domenica 31 ottobre 2021

PAROLE MAGICHE, MULTILATERALISMO

 

 

 

La politica è fatta anche di parole, parole magiche, nel senso che aiutano a giustificare, abbellendola,  una certa  realtà, sul piano del convincimento collettivo.  Si pensi, come esempio,  al prestigiatore, che distraendo gli spettatori, fa scivolare dalla manica del frac la carta  che  gli occorre. A poker  però si parla  anche di  bari.

Ieri Draghi  ha dichiarato che dal multilateralismo, inteso come decisioni prese liberamente  dagli stati, in apposite strutture  verticali,  come ad esempio il G20, non si può tornare indietro.  Draghi  oppone, quasi in chiave biblica, il  multilateralismo al   bilateralismo, liquidato , non a torto,  come  una pericolosa  protuberanza del  nazionalismo, dell' egoismo, eccetera,eccetera.  

Perciò la parola magica è multilateralismo.

Purtroppo, non basta accomodarsi allo stesso tavolo per eliminare i  reali rapporti di forza. Certo, parlare è sempre meglio che  sparare. Nessuno nega  la grande lezione  del liberalismo politico.  Però, il parlare non esclude il nemico (cioè chiunque alle parole preferisca la pistola), né le  differenti dimensioni geopolitiche e geoeconomiche tra gli stati, e quindi diversi rapporti di forza  che ne discendono come elementi di fatto.

Si pensi al G20 che , come si legge sul   sito,

« è il foro internazionale che riunisce le principali economie del mondo. I Paesi che ne fanno parte rappresentano più del 80% del PIL mondiale, il 75% del commercio globale e il 60% della popolazione del pianeta. Si tiene ogni anno dal 1999 e dal 2008 prevede lo svolgimento di un Vertice finale, con la partecipazione dei Capi di Stato e di Governo. Oltre al Vertice, durante l’anno di Presidenza si svolgono ministeriali, incontri degli Sherpa (incaricati di svolgere i negoziati e facilitare il consenso fra i Leader), riunioni di gruppi di lavoro ed eventi speciali» (*).  

Ufficialmente, la logica è quella democratica: i paesi  che “fanno maggioranza”,   in ambito economico e demografico. Poi però se si va  a guardare  meglio,   si scopre che  i   membri  sono Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, Sud Africa, Turchia e Unione Europea, Spagna.

Cioè  stati e nazioni che contano di più nelle rispettive aree geopolitiche, forse ad eccezione del Messico, del Canada, dell’Italia, della Spagna e dell’Indonesia. Probabilmente, come per Messico e Canada, perché imposti dagli Stati Uniti. O come per l’Indonesia, favorita dalla Cina.  Quanto a Italia e Spagna,  si tratta di un omaggio storico e culturale, e forse anche economico.

In realtà, al di là delle belle parole,   siamo davanti a un naturale processo di selezione delle élite nazionali, che poi va a restringersi ulteriormente  nel cosiddetto G7, che  vede il predominio dell’Occidente, in quanto include, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stato Uniti. Il Giappone, ne fa parte, perché  resta tuttora il più forte alleato dell’Occidente contro la Cina. Per inciso,  la Russia post-sovietica, che dal 1997 era stata cooptata  nel ristretto  del G8 (G7 + Russia = G8), ne  è stata esclusa dopo l'annessione manu militari in stile  armata rossa della Crimea nel 2014.

Anche le date hanno però  importanza. Le origini del G7 risalgono al 1975, la sua formalizzazione al  1986, quando l'Unione Sovietica era ancora in piedi. Il G20, invece  nasce nel 1999, dopo la dissoluzione sovietica.  Diciamo che il G20 va letto come una specie di  gentile concessione “democratica”  dell’Occidente al resto del mondo.  

Di conseguenza, il multilateralismo, celebrato da Draghi, è letto da non pochi  membri del G20, non occidentali (per non parlare degli esclusi) come di uno strumento per imporre le idee dell’Occidente, ad esempio sul clima, al resto del mondo. Certo, trattando, senza sparare. Il che è un  bene. Anche se le ritorsioni economiche spesso possono fare più male dei missili.

Dicevamo all’inizio  del multilateralismo  come parola magica,  In realtà dietro di esso, come la famosa carta che scivola dalla manica del prestigiatore o del baro, si nasconde la volontà per un verso, di trattare, più o meno sincera, evitando conflitti armati, e sull’altro, la necessità  di piegare gli interlocutori alla volontà di potenza, per quanto economica, dell’Occidente.  

Sarebbe preferibile  dire le cose come stanno, senza tanti pomposi   preamboli?  No, perché  trattare è sempre meglio che sparare. Però ecco, dipingere il multilateralismo come una specie di  manna geopolitica, come l’ultimo miracoloso ritrovato della politica internazionale,  è veramente  troppo. Fa pensare a quei panettoni con troppa uvetta e canditi.  

Perché, il multilateralismo non è  frutto della bontà umana, ma  riflesso di  un quadro geopolitico pluripolare (come ad esempio dopo il Congresso di Vienna), e non bipolare (come nelle secolari guerre tra Asburgo e Borboni) o unipolare (come il dominio dell’Impero Romano). Un quadro geopolitico  che impone e  facilita  l’uso dello  strumento della trattativa ragionata, a partire, ad esempio,  dall’economia. Insomma, il multilateralismo va storicizzato.

Se dovesse cambiare il quadro storico e   geopolitico, da  multipolare  a bipolare, il multilateralismo, lascerebbe il posto ad aggressivi sistemi di alleanza,  come durante l’ultima Guerra Fredda, o, ancora prima, durante le guerre di Luigi XIV.        

La politica ha le sue regolarità, e una di queste rimanda al principio sociologico  di egemonia  e al conflitto per l’egemonia, che, a sua volta,   rinvia al numero dei contendenti  che si riflette sugli strumenti per conquistare l’egemonia. E il multilateralismo è uno di questi, diciamo quello più pacifico, che però non esclude l’uso della minaccia economica.  

Servirebbe quindi maggiore laicità, da parte di Draghi, ma anche dei profeti della "governance mondiale" (altra parola magica).   

Magnificare il ruolo del multilateralismo significa accrescere le aspettative, senza  però  riuscire a  soddisfarle. Come ben  spiegano  i  risultati minimi o nulli  conseguiti in questi vertici internazionali, in cui  la mondanità e il pettegolezzo  sembrano prevalere sulla sostanza politica delle cose.  

Per quale ragione?   Perché, piaccia o meno,   in ultima istanza è sempre la forza a decidere, o comunque la minaccia della forza. Una risorsa alla quale l’Occidente ha rinunciato.                  

Quindi si parla, si parla, si parla...  

Carlo Gambescia
                                   
(*) Qui: https://www.g20.org/it/il-g20.html</a
                

sabato 30 ottobre 2021

BIDEN A ROMA. I NECROFORI DELL'OCCIDENTE

 

 

 

Molti non  sanno che  il punto più alto del consenso italiano, popolare, diciamo di proletari e borghesi,  verso gli Stati Uniti,  fu raggiunto  nel 1918-19, dopo l’entrata in guerra effettiva degli  Stati Uniti e la conseguente vittoria  su tedeschi, austriaci e piccoli alleati. 

Wilson,   definito a furor di popolo  uomo di pace, nel gennaio del gennaio 1919 venne accolto a Milano e  Roma da folle strabocchevoli. Lo storico Piero  Melograni ha dedicato al fenomeno del wilsonismo italiano pagine vivaci e  interessanti.  Come  allora  si diceva: “O Wilson o Lenin” (*).

Subito dopo  le cose  però cambiarono, a causa dell’atteggiamento  filo-slavo degli Stati Uniti durante la stesura dei trattati di pace.  Sicché  gli italiani, vittime del mito della vittoria mutilata, dopo essere stati prigionieri di quello wilsoniano (“Pace e Legalità”), scelsero tra Wilson e Lenin, sospinti da antichi e misteriosi impulsi  autodistruttivi, Benito  Mussolini.

