lunedì 10 gennaio 2022

Riflessioni sui cento anni dalla “Marcia su Roma” (1922-2022)

 


La destra, l’ estrema destra, aspira addirittura a celebrare i cento anni trascorsi dalla “Marcia su Roma” (1922-2022). Per ora Giorgia Meloni tace, il “Secolo d’Italia” pure, però nel sottobosco giornalistico e attivistico dell’estremismo – i famigerati fascisti del XXI secolo – qualcosa si muove. Vedremo.

Comunque sia, che ci sarà mai da celebrare? Fu un colpo di stato che culminò nell’instaurazione della dittatura di un partito nazionalista, statalista, antiliberale, antidemocratico, bellicista e razzista, che si alleò con Hitler e con i militaristi giapponesi, trascinando l’Italia in guerra, guerra mondiale che si tramutò in guerra civile, una tragedia insomma.

Nonostante ciò, neofascisti, populisti, nazionalisti, pardon sovranisti, simpatizzanti dell’autoritarismo e degli uomini forti ricordano con nostalgia il fascismo. Si dice che salvò l’Italia dal comunismo, allora si chiamava bolscevismo, e che costruì lo stato sociale.

E sia pure. Ma a che prezzo? Quello di privare gli italiani della libertà politica ed economica per più di vent’anni, rendendo ancora più vischiosi e corrotti i rapporti tra politica ed economia. Una scelta disastrosa che tuttora ci portiamo dietro. Perché tradottasi nel secondo dopoguerra nella cosiddetta economia mista, pubblica e privata, tuttora fonte di scandali e ruberie.

All’indomani della Prima Guerra Mondiale, guerra vinta dalla ingiustamente vituperata Italia liberale, la vera rivoluzione da intraprendere doveva essere quella di proseguire nella modernizzazione liberal-democratica dell’Italia. Opera che Nitti e Giolitti tentarono, pur con visioni diverse e in un contesto difficile se non drammatico di un dopoguerra avvelenato da inutili, stupide e complicate tensioni nazionaliste.

Se si deve ritrovare il filo conduttore del vittorioso colpo di stato fascista del 1922 lo si può individuare nel nazionalismo, ovviamente un nazionalismo divenuto tale perché separato dal pacifico spirito di nazionalità del liberalismo e dalle sane regole politiche ed economiche della liberal-democrazia.

Il fascismo sposò invece la causa di un nazionalismo razzista, populista e bellicista, totalmente incapace di intendere e di volere, perché prigioniero di schizofrenici sogni di grandezza imperiale che l’Italia non poteva assolutamente permettersi.

Un caso di patologia politica, simile a quelle forme di romanticismo politico che scambiano il sogno con la realtà. E come tale va ricondotto, anche storiograficamente, nell’alveo dei vicoli ciechi della storia d’Italia moderna: dal frainteso riformismo degli ultimi Borboni (oggi addirittura tornato in auge), al romanzesco primato giobertiano, come pure al populismo e mazziniano e al salgariano imperialismo di Crispi. Quindi non invasione degli Hyksos ma problema storiografico, con importanti ricadute politiche.

Tuttavia, se consenso popolare ci fu, prima passivo (negli anni Venti), poi parzialmente attivo (negli anni Trenta), fino alla conquista dell’ Etiopia (compresa), il consenso rinvia all’equivoco nazionalista.

I rapporti dei prefetti inviati a Palazzo Venezia, studiati attentamente dagli storici, provano che nella seconda metà degli anni Trenta gli italiani di tutti gli strati sociali (quindi inclusa la piccola borghesia emergente defeliciana) temevano una nuova guerra.

Insomma, i nodi esistenziali e sociali del nazionalismo ( in ultima istanza, l’ essere disposti a morire per l’Italia fascista) venivano al pettine, man mano che la situazione internazionale virava verso il conflitto mondiale, a causa dei colpi di mano di Hitler, ma anche dei Giapponesi in Cina, senza tralasciare l’invasione italiana in Etiopia.

Pertanto chi scrive che il fascismo fu solo parate, una facciata, non ha tutti i torti.

Il bellicismo e il militarismo, congiunti a un nazionalismo che non aveva nulla di liberale e risorgimentale (con buona pace di un grande storico come Gioacchino Volpe), non avevano attecchito a livello collettivo, come poi proveranno i disastrosi sviluppi della guerra e soprattutto della guerra civile.

Ovviamente, per i fascisti di ieri e di oggi – altrimenti non si capirebbe il perché della celebrazione della “Marcia su Roma – gli italiani rifiutarono di capire la grandezza del fascismo che non poteva non coincidere, come si diceva allora, con la grandezza della “nazione in armi”.

Il che spiega peraltro il pendant nazionalsocialista e nazionalcomunista del neofascismo, soprattutto quello movimentista, “di sinistra”, che non ha mai smesso di ammirare la "coerenza"  politica (tradotto: radicalismo) di personaggi come Hitler e Stalin. E che non ha mai cessato di sognare la vittoria nella partita di ritorno, per così dire.

Il che riporta all’ideologia neofascista, nelle sue varie espressioni nazional-rivoluzionarie (per così dire) che continua a vedere nel 1922 una rivoluzione tradita dagli stessi italiani, incapaci di essere all’altezza degli storici ed epocali disegni di Mussolini. Sul punto, un’opera, tra l’altro ben scritta, come la Storia del Fascismo di Rauti e Sermonti, la dice lunga.

Perciò il neofascismo sotto questo profilo resta molto pericoloso, perché si nutre di un pregiudizio antropologico negativo a proposito degli italiani: mai all’altezza, si ripete, dei grandi uomini della provvidenza, da Giulio Cesare a Mussolini, passando per Cola di Rienzo.

Pertanto, per ricorrere a una mediocre metafora calcistica, se partita di ritorno dovesse esserci, la squadra in campo “giocherebbe” in modo molto più determinato della “formazione” schierata nel Ventennio. Allenatore e giocatori, questa volta,  punterebbero tutte le carte, senza tante remore e compromessi, su una specie di mutazione antropologica, da creare in laboratorio, laboratorio politico…

Perché – mai dimenticarlo – il fascismo, politicamente parlando, quindi per Dna, resta una forma di costruttivismo, una specie di positivismo politico, o meglio ancora di giacobinismo politico, che designa nello stato l’unica entità istituzionale capace di tramutare gli italiani, come spesso si leggeva e legge, da pecore in leoni.

Quindi la seconda ondata, storicamente parlando culminerebbe, tra le altre cose,  nell’assoluto statalismo.

Concludendo, ripetiamo, che c’è da celebrare? Il ritorno di quello che Giuseppe Antonio Borgese chiamò Golia?

Carlo Gambescia

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