘a nuttata”.
Il che complica tutto, e terribilmente, perché le cose possono precipitare all’improvviso, e quindi trascinare gli Stati Uniti, in guerra, come tradizione, per i capelli. Con una differenza fondamentale rispetto alla due grandi guerre novecentesche: il bottone atomico.
Allora, si dirà, cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti? Diciamo cosa avrebbero dovuto fare, perché ora è tardi. O almeno così pare.
Far capire subito ai russi, e questo fin dal 1991, allora indeboliti dalla crisi interna, che gli Stati Uniti non avrebbero ammesso alcuna interferenza politica e militare a proposito della libera autodeterminazione dei popoli fino allora soggetti all’Unione Sovietica. Nuova direzione di marcia. Ovviamente, se desiderava, inclusiva della Russia, e così via lungo i sentieri di un Pil soddisfacente per tutti.
E invece, cosa è accaduto? Che i popoli dell’Est, hanno scelto liberamente l’Occidente, ma gli Stati Uniti hanno lasciato per così dire la patata bollente nelle mani di un’Europa, seppure all’interno della Nato, incapace di preoccupare la Russia. L’intervento militare di Clinton nella guerra del Kosovo, un liberal (quindi versante idealista, l’altro è l’isolazionista materialista), fu il classico intervento americano tirato per i capelli, qualsiasi cosa pensino al riguardo antiamericani, fascisti, e marxisti.
Cosa che ora non si sta ripetendo, dopo il confuso e vile intervallo georgiano, davanti ai carri armati russi in Ucraina. Gli Stati Uniti brancolano nel buio.
Pensare la guerra, non significa farla ogni costo, ma vuol dire pensarla all’interno di un preciso disegno geopolitico, il cui quadro può essere ricondotto nell’alveo di una “occidentalizzazione” culturale e sociale del mondo, se proprio si vuole usare questo brutto termine, dal momento che i valori dell’Occidente, piaccia o meno, hanno valore universale e liberatorio dell’ individuo da soffocanti tradizioni autoritarie e antieconomiche.
Parliamo di un processo di universalizzazione, frutto, in primis, del contratto, ma quando occorre anche della spada.
Carlo Gambescia
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