Si può dire che da allora per il mito politico  degli Stati Uniti immacolati  liberatori, eccetera, eccetera, andò sempre peggio. 

Nonostante qualche rapsodica fiammata di simpatia  durante il secondo intervento americano  in Europa contro il nazi-fascismo  e l'accomodante riparo offerto dal largo ombrello militare e atomico durante la Guerra fredda. 

Tutto dimenticato. A destra e sinistra si celebra Sigonella come la conquista dell'India da parte di Alessandro Magno.

Il refrain è semplicissimo:  sì,  all’America, del cinema, della televisione,  delle canzoni, delle mode, dello sballo,  no al cosiddetto imperialismo militare yankee.  Una forma di schizofrenia politica  le cui origini ideologiche si possono ricondurre alla   sbornia, e successivo risveglio,  per il presidente Wilson. 

Per chi segue più  calcio che la sociologia, si può  dire - per capirsi  -   che  il meccanismo assomiglia a quello  dell’allenatore portato prima alle stelle e poi alle stalle.  I popoli, a differenza dei tifosi, dovrebbero sempre guardarsi dai facili entusiasmi. In particolare gli italiani... Ma non è così.   Il che non significa, come vedremo, che l’indifferenza paghi.

La visita romana  di  Biden, qui per il G20,  probabilmente rappresenta il punto più basso di questo processo.  E' andata peggio della famoso viaggio di Nixon, nel settembre del 1970, in piena guerra del Vietnam, contestato ferocemente  nelle piazze  dalla sinistra parlamentare ed extraparlamentare.

Peggio per gli incidenti?  No. Ieri  i romani ( e  più in generale gli italiani) sono rimasti indifferenti. E, come  noto,  l’indifferenza è un veleno politico  più potente di qualsiasi contestazione.

D'altra parte,  Biden dal punto di vista politico è di una mediocrità assoluta. Detto altrimenti:  se la mediocrità di Trump era ed è  di  tipo  attivo,  quindi può fare danni,  quella di Biden è passiva. Rimanda all’interpretazione   di un mediocre attore di provincia, che recita senza infamia e senza lode la propria  parte di attore principale. Lo spettatore torna a casa, senza ricordarsi nulla né del protagonista, né di ciò che ha visto a teatro.

Del resto, il fatto  che papa Francesco, il  presidente Mattarella e Biden si siano trovati d’accordo, "su pandemia e clima",  indica  che la politica mondiale, e non solo americana,  si è ridotta a  pura e semplice  gestione geriatrica della realtà.

E questo, dispiace dirlo, è un altro aspetto della crisi dell’Occidente liberale.  Di cui Biden, Mattarella e papa Francesco sono i necrofori.  E quel che è peggio, tra  l’indifferenza generale  della gente, che ormai  presta orecchio,  ma neppure  sempre,  solo alle contrastanti  affabulazioni dei virologi.    

Carlo Gambescia                


(*) Si veda l’ ottimo  P. Melograni, “Storia politica della Grande Guerra (1915-1918)”,  Editori Laterza, Bari  1972, pp.  529-530,  560.       
 

venerdì 29 ottobre 2021

A PROPOSITO DI CUNEO FISCALE

 

 

Ieri Mario  Draghi  ha parlato di un  taglio  in  3 anni delle   tasse per 40 miliardi, di cui  24 per il   cosiddetto  cuneo fiscale. Ma lasciamo la parola  a Super Mario.

«Con la manovra, ha detto Draghi, “tagliamo le tasse e stimoliamo gli investimenti. Abbiamo dato priorità agli interventi per la crescita”. Destiniamo “40 miliardi in un triennio - ha detto Draghi - alla riduzione delle imposte, di cui 24 al cuneo e la parte restante agli incentivi fiscali, alle famiglie e imprese per il patrimonio immobiliare e la digitalizzazione” » (*).

In  realtà che cos’è il cuneo fiscale? Innanzitutto è un concetto economico  che  in particolare  rinvia alla  scienza delle finanze.  E sul quale gli  economisti di derivazione keynesiana (nelle varie tinte, anche post) scrivono dotti saggi.         

Per capirsi, è un concetto molto apprezzato dagli economisti di sinistra che vedono nell’appesantimento dei tributi sulle imprese la possibilità  di  diminuire le imposte  sui lavoratori: il cuneo è rappresentato dalla differenza tra il peso dell'imposizione fiscale su  imprese e lavoratori. Il cuneo è una specie di segno “più” o di segno   “meno”   che cambia di volta in volta casella  a  danno o vantaggio  delle une o degli altri.  

Ovviamente, l’economista e il politico  di sinistra tendono ad accrescere  il cuneo sulle imprese per favorire i lavoratori. E gli economisti e i  politici di destra?  Fanno la stessa cosa, però a favore delle imprese. In realtà -  il lettore prenda nota -  l’impianto concettuale  di derivazione keynesiana è da anni  accettato a destra come a sinistra.

Il vero punto della questione è che il cuneo fiscale, comunque la si pensi politicamente,  è una misura di tipo dirigista. Nel senso che  si ritiene che  vi sia un rapporto diretto tra uso governativo  della leva fiscale,  riduzione delle disuguaglianze sociali e  sviluppo economico.  Si tratta,  ripetiamo,  di  una concezione accettata anche dagli economisti di destra, che in questo modo ritengono di fare  gli interessi delle imprese e comunque di favorire lo sviluppo, facendo un poco stringere la  cinghia ai lavoratori.   

In realtà, l’incidenza del  cuneo fiscale  sulla  dinamica  economica  è ancora tutta da dimostrare. Per non parlare della politica  degli incentivi pubblici che serve solo a moltiplicare  i tributi.     

Ciò che  invece è  dimostrato è che  nel suo insieme (quindi prescindendo  dai livelli di  ripartizione dei tributi tra imprese e lavoratori) il carico fiscale sui contribuenti, tutti i contribuenti,  non diminuisce. Perché, i costi della  copertura pubblica  dell’intervento sul cuneo fiscale,   ad esempio su Irap e Irpef (imposte dirette), finiscono inevitabilmente per ricadere  sulle imposte indirette come Iva e accise su vari prodotti. Quindi, lezione economica fondamentale:  come per i pasti, nessuna imposta  è gratis. Puviani docet.

Pertanto invece di ragionare su come “tosare” il contribuente alla chetichella.  E per inciso, la politica di Draghi, che si impone di  ridurre il cuneo sulle imprese è di destra.  

Dicevamo, invece di ragionare su come distribuire il carico tra i contribuenti, si dovrebbe tentare di uscire  dalla logica  keynesiana, accettata anche dalla destra,  del trade off o scambio  fiscale tra imprese e sindacati.

Come? Proponendo  il sostanziale taglio non del cuneo fiscale ma dei tributi per tutti. Solo  in questo modo, si potrà  favorire   al tempo stesso  l’autofinanziamento   delle imprese e l’accrescimento, per tutti,  della liquidità disponibile.  Lasciando poi che la legge e della domanda e dell’ offerta faccia il suo corso.  Insomma serve  uno stop alle politiche redistributive di tipo governativo, a cominciare dalle politiche fiscali: tecnicamente si dovrebbe tornare  a parlare di neutralizzazione dei fisco. L'esatto contrario della sua  attuale "politicizzazione".   

Si dirà che la soluzione è  semplicistica. Ma chi  guadagna dalla complicazione delle cose?

Innanzitutto il governo, che manovrando la leva fiscale, tiene in pugno imprese e lavoratori.  In secondo luogo, gli imprenditori pigri che  per autofinanziarsi aspettano l’aiuto fiscale, diretto o indiretto.  In terzo luogo i sindacati, che  vivono sul conflitto sociale e  sulla visione del fisco come continuazione della lotta di classe con altri mezzi.

Va qui  registrato il tradimento  storico  di numerosi  economisti liberali. Che hanno supinamente accettato il trade off fiscale -  la logica del cuneo,  insomma -   sposando la causa degli imprenditori più indolenti.

