Che cos’è la prudenza politica? Esistono due versioni.
La prima, di tipo etico, rinvia alla distinzione astratta tra bene e male: scelta nobilissima, ma pericolosa sul piano operativo, perché rimanda all’etica dei principi: quella del “Fiat iustitia et pereat mundus, (“Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo”), Che, una volta sposata politicamente, sfocia nella sconsideratezza e nell’oppressione. Perciò, in questo caso, si può parlare di prudenza politica cattiva.
In realtà, la prudenza per il vero realista politico è rappresentata “dall’immaginazione del disastro”, come asserisce il mio amico Jerónimo Molina. Cioè, dall’assunzione di un comportamento teso a evitare l’eventualità di pericoli e di danni – attenzione – immaginati non immaginari.
Distinzione fondamentale perché il rischio immaginario, come detto, rinvia all’etica dei principi. Ad esempio: “Se pecchi vai all’inferno”. Oppure “… ti rimorderà la coscienza”. Ma esiste l’Inferno? Esiste la coscienza? Non è dato sapere, almeno allo stato dei fatti storici e sociologici. Larga parte dell’umanità agisce tuttora come se non esistessero né l’uno né l’altra. Quindi si tratta di rischio immaginario.
Per contro – e qui veniamo alla seconda versione della prudenza politica, quella buona – quando il sociologo afferma che “il potere dello stato riduce quello dell’individuo”, si entra nell’ambito di un fatto reale, comprovato storicamente.
Ciò significa che il rischio, dell’oppressione individuale cresce man mano che cresce il potere dello stato. Quindi il rischio non è immaginario ma immaginato. Non sono favole per bambini.
Pertanto la prudenza politica buona resta basata sull’etica dei mezzi, che in realtà si riduce a calcolo ragionato dei pericoli concreti, immaginati, come ad esempio, il rischio statalista. Un’etica di metodo, insomma. Come pure c’è una prudenza politica cattiva, fondata sull’etica dei principi, che ragiona di pericoli astratti, immaginari, come ad esempio, il rischio “infernista” o “coscienzista”.
“Caliamo” nell’analisi del presente quanto abbiamo fin qui detto.
Dinanzi all’epidemia, pardon pandemia, quale tipo di atteggiamento prudenziale è stato assunto dalla classe politica? Quello del rischio immaginario o immaginato? Quale tipo di prudenza politica, buona o cattiva, ha distinto le politiche dei governi che si sono succeduti in questi due anni?
Facile rispondere. Quello del rischio immaginario che discende dall’ etica dei principi. Che imponeva allo stato di intervenire per il bene dei cittadini, evocando la prudenza. Un bene collettivo – come si continua a ripetere fino alla nausea – che solo lo stato, dotato di un’ etica superiore, può conoscere, anzi riconoscere, e così via, verso l’alto dei cieli dell’imperativo categorico di stato.
Sicché non si è assolutamente presa in considerazione l’etica dei mezzi, più terra terra, del calcolo ragionato, che avrebbe prudentemente consigliato di evitare il rischio statalista, rischio immaginato non immaginario.
Ora, in questi giorni, dopo due anni di cattiva prudenza politica, alcuni osservatori si interrogano – come Alice nel Paese del Meraviglie – sulla “pandemia burocratica”. E sulle misure necessarie per contrastarla.
A evocare il bisogno di una liberalizzazione – ovviamente graduale, non sia mai… – sono gli stessi che due anni fa erano dalla parte dei rigoristi dello stato etico.
Hanno forse cambiato idea? No. Le motivazioni avanzate sono sempre di tipo statalista, diciamo “stop and go”, nel senso che è sempre lo stato a decidere quando fare un passo avanti o indietro.
Ci si muove sempre nell’ambito della cattiva prudenza politica. Perché, alla prima occasione, lo stato etico riaprirebbe subito le prigioni domestiche.
Concludendo i “liberalizzatori” di oggi, come ad esempio Cerasa sul “Foglio”, sono gli statalisti di domani. E anche di ieri.
Carlo Gambescia
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