Il titolo del “Tempo” di Roma (“Draghi battuto dai contagi” *) è rappresentativo, diremmo emblematico, della politicizzazione dell’epidemia, pardon pandemia, anzi endemia (su questo termine torneremo nella chiusa).
Una politicizzazione da parte di una destra che invece dovrebbe tenersi lontana, anzi contrastare ogni prevaricazione statalista sull’individuo.
In che senso politicizzazione?
In primo luogo, come versione politica, partitica, dei fatti. Perciò di parte. In base però alle posizioni assunte dall’avversario. Detto altrimenti: come per il torrone, un giorno, si è per le regole più dure, un altro per quelle più morbide. Draghi, prima era un salvatore della patria, ora è un suo nemico, domani chissà…
In secondo luogo, come riduzione della politica a politica pubblica, se si preferisce al ruolo determinante e sovrastante dello stato. Detto altrimenti: un giorno sì e l’altro pure si difende la regolamentazione della vita sociale. Si discute di organizzazione pubblica e non di come liberarsi dall’organizzazione, stessa o comunque di ridurne portata ed effetti distruttivi della libertà individuale.
Politicizzazione e statalismo sono le due malattie mortali, o comunque nocive, di una politica incapace di fuoriuscire dall’infernale ciclo della spesa pubblica, come principale strumento per guadagnare voti. Per farla breve: il welfare come diabolica fabbrica elettorale del consenso politico e sociale.
Qualcuno si chiederà se le critiche del “Tempo” a Draghi sono fondate o meno. La vera domanda non è questa.
Allora qual è? La vera domanda è questa, anzi le vere domande sono due : Perché siamo ridotti così? Perché la politica si è tramutata in “statalizzazione” della società. Un’idea, dalle radici totalitarie, condivisa dalla sinistra, cosa scontata per i seguaci di una ideologia collettivista. Ma purtroppo ritenuta giusta anche dalla destra, cosa meno scontata, considerate le tradizioni liberali, o comunque di libertà, che dovrebbero innervarla.
Ci si può rispondere che lo stato, davanti all’epidemia, pardon pandemia, non poteva e non può restare a guardare. E che negli ultimi due anni lo stato è intervenuto ovunque nel mondo, a prescindere dalle differenti tradizioni politiche, liberali o meno.
Ora, a parte che i conti si faranno alla fine (sempre se fine si avrà), storia e sociologia insegnano che la semplice dichiarazione di emergenza implica, di regola, l’automatica estensione del ruolo dello stato, o se si vuole del pubblico. Un processo sociologico – mai dimenticarlo – che si prolunga e intensifica in base alla durata dell’emergenza.
Quanto più dura lo stato d’eccezione tanto più la società si impoverisce dal punto di vista dell’esercizio delle libertà individuali. Ed è esattamente ciò che è accaduto e sta accadendo. Pertanto il problema non è Draghi, il Draghi di sinistra, diciamo, e come sostituirlo con un Draghi di destra. Ma come uscire il più rapidamente possibile dallo stato di emergenza per tornare alla normalità.
Qui però entra in gioco la “lettura politica” della situazione epidemiologica. Che fin dall’inizio è di tipo catastrofista. Ovviamente, sul punto specifico, come per il resto, i conti si faranno alla fine (se fine, eccetera).
Per ora, ciò che conta sotto il profilo analitico (e pratico) è che continua a prevalere la versione “ultimi giorni dell’umanità”. Che ovviamente è funzionale allo stato di emergenza e alla trasformazione, come detto, dell’epidemia, pardon pandemia, in risorsa politica e nei suoi risvolti pratici: un devastante intervento statale legato al ciclo elettorale-welfarista. Il che ci riporta al titolo del “Tempo”, al teatrino politico statalista, eccetera, eccetera. Cose che abbiamo già spiegato.
Questa “funzionalità” è voluta o meno? Dietro c’è un progetto preciso? Oppure no?
In realtà, il confine tra politiche intenzionali e conseguenze inintenzionali delle politiche intenzionali è difficile da stabilire. Quindi non è facile rispondere. Di certo si può dire che una volta che la macchina dello stato è “partita” resta molto difficile “arrestarla”. Siamo davanti a un processo strutturale, di moltiplicazione di misure, obblighi, divieti, provvidenze e controlli, che va oltre gli individui. Che, in qualche misura, finiscono per accettare – qui la funzionalità di massa – la “nuova normalità”, seppure “anormale” rispetto alla passata “normalità”.
Del resto sono note le capacità umane di adattamento a ogni situazione. Capacità che, secondo le situazioni, possono rappresentare il lato nobile o meno nobile degli esseri umani, come d’altra parte sottolinea la lezione dell’antropologia culturale.
Va notato infine come da qualche giorno si parli non più di pandemia ma di endemia: di un agente infettivo, costantemente presente in una popolazione, con il quale, si dice, dovremo imparare a convivere.
Il che significa, che lo stato di emergenza, quindi la politicizzazione e lo statalismo, come pure il teatrino partitico tipo quello del “Tempo”, sono destinati a durare.
Fino a quando? Purtroppo, non siamo in grado di rispondere.
Carlo Gambescia
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