In questo quadro,  molto onirico,  Super Mario, come già anticipato,  da economista di formazione keynesiana, diciamo keynesiano di destra,  si trova perfettamente a suo agio.  

Così vanno le cose. Buona giornata a tutti.

Carlo  Gambescia     


   (*) Qui:  https://www.ilsole24ore.com/art/manovra-draghi-tagliamo-tasse-stimoliamo-investimenti-e-miglioriamo-spesa-sociale-AEt9JEt?refresh_ce=1

giovedì 28 ottobre 2021

Il Ddl Zan e il principio della battaglia di civiltà

 


 Ci si guardi sempre  dai politici che parlano della battaglia di civiltà.  Soprattutto all’interno di una stessa civiltà.  

Si faccia però attenzione,  la battaglia contro il fascismo e il nazismo come contro il comunismo rappresentò, sul serio, una autentica battaglia di civiltà:  tra due mondi  separati. Da un lato la  visione liberale, che innerva l’evoluzione moderna dell’Occidente, dall’altro la visione antiliberale, che accomuna tuttora fascisti e comunisti e altri nemici dell’Occidente.

Lo stesso principio  può perciò  essere esteso al conflitto, mai estintosi,   tra la civiltà  eurasiatica  e   Occidente euro-americano.  Ma anche nei riguardi dell’Islam e di altre civiltà che hanno un’idea della libertà, dell’economia di mercato, delle istituzioni parlamentari, profondamente diversa da una civiltà marittima come quella occidentale.

Allora, si chiederà il lettore, per quale ragione  ci si deve guardare da coloro che  evocano  la  battaglia di civiltà?  

Perché  bisogna fare una distinzione sociologica  di fondo  tra uso interno ed esterno di un principio in sé valido.  

Si prenda lo scontro di ieri al Senato sul Ddl Zan. Per ora sono stati sconfitti sul piano parlamentare  i sostenitori del Disegno di legge  che, come noto,  fin dall’inizio hanno sostenuto la tesi della battaglia di civiltà.

Ecco, a tale proposito,   si leggano le seguenti dichiarazioni di alcuni importanti esponenti politici del Pd e del M5s:

«"Hanno voluto fermare il futuro. Hanno voluto riportare l'Italia indietro. Sì, oggi hanno vinto loro e i loro inguacchi, al Senato. Ma il Paese è da un'altra parte. E presto si vedrà. #DdlZan". Lo scrive su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta.
"Pensano di aver fatto un dispetto al Pd, hanno fatto uno sfregio all'Italia. #ddlzan", scrive su Twitter il capo delegazione del Pd al governo Andrea Orlando, parlando della bocciatura della legge sull'omofobia.
"Sul ddl Zan registriamo un passaggio a vuoto su un percorso di civiltà e di contrasto a ogni forma di discriminazione e violenza per l'orientamento sessuale. Chi oggi gioisce per questo sabotaggio dovrebbe rendere conto al Paese che su questi temi ha già dimostrato di essere più avanti delle aule parlamentari". Così in un post il Presidente del M5s Giuseppe Conte» (*).

Risparmio ai  lettori le repliche  della destra. Che, ovviamente, ora che canta vittoria, parla di  moderazione e di forza della ragione. Mentre in realtà  fin dall’inizio anche la destra  ha  sostenuto con pari violenza verbale  la tesi  della battaglia di civiltà, ovviamente  in senso contrario alla sinistra.  

Cosa vogliamo dire?  Che, per citare   Charles de Gaulle, si sta  commettendo  un errore politico clamoroso:  invece di seminare  discordia nel campo nemico, delle altre civiltà che ci sono nemiche, la seminiamo al nostro interno, diciamo in campo amico.

Ci si divide, stupidamente, su questioni secondarie, la cui soluzione è nel progressivo mutamento dei costumi (come è già accaduto  sul tema dell’omotransfobia ), e non su questioni geopolitiche  fondamentali, come la pessima figura in  Afghanistan e  il rabbioso revanchismo islamista.

In Italia, ad esempio,  ci si preoccupa addirittura di  coprire le  nudità di natura storico-artisticadelle statue, per non  offendere l’altrui  sensibilità religiosa.   Per poi  accusarsi reciprocamente   - quindi non  parlo   solo  della  sinistra -   di essere  nemici della civiltà.

Quale civiltà? Sicuramente non quella liberale.  Soprattutto  se la sinistra sfiora il ridicolo,  vergognandosi delle tradizioni artistiche dell’Occidente, e la destra il comico, soprattutto quando celebra  dittatori e  modelli politici  euroasiatici.

Pertanto  l'Italia - ma il discorso andrebbe esteso  all'intera civiltà  occidentale  -  è  profondamente  divisa   all’interno come  all’esterno.  Infatti  l’uso che i politici fanno del principio “battaglia di civiltà” è disastroso.  

Perché, ripetiamo, oltre a diffondere la discordia al nostro interno,  si accetta che il nemico esterno la  diffonda  fin dentro il nostro accampamento per così dire.

Come uscire da questo vicolo cieco?  

Carlo Gambescia    

 

(*) Si veda qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/10/26/ddl-zan-_c2cbef96-0bc4-4c8f-bca0-c09e6a95aac5.html

  
  

mercoledì 27 ottobre 2021

NOVECENTO, IL "SECOLO DELLE PENSIONI"

 

 


Se si ripercorre la storia delle  pensioni nel Novecento, si scopre che rispetto al passato questo  secolo potrebbe essere denominato il “Secolo delle Pensioni”.  

Perché?  Per  l’incredibile sviluppo  che ha avuto in Occidente, e di riflesso, dove si è ripreso il  modello, l’istituto sociale della pensione.

In sostanza, l’idea è nobile.  Si tratta di assicurare la continuità  di esistenza economica, come la dignità sociale, a  tutti i lavoratori di ogni ordine e grado,  una volta dismessi per sempre gli abiti   (mentali)  da lavoro.  

Tuttavia la pensione  che  è  una forma di rendita vitalizia,  ha assunto nel tempo  una estensione collettiva, sconosciuta  in passato, se non come rendite concesse individualmente dai sovrani regnanti, soprattutto in età moderna, a particolari personalità pubbliche per i servigi resi.  

Una curiosità:  nell’antica Roma, in particolare nei primi due secoli di consolidamento dell’ Impero, soprattutto durante la dinastia degli Antonini,  si procedeva a distribuzioni gratuite  di grano e altri generi alimentari, talvolta anche di  denaro, ai cittadini romani.

Nel Novecento, soprattutto nella  seconda parte, alcune costituzioni, come quella italiana ad esempio all’articolo 38, hanno recepito una specie di diritto costituzionale alla pensione  ponendo sullo stesso piano  la  malattia e la vecchiaia, perché giudicata come causa  di inabilità al lavoro.      

Senza entrare  troppo nei  dettagli, il finanziamento delle pensioni  si è gradualmente trasformato, a causa dell’invecchiamento della popolazione, soprattutto dove i sistemi pensionistici  sono pubblici (cioè finanziati attraverso le imposte), in un crescente appesantimento della spesa  sociale  costretta a colmare la differenze contributive nel rapporto  tra  popolazione lavorativa (sempre di meno)  e non lavorativa (sempre di più).

Di qui, una serie di escamotage politici e statistici  per  chiudere, o comunque  alleggerire, le falle  nei bilanci degli enti previdenziali pubblici.

Forme di altissima ingegneria  pensionistica  che ora sono al centro del dibattito  politico,   come   la cosiddetta quota  cento, nel senso di 62 anni + 38 di lavoro per andare in pensione. O l’Ape sociale,  un sistema che permette a coloro che svolgono un lavoro usurante di andare in pensione a 63 anni, invece che a 67,  con soli  30 anni di contributi, godendo di una indennità mensile, più  o meno congrua, fino a 67,  erogata dallo stato.

Per capire la scarsa  qualità sociologica  di un  dibattito, che sostanzialmente  è pura  e semplice  questione di spartizione corporativa della spesa e del consenso  pubblico, si pensi che i lavori usuranti, sono definiti  sulle basi di una lista  di lavori gravosi redatta  in base ai criteri Inail.

Parametri  che rinviano  a  tre  indici del cosiddetto  “mansionario Istat”: a) frequenza degli infortuni rispetto alla media; b) numero di giornate medie di assenza per infortunio; c) numero di giornate medie di assenza per malattia.

Lasciamo  al lettore il giudizio sulla natura approssimativa di uno schema del genere,  classico esempio di uso frettoloso di dati approssimativi: ad esempio, non tutti gli infortuni sono denunciati, e non tutti, anzi la maggior parte,  sono gravi.

Ora, probabilmente per pure ragioni di consenso politico, si vorrebbe estendere, lo schema, al momento riservato ad alcune categorie (come   ad esempio  operai dell'industria estrattiva, dell'edilizia, della manutenzione degli edifici, conduttori di gru, eccetera),  a  bidelli,  tassisti, falegnami, conduttori di autobus e tranvieri, benzinai macellai, panettieri, insegnanti delle scuole elementari, commessi e cassieri, operatori sanitari qualificati, magazzinieri, portantini, forestali.  Praticamente a tutti... E per pure ragioni di consenso politico. Nemmeno troppo nascoste

E qui sarà interessante seguire le scelte del liberalsocialista (così si definisce) Mario Draghi...

Questo per dire  come il “Secolo delle Pensioni”  sia in realtà il secolo della demagogia. Un principio, in fondo umanitario,  quello dell’assistenza alle persone non in condizione di lavorare, che può essere assolto in forma pubblica e privata, addirittura attraverso iniziative benefiche e  caritatevoli,  si è trasformato in un prepotente  diritto sociale   implementato dallo stato e, cosa più grave, in una velenosa risorsa politica capace di  garantire il consenso ai vari governi di sinistra come di destra.

Altro che il vecchietto con la mano tremula, vestito di stracci, secondo la raffigurazione dei padri della costituzione italiana.  Oggi i sessantenni se ne vanno, chimicamente baldanzosi, a Cuba e in Brasile...   

La riforma delle pensioni, di cui si  parla tanto, non è altro  che  una finestra aperta sul vuoto di una spartizione tribale  di risorse pubbliche,  sempre più limitate, non solo perché, come si dice,  la popolazione  invecchia, ma invecchia bene, e quindi, vuole godersi la pensione.  

Di qui, la lotta sull’anno in più o sull’anno in meno, eccetera, eccetera.  Conflitto  che  nulla toglie a quello che è il principale problema dell’Occidente:  che nessuno vuole lavorare un minuto in più, per non sottrarre tempo al  godimento di   beni, non più prodotti, però, come un tempo,  in Occidente.

Si vuole vivere di rendita, il più a lungo possibile e  se possibile alla grande.  Intaccando però il capitale…  

Fino a quando?

Carlo Gambescia                     

 

martedì 26 ottobre 2021

 


 

 

 

Innanzitutto ringrazio di nuovo  il professor Giovan Giuseppe Conte  per l’attenzione e per le gentili parole nei miei riguardi. Un piccolo e amichevolissimo rimprovero  all’amico  dottor Alessandro Litta Modignani: si è sentita la mancanza di un suo contributo. Ringrazio anche il professor Carlo  Pompei,  carissimo amico tra l’altro, per il suo illuminante  commento sui “vasi comunicanti”.

Ritengo questi  “piccoli dibattiti”. come ho scritto ieri,  molto interessanti e importanti, perché, se di qualità, come in questo caso, integrano  il mio lavoro di ricerca,  consentendo il   confronto  e la  riflessione.  Sicché, per effetto di ricaduta intellettuale,  finiscono sempre per confluire, in qualche modo, come una lezione, una conferenza, un dibattito “in presenza”, nei miei libri (*).

Deve  dire che mi ha colpito in particolare il commento  del signor Francesco Borgogna. In primis, ricambio i suoi  gentili saluti. In secundis,  pubblico  (spero gradisca...) il suo intervento, che reputo molto interessante, non solo in sé, ma soprattutto  dal punto di vista della sociologia della conoscenza, come studio del rapporto tra idee e realtà.

Ecco  il suo  testo.

«Con tutto il rispetto per il sociologo e saggista Carlo Gambescia, che saluto approfittando di F B, faccio notare che per i socialisti liberali, quale mi ritengo, e' indifferente l'etichetta alternativa di " liberal- socialista", perche' non si tratta di un semplice sostantivo accompagnato da aggettivo, ma di un solo inscindibile concetto: l'unione di liberalismo e socialismo. Per noi non ha gran senso ne' il liberalismo da solo ( che se esalta la liberta' individuale ne mortifica la solidarieta') ne' il socialismo ( che se salvaguarda la giustizia sociale trascura la liberta' individuale). Non si tratta di dare prevalenza al termine " socialismo" ( da cui " socialismo liberale") o al termine " liberalismo ( da cui " liberal-socialismo"). La verita' e' che, nel percorso storico, secondo le circostanze, puo' sentirsi ora maggiormente l'esigenza di tutelare la liberta' individuale, ora la solidarieta' e la giustizia sociale, ma sempre in ottica di un equilibrio totale. Per quanto riguarda la differenza tra socialdemocrazia e socialismo liberale, la discriminante non e' " una certa dose di anarchismo o antistatalismo del socialismo liberale" .Al punto X del Decalogo di Carlo Rosselli in Socialismo Liberale e' scritto:" Il socialismo non si decreta dall'alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso,nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura". Questo non vuole dire affatto "autogestione" ma significa costruire dal basso uno Stato rispettoso della pluralita' di espressioni della societa', che si alimenta della ricchezza e della pluralita' delle rappresentanze. E l'errore della socialdemocrazia e' proprio quello di intendere che tutto parta dallo Stato per arrivare ai cittadini, il che - paradossalmente - fa assomigliare la socialdemocrazia al marxismo e comunismo molto più del socialismo liberale o liberal- socialismo che dir si voglia».

Tutto quel  che  vi si legge è giustissimo, o comunque accettabile  sul piano della storia delle idee.

Dicevo sociologia della conoscenza. Per quale motivo? Perché, quando si passa dal piano della storia delle idee a quello sociologico, le cose cambiano. 

Per capirsi, non si può fare sociologia  - attenzione, ripeto,  sociologia non storia delle idee -  della Chiesa cattolica sulla base dei dieci comandamenti o del messaggio evangelico. La Chiesa sociologicamente parlando è un’istituzione e una professione che risponde a determinati criteri reali, sociologici, concreti, di fatto.  Criteri reali  che non possono non entrare in conflitto con i principi evangelici. Che ovviamente hanno un valore regolativo ispirato all’etica dei principi, etica  che però non può non  fare i conti, quando calata nella realtà, con l’etica della responsabilità, che tiene conto dei mezzi e non esclusivamente dei fini.

Cosa voglio dire? Che la  rappresentazione del socialismo liberale, dei dieci comandamenti  di Carlo  Rosselli (sia detto senza alcuna ironia, ci mancherebbe altro),  è sicuramente aderente ai testi,  ma non alla realtà delle cose. 

Nei fatti il socialismo liberale è dovuto  scendere  a patti, con la realtà. Di qui, per fare solo un esempio: il  corporativo trade-off tra stato, sindacato e mercato accettato di fatto  da  governi che sostengono di difendere la causa del  pluralismo  socialista e liberale insieme. E che invece si comportano come socialdemocratici tout court. 

Certo, si può rispondere, che quello di molti governi  attuali non è il vero liberal-socialismo, socialismo  liberale o come lo si voglio chiamare. E che con la forza dell’educazione dal basso il pluralismo si svilupperà in futuro, eccetera, eccetera. 

In realtà si tratta di un atto di fede.  Sugli  effetti  positivi dell’educazione e sulla partecipazione nella società di massa, pedagogisti e sociologici nutrono molti dubbi. Come del resto economisti e  politologi  sul socialismo dal basso o dall’alto che sia.

Certo, i Dieci Comandamenti del cristianesimo sono sublimi, come per molti aspetti è edificante  il  Decalogo di Carlo Rosselli, ma la società   funziona  in altro modo: via meccanismi di tipo spontaneo, selettivo-evolutivo, legati alla ricerca e promozione  degli interessi individuali, spesso mescolati  a valori e credenze diffuse a livello di senso comune tacito.  Sicché,  spesso le buone intenzioni dei grandi riformatori, pindariche,  non bastano,  perché  rischiano sempre di  infrangersi  contro le dure rocce di una realtà sociale che vola a bassa quota. 

Quale causa più nobile di quella Marx ed Engels?  Eppure i pessimi risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ancora oggi ne paghiamo le conseguenze.

Certo, dal punto di vista di questo o quel decalogo ideologico,  come idea normativa, si troverà sempre una ragione per difendere gli errori e prendersela magari con la stupidità umana.  Non si è rispettato questo, non si è rispettato quello... L’uomo è un cretino oppure  non si applica, eccetera, eccetera.

E qui torniamo al liberalismo che non è mai stato un’ideologia, un progetto disegnato a tavolino, come il socialismo marxista,  se non quando è stato attaccato dai suoi avversari ideologici nel Novecento.  E lì le cose si sono  complicate anche per il liberalismo costruttivista, di cui  il socialismo liberale resta  un esempio.

Un passo indietro.  La società capitalista è sorta sulla base di spontanei meccanismi sociali: nessuno sapeva ciò che si stava costruendo, E lo stesso vale per il liberalismo, termine, entrato nel vocabolario politico all’inizio dell’Ottocento.  Ma lo stesso si potrebbe dire per fenomeni storici, pur dissimili,  come l’Impero romano e il Feudalesimo.

Sotto questo aspetto,  resta più aderente ai fatti   il binomio sociologia e libertà: che accetta  da un lato (quello sociologico) la natura  spontanea della  dinamica sociale,  frutto, dall’altro (quello della libertà), di  una interazione non finalizzata intenzionalmente a nessun disegno epocale. Un' interazione che rinvia al semplice scambio sociale  tra individui  mossi da  libere finalità individuali. 

Purtroppo, il costruttivismo sociale, imperniato sull’idea di poter costruire a tavolino (quindi delle  “buone intenzioni" ), ciò che la sociologia sostiene invece impossibile (quindi  dell’ etica della responsabilità), è un  fenomeno che abbraccia la storia delle ideologie otto-novecentesche,  dalle varie forme di socialismo,  come detto,   fino ai più truci  fascismi e comunismi 

L’idea di poter cambiare  "à la carte", uomini e società, che in realtà cambiano, quando cambiano,  solo lentamente e spontaneamente nei secoli (si pensi alla lenta  penetrazione del cristianesimo nell'Impero romano),  è frutto di un errore cognitivo: si ritiene la norma superiore ai fatti; il dover essere all’essere;  le istituzioni all’individuo. In realtà, le norme spesso sono interpretate dai singoli o restano inapplicate perché troppo esigenti. Il dover essere, come ogni etica dei dieci comandamenti, disatteso, per privilegiare la logica dell’essere fondata sulla  spontanea  dinamica dell’interazione sociale tra individui,che può essere conflittuale come cooperativa.

Il punto  è che concordia e discordia non possono essere imposte per legge. Come del resto la cultura è  una cosa, la scuola un'altra. 

Al riguardo, si ricordi la sorte che ha tristemente accomunato, nei disastrosi esiti,  i grandi costruttivismi, pur  differenti nelle intenzioni, del nazionalismo fascista e del socialismo sovietico.  

Di qui, il grande valore, di  un liberalismo, come ho detto ieri, realista, certamente “triste” (**),  che prende però  atto  della  reale dinamica sociologica, che come il dio manzoniano, atterra e suscita, affanna e consola. Senza quindi  ricorrere a decaloghi di qualsiasi  genere.                                   

Carlo Gambescia

 

(*) Qui i miei tre interventi: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/dal-pci-ad-hammamet/  ; https://cargambesciametapolitics.altervista.org/e-possibile-un-socialismo-liberale/ ; https://cargambesciametapolitics.altervista.org/liberalismo-sociale-no-manzoniano/

 (*) Sulla questione rinvio al mio “Liberalismo triste”: https://www.libreriauniversitaria.it/liberalismo-triste-percorso-burke-berlin/libro/9788876064005  . Anche in  castigliano:  https://edicionesencuentro.com/libro/liberalismo-triste/


lunedì 25 ottobre 2021

LIBERALISMO SOCIALE? NO MANZONIANO

 

 

Sono felice  di  questo “piccolo” dibattito su un tema importante come quello dei rapporti tra liberalismo  e socialismo.

Ringrazio il professor Giovan Giuseppe Conte  che nella  risposta a  un suo lettore ha mostrato di apprezzare il mio testo su Craxi e quello sul liberalismo socialista (*). È interessante leggere ciò che ha scritto:  

«Del testo di Gambescia avevo apprezzato la ricostruzione storica e le acute riflessioni sulla figura di Craxi, sul PCI e sull’ operaismo. Per quanto riguarda la tua domanda, il nocciolo del problema mi pare possa riassumersi in questo: che nell’ espressione “socialismo liberale” socialismo è il sostantivo (sub stat da cui anche ‘sostanza’ ) e “liberale” l’ aggettivo (da adicere), con le implicazioni che si possono trarre dal modo di accostare i due termini. Ti allego qui un altro scritto, pubblicato oggi da Gambescia, come seguito di quello di ieri, sulla differenza tra socialismo liberale e socialdemocrazia. In esso viene citato anche il socialismo liberale di Rossellli che, però, può apparire – come molto probabilmente è - una costruzione ideologica caratterizzata da rischiose astrattezze nella concezione dello Stato e della società civile, concezione socialista ma con qualche tratto "anarchicheggiante . Inoltre, nelle ultime righe, lo scritto di Gambescia sembra adombrare una dura verità con la quale i liberali devono confrontarsi se non vogliono, a loro volta, incorrere nell’ astrattezza: la società di massa , per le sue caratteristiche specifiche (comprese le crescenti richieste di interventismo statale), è (non so se irrimediabilmente) segnata da una diffusa ostilità al liberalismo. Il secolo XX, secolo del trionfo della società di massa, è stato anche il secolo del totalitarismo, fenomeno affatto nuovo che sarebbe impensabile nei suoi tratti caratterizzanti al di fuori di tale società, all’ interno della quale il liberalismo rischia di risultare perdente. Non solo nei regimi dichiaratamente totalitari ma anche quando, pur in presenza di una facciata politico-istituzionale che si dichiara ad esso ispirata, viene smentito dalla effettiva configurazione del potere politico ,delle strutture economiche e delle dinamiche della società civile».

Sostanzialmente riconosco il mio pensiero in questa esposizione, pensiero, credo condiviso dal  professor Conte. Quindi non aggiungo altro.

Non può invece  essere ignorata  la domanda che mi pone a bruciapelo  l’amico, dottor Alessandro Litta Modignani. Leggiamola insieme:

«Impeccabile. Adesso rivolto la frittata e ti faccio io la prossima domanda: esiste un liberalismo sociale? Un governo schiettamente liberale, che abbia a cuore la libertà economica e non aumenti le tasse, che prenda misure per alleviare le condizioni di vita del dieci per cento più povero della popolazione? I c.d. "servizi sociali", in un governo liberale, esistono? O vanno eliminati? A Gambescia l'ardua sentenza».

Purtroppo avere a cuore la libertà economica e al tempo stesso alleviare le  condizioni della parte più povera della popolazione, senza aumentare le tasse,  mi sembra  utopico.  A meno che non si condivida la posizione della sinistra favorevole allo stato fiscale di polizia.

In realtà, la ricchezza, prima di essere ridistribuita - ammesso e non concesso che un governo  liberale debba occuparsi di queste cose - deve essere prodotta.  La storia economica  degli ultimi secoli insegna che il sistema di mercato, basato sulla libertà di impresa e di lavoro  sotto questo aspetto è imbattibile. Perciò il primo  compito di un governo liberale è quello di favorire la libertà economica e la crescita costante  del Pil.  Altrimenti, come diceva Turati a  massimalisti e  comunisti, si rischia di  ridistribuire solo la triplice fame e solo  la triplice miseria.

Il Pil crescente, si ridistribuisce da solo, via mano invisibile,  o serve la mano visibile del governo, se non addirittura dello Stato?

Chi scrive ritiene che la redistribuzione attraverso la leva  fiscale  sia sufficiente ma  a una condizione: che i tributi non influiscano sui costi di produzione, e quindi sui prezzi, penalizzando la competitività dei beni prodotti.

Per contro, la politica della spesa pubblica crescente, se ha un senso nella fasi di decollo economico nei paesi latecomer, diventa di regola un fattore distorsivo della legge della domanda e dell’offerta in tutti gli altri casi. Si tratta di un  meccanismo pericoloso  che va a influire sui costi, e quindi sui prezzi penalizzando la competitività, eccetera, eccetera

Perciò come  “si alleviano le condizioni di vita del dieci per cento più povero della popolazione”? Lasciando che il mercato faccia il suo corso. Quanto ai  “servizi sociali”, bisogna distinguere tra politiche del lavoro, che vanno improntate alle leggi di mercato (previdenza inclusa) e politiche assistenziali, “sociali”, che riguardano invece  coloro che sono incapaci di produrre reddito, ai quali va giustamente  garantito un minimo vitale. Ma, di certo, non si tratta del dieci per cento della popolazione.

Quindi il termine “servizi sociali”, inteso come riassuntivo delle politiche del lavoro e dell’assistenza, è fuorviante. A questo proposito, mi piace ricordare che   il termine  “sociali”  rinvia a quello di  società, giudicata nel suo insieme come  una scusante ambientale di eventuali errori cognitivi umani.

Errori  che il   socialismo, anch’esso derivante dai termini sociale e società,  vuole addirittura correggere dall'alto, se non cancellare  del tutto,  puntando sulla mano visibile e  ultracognitiva dello stato.Come se dietro lo stato non ci fossero altri uomini con gli stessi limiti cognitivi di tutti gli altri uomini...  E questo è un  gravissimo  limite intellettuale  del socialismo.

Certo, sul piano politico,  promettere di ridistribuire dall’alto  e indicare  nemici del popolo a coloro che sono in basso, evocando il  futuro paradiso in terra   è molto più  facile del  fare appello alla mano invisibile del mercato. Che per dirla con Manzoni, è una specie di  dio “che atterra e suscita, che affanna e che consola”.

Insomma, in ultima istanza e semplificando (forse troppo), il  liberalismo è accettazione del rischio cognitivo  individuale mentre il socialismo ne  resta  il principale  nemico (del rischio). E questo ci riporta oltre che al concetto di  “servizi sociali”  a  quello di “liberalismo sociale”, che  a mano a mano che si fa sociale, assume  colorazione via via sempre più rosso acceso. Distanziandosi così  da un  liberalismo manzoniano (per così dire),   qui descritto, che invece, come già osservato, atterra e suscita,  affanna e consola…    

Ovviamente, chi si vuole accomodare,  si accomodi pure.  

Carlo Gambescia  


(*) Qui il testo su Craxi: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/dal-pci-ad-hammamet/

Qui quello sui rapporti tra liberalismo e socialismo: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/e-possibile-un-socialismo-liberale/

 

domenica 24 ottobre 2021

 

 


 

Nell’articolo di ieri, prendendo spunto  dalla vicenda Craxi, abbiamo sottolineato l’assenza in Italia, sul piano delle tradizioni politiche,  di una sinistra  socialdemocratica, riformista, non anticapitalista.   

E qui si faccia subito attenzione.  Perché  una forza politica socialdemocratica  non si può  definire liberal-socialista. E spieghiamo subito perché.

L’ “etichetta” liberal-socialista rinvia all’idea, sviluppatasi in particolare tra le due guerre mondiali (sullo sfondo delle dittature di destra come di sinistra), di coniugare la libertà “dei liberali” (dei diritti individuali  politici ed  economici)  con un socialismo  non collettivista (attento in particolare ai diritti civili e soprattutto sociali).  Per l’Italia, si possono ricordare le figure canoniche dei fratelli Carlo e Nello  Rosselli, due vite tragicamente spazzate via dal fascismo.

Il punto è che, storicamente parlando,  il liberal-socialismo (o il  socialismo liberale, in base all’importanza o superiorità attribuita  all’uno o all’altro  sostantivo:il che spiega anche l'uso del trattino) non ha mai risolto, sul piano pratico, il suo rapporto con il ruolo  dello stato.

All’inizio, in linea teorica, il liberal-socialismo, puntava su una società “autogestionaria” in cui  lo stato era  giudicato un gruppo sociale tra gli altri gruppi sociali, al centro di un  perfetto equilibrio economico-sociale.  

Al fondo c’era l’idea liberale  della sostituzione ( o comunque forte affiancamento) del laissez faire tra gli individui (liberalismo)  con il laissez faire tra i gruppi sociali auto-organizzati (socialismo). Sul punto scrisse cose interessanti lo stesso  Carlo Rosselli, per limitarsi al pensiero sociale italiano.

Per contro la socialdemocrazia, per tradizione (e qui si pensi al riformismo di Turati o della prima socialdemocrazia tedesca), ha sempre visto nello stato  un importante vettore di ogni trasformazione sociale, soprattutto sul piano redistributivo, in chiave  giuridica,  amministrativa, fiscale e della spesa pubblica.

Al fondo c’era l’idea, a differenza del liberal-socialismo, dell’intervento pubblico fin dove possibile, insomma senza strangolare il mercato.  

Per capirsi: se il liberalsocialista  credeva nell’autoriforma sociale dal basso, il socialdemocratico, si imponeva di riformare la società dall’alto.

Storicamente parlando, soprattutto nel secondo dopoguerra, i governi socialisti, un poco ovunque, hanno recepito la lezione socialdemocratica, puntando  su una  legislazione sociale avanzata. In Italia, il partito comunista non fu mai né socialista liberale (o liberal-socialista), né socialdemocratico. Di qui  il suo  tragico amletismo.

I socialisti invece, a poco a poco,  sposarono la causa socialdemocratica. Craxi, con pesanti limiti anche caratteriali,  tentò di reintrodurre in un partito  socialista  socialdemocratizzato (neppure del tutto, però:  si pensi alla sinistra socialista) elementi liberal-socialisti.  

Attenzione però: non nel senso dell’autogestione del sociale, ma dei diritti civili e del rispetto delle libertà economiche. In qualche misura,  Craxi, ideologicamente parlando,  precorse, la vulgata liberal-socialista  dei Macron, dei Sánchez dei Letta e dei Draghi per fare alcuni nomi importanti.

In qualche misura, Craxi si è vendicato, almeno in parte,  dei suoi persecutori, dal momento che  la politica dei vari partiti, sorti dalle ceneri  del partito comunista, o comunque nel clima scaturito dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica, ha sposato la causa liberal-socialista dei diritti civili e sociali del partito del Garofano negli  anni Ottanta. Diciamo però sposata a metà.

Perché?  Qui viene l’aspetto più interessante.  Oggi  siamo davanti a un  socialismo liberale a forte impronta socialdemocratica, che vede nello stato il dominus politico-economico. Non più autoriforma del sociale dal basso, ma riforme, per quanto in nome dei diritti,  dall’alto.  Di qui fiscalismo, redistribuzione,  eccetera, eccetera.

Va anche sottolineato che l’importanza  attribuita al ruolo dello  stato resta il  trait d’union  tra lo stato socialdemocratico e lo stato autoritario. Se nel progetto liberal-socialista, c’è un elemento anarchico, in quello socialdemocratico, ce n’è uno autoritario.

Attualmente, dove governa la sinistra, abbiamo una socialdemocrazia mascherata da liberal-socialismo. Tradotto, si parla solo di diritti, ovviamente calati dall’alto, e non di autoriforma del sociale. Le politiche  fiscali e redistributive di Macron  ne sono un esempio tipico. Dal punto di vista liberale, si potrebbe parlare di liberalismo macro-archico (*)

Esiste una via al socialismo liberale?  Cioè a un socialismo non burocratico che rifiuti di dire sul ruolo dello  stato le stesse  cose che potrebbero  dire un fascista,  un comunista, un populista?

Diciamo che è questione di fede piuttosto che di ragione. Perché la società per autoriformarsi, ha necessità che lo stato faccia molto più di un passo indietro. Non è questione di creare “le condizione per”, bensì di accettare  - ecco l’atto di fede -  il rischio  che vengano meno coperture politico-sociali, ambite dagli stessi cittadini,  sull’implementazione delle quali l’attuale  stato socialdemocratico (nei fatti) e liberalsocialista (a parole) ha  costruito e costruisce  il suo consenso.  

Le transizioni non sono mai indolori. Quanto  “dolore” sono disposte ad accettare le nostre società per passare dal socialismo burocratico al socialismo liberale?

Carlo Gambescia                  
                 
(*) Si veda il nostro "Liberalismo triste. Un percorso: Da Burke a Berlin" : https://www.libreriauniversitaria.it/liberalismo-triste-percorso-burke-berlin/libro/9788876064005

sabato 23 ottobre 2021

Dal Pci ad Hammamet

 

 

Ieri sera la Rai ha trasmesso sulla terza rete  il film di Gianni Amelio su Craxi,  “Hammamet”.  Non potevo non rivederlo, per mettere  meglio a fuoco le idee.

Il film, in sé, come molte pellicole del colto  regista calabrese, oggi settantenne, merita, come si dice,  il costo del biglietto.

Gli attori sono bravi, la fotografia è molto bella (la location della villa  è quella originale),  il ritratto del protagonista, tra arroganze e abbandoni  legati alla malattia,  assume una sua cifra tragica,  che pur non elevandosi  alle altezze di  certi film  di Visconti, ha una sua  nitida  coerenza.  Mai nel film si sfiora il patetico.

Non è di questo che però desidero parlare. Ma del comune sentire di certa sinistra, che Amelio, seppure mai organico al partito comunista,  ha finito, magari suo malgrado, per  condividere.

Manca infatti nel film  una riflessione storica  sul perché Craxi  era così  odiato dai comunisti. Che, in qualche misura, facilitarono in opere e omissioni l’opera dei giudici milanesi, tutti rigorosamente filocomunisti,  a parte forse una o due eccezioni. Tutti comunque  - i giudici -  su posizioni contrarie alla svolta socialdemocratica di  Craxi.  

Uomo sgradevole, autoritario, di un cinismo urticante. Tuttavia il leader socialista aveva visione politica, fuori dagli storici schemi di un fumoso comunismo all’italiana come del purtroppo classico socialismo parolaio.

Di conseguenza Craxi  condizionò, spiazzandolo, il Pci, durante e dopo  Berlinguer. Un partito   - ecco il punto -   ancora legato agli  schemi operaisti del  conflitto sociale quando occorreva, oppure altrettanto capace (il famigerato “contrordine compagni”) di   legarlo, minacciando lo scontro,  agli equilibri occasionali, filogovernativi (come nei famosi governi di unità nazionale fine anni Settanta).

Tattica, più o meno leninista, senza però la strategia  di Lenin, e neppure quella di Herbert Wehner , il padre ideologico della svolta  socialdemocratica di  Bad Godesberg.  

Insomma, un Pci  incapace   di scegliere tra l’ anticapitalismo machiavellico e il sincero riformismo  socialdemocratico

C’è un passaggio rivelatore nel film:  quando il figlio di un dirigente socialista, suicidatosi, perché travolto da Mani Pulite, sostiene che il padre non avrebbe mai dovuto togliersi la tuta da operaio, anche da dirigente. Pura mitizzazione.  E Craxi tace, forse acconsentendo, per ottenere l’assoluzione  del regista, e dei tanti intellettuali dolenti come Amelio. Per carità, ripeto,  in buonissima fede.

L’operaismo, da non confondere con il laburismo britannico. storicamente parlando, è un’autentica maledizione ideologica: per un verso ha impedito al partito comunista  italiano di  socialdemocratizzarsi, dipingendo alla Guttuso   l’operaio e il sindacato come una specie di  gloriosa avanguardia rivoluzionaria, però sottomessa machiavellicamente al partito (il contrario del laburismo inglese); per l’altro ha paralizzato  l’evoluzione del partito comunista verso una visione riformista del capitalismo,  proiettando l’ombra da Belle Dame sans Merci del conflitto di classe su ogni rapporto sociale.

Alle origini psicologiche e umane  del mito operaista risiede  il complesso di colpa del  dirigente comunista, affranto  per la sua provenienza borghese.  Il che spiega il mistero di tanti intellettuali di sinistra, coltissimi come Amelio, ma proprio perché tali portati tuttora  a mitizzare l’operaio.  Con la differenza che in passato l’operaismo  che  finiva  per  prevalere era sempre  quello autorizzato dal comitato centrale del  partito comunista (di qui le scissioni, “idealistiche” a sinistra, ma questa è un’altra storia...). Oggi diciamo si va più a briglia sciolta, ma lo "stampo"  è quello.     

Per fare una sintesi brutale:  tanto più colti, perché borghesi, magari solo per percorso di studi,  quanto più grande il senso di colpa, quindi tanto  più  comunisti e operaisti, anche senza tessera.

Figurarsi l’odio dei comunisti verso un Craxi che parlava a tutti, persino con i  fascisti. E che in questo modo   condizionava il partito che fu di Togliatti:  faceva sentire i comunisti  sorpassati, puri  e semplici reperti  archeologici della  politica.

Cosa che spiega  il riflesso moralista dell’ultimo Pci, aggrappatosi all’imperativo kantiano, perché non più in grado di spiegare in chiave operaista le trasformazioni sociali degli anni Ottanta del Novecento.  Che invece Craxi aveva intuito. Quindi non solo tangenti.

Di  tutto questo però nella bella  pellicola di Amelio non c'è traccia

Carlo Gambescia               

venerdì 22 ottobre 2021

Che cos’ è la letteratura?

 

Ricordiamo  un testo di Sartre, dal titolo omonimo, di una banalità assoluta.  In cui si riconduceva la letteratura nell’alveo dell’impegno politico e dell’egocentrismo, per quanto socializzato, non immune dalle stesse barriere piccolo-borghesi, che lo scrittore francese, diceva invece voler infrangere: la famiglia, l’infanzia, il “dovere” di scrivere”,  di “dire” eccetera.

Che cos’è allora la letteratura?

La letteratura in primo luogo  è un sistema (e in fondo lo è sempre stato): case editrici, tecnici dell’editoria, critici e infine scrittori. In secondo luogo,  un mito, che rinvia alle varie epoche e al sentire del tempo. Ogni periodo storico ha i  suoi  letterati comunque  legati - pro o contro -alle convenzioni del tempo. Ma non solo come vedremo. In terzo luogo, la letteratura è il letterato, ossia lo scrittore: un essere che crede di saperne più degli altri e di notificarlo al mondo.  Diciamo pure che chi scrive compie un atto di immodestia.  

E quasi mai l’ immodestia è stata amata. Tra il mondo antico e il mondo moderno si stese sulla letteratura  il velo della religione e delle chiese. Dopo di che il posto della religione fu preso dalla religione secolarizzata dell’impegno sociale e del progresso umano.

Se prima si scriveva per dio, oggi si scrive per gli altri. Così si diceva e  così si dice. Ma la sostanza è sempre la stessa, nonostante  si proclami di  scrivere sempre per qualcun altro. In realtà,  quasi   ci si vergogna di dire  che si scrive, innanzitutto,  per se stessi.

Modernamente parlando, la scrittura come impegno individuale quotidiano, discende direttamente dall’ imperativo categorico  kantiano.   

Però un conto sembra essere la morale, un altro la letteratura.

L’individuo teme di mostrarsi   nel suo nudo egoismo. E da sempre: perfino gli antichi, apparentemente al di là del bene come del male, immolavamo agli dei. Sicché il disimpegno  di molti scrittori, non è altro che impegno mascherato. Certo, verso se stessi. In definitiva, ripetiamo, la letteratura, dal lato dello scrittore,   non è altro che  un atto di immodestia a sfondo egoistico, che spesso distrugge, gli altri-vicini, e risparmia gli altri-lontani.

Allora   cosa ne è del messaggio universale di  Omero, di  Dante, di Shakespeare e di tanti illustri nomi? Di ciò che è stato definito il canone occidentale?

Purissimo effetto inintenzionale dell’azione dello scrivere individuale.  Lo scrittore  si è fatto portatore senza volerlo di valori che poi sono stati considerati da altri scrittori come  universali, quindi mitizzati: dalla psicologia alla morale, dalla  religione  alla filosofia.

E da  qui è nato  un  equivoco storico dalle proporzioni colossali. Gli scrittori, in particolare quelli  che sono divenuti grandi loro malgrado,  si sono  trasformati in modelli per tutti gli altri (in senso positivo come negativo, pro o contro insomma).  

Le idee stesse di canone e  classico si sono trasformate in letteratura. Anzi in letteratura sulla letteratura. In chiose su chiose:si  ripetono le stesse cose, in forma differente, più o meno gradevole secondo il gusto del tempo.

Allora, per concludere, che cos’è la letteratura? Un grande inganno, per chi scrive come  per chi legge.  Di cui però gli esseri umani, per   ora, non riescono a fare a meno.

Le menti acute, soprattutto autocritiche, sanno benissimo che è tutto un inganno, eppure non possono evitare di ingannare prima se stessi e poi gli altri.

Carlo Gambescia              

giovedì 21 ottobre 2021

CALCIO, SALUTI FASCISTI E TEORIA DELLA MODERNIZZAZIONE

 

 


 

Il calcio, in particolare il fenomeno del  tifo,  non è stato ignorato dalla sociologia.  Sussistono varie teorie sulla natura in particolare del  tifo  violento, teorie che possono essere ricondotte a due grandi filoni.

Da un lato, c’è chi vede  in questo fenomeno una forma di sublimazione e  trasposizione negli stadi  di una violenza sociale latente che trova nel tifo  calcistico il suo naturale sfogo.  Quindi, si tratterebbe,  in qualche misura, di  un fenomeno fisiologico.  Se non addirittura  positivo,  perché capace di tramutare la possibile violenza politica in violenza localizzata e neutralizzata, per dirla in sociologhese. Tradotto: meglio negli stadi che nelle piazze.

Dall’altro, c’è chi scorge nel tifo violento delle forme di aggregazione sociale come altre, capaci di  fornire un’identità collettiva  a chi altrimenti non ne avrebbe una. La violenza, in questo caso, sarebbe come un grido di allarme, dinanzi a una società ( e soprattutto una politica),  spesso incapace di ascoltare e rispondere. Detto in altri  termini, il tifo violento, come nuova questione sociale.

C’è però anche  una terza teoria, condivisa da scrive, che vede nel tifo violento, una risposta negativa ai processi di modernizzazione sociale  e calcistica.  Ci spieghiamo con un esempio.

Ci si  è scandalizzati per il saluto romano   di un collaboratore della Lazio:  l’addestratore  della famosa aquila-simbolo, che scende in campo, con il volatile, prima di ogni partita. Al grido “Duce-Duce-Duce” di alcuni tifosi l’addestratore, in divisa calcistica, con i colori della Lazio,  ha risposto con il braccio teso. La scena è buffa, perché si tratta di un uomo non più giovane, non proprio dal fisico scultoreo e  praticamente in  mutande.

Il calcio italiano,quando l’impianto economico-culturale  delle  società era di tipo patriarcale,  grosso modo fino agli anni Settanta-Ottanta del Novecento, non conosceva il fenomeno del tifo violento identitario.  Fenomeno, che invece è sorto  e  si sviluppato con la  modernizzazione societaria: dalla quotazione in borsa, al mercato dei gadget, fino alla liberalizzazione professionistica degli atleti  nel contesto di un calcio mondializzato.

La risposta dei tifosi, soprattutto nelle fasce giovanili con minori competenze culturali e spesso socialmente deprivate, si è risolta nella rivalutazione degli antichi valori, legati a un calcio patriarcale, ovviamente mitizzato,  pre-rivoluzione societaria anni Ottanta: rivoluzione incarnata dal  “nuovo calcio” borghese e consumista, lanciato da Berlusconi, presidente del Milan.

I valori arcaici degli  "ultras" sono sufficientemente  noti: giocatori-bandiera, sudore e sangue, onore e fedeltà, autarchia dello spazio-città contro lo spazio-mondo.  Valori  frutto di  una  reinvenzione e suddivisione  della storia della  società calcistica di appartenenza tra un prima (mitico) e un dopo (sordido),  e così via.

Era perciò inevitabile  che  una tifoseria nostalgica di un calcio patriarcale, premodernizzazione entrasse in perfetta sintonia con un’ideologia, altrettanto patriarcale e autarchica, come quella fascista.  Il che spiega il saluto romano dell’addestratore e  il “Duce-Duce-Duce” dei tifosi. Come pure i ricorrenti  episodi di violenza squadristica tra tifoserie opposte.

Come gli operai  “luddisti” che distruggevano le macchine diaboliche, come i  proprietari e i  contadini premoderni che non capivano l’importanza della agricoltura intensiva rispetto al latifondo, così i tifosi violenti  non comprendono (o non vogliono comprendere), alla stregua dei fascisti, la modernizzazione politica, il liberalismo, il mercato, l’avvento della società per azioni, il professionismo dei giocatori.

Quanto più la modernizzazione continuerà a  cambiare il  calcio, tanto più le resistenze nostalgiche si faranno sentire. Qui, ovviamente,  la domanda è:   fino a quando perdureranno negli stadi  i saluti fascisti e i richiami a un calcio identitario (reinventato, e mai esistito come ogni tradizione mitica)? 

Diciamo che è difficile rispondere. Perché, come spesso ripetiamo, gli uomini, soprattutto se giovani, al capire preferiscono il credere.

Infatti, cosa rispondono  molti tifosi di calcio, persino  tra i più innocui,  se intervistati?  Che la Lazio, la Roma, l’Inter, la Juventus e giù giù  fino al Barletta,  sono una fede.  

Figurarsi  perciò  i cosiddetti ultras...

Carlo Gambescia      
         

mercoledì 20 ottobre 2021

Sullo spirito borghese. La risposta di Bernard Dumont (e una mia replica)

 


Ringrazio innanzitutto l’amico Bernard Dumont, direttore di “Catholica”,  per  la gentilissima replica  al mio post (*),  addirittura  dalle pagine della  prestigiosa rivista. Lo considero un onore. Ho tradotto personalmente il suo articolo.

***

Rilevo due appunti di Dumont,  ben argomentati tra l’altro. Ai quali provo a ribattere. Il primo è di tipo metodologico, il secondo,  rinvia invece ai contenuti.
 

Questione metodologica. Dumont, sottolinea  che dietro le azioni umane, a differenza di quel che sostengo,  c’è sempre un qualche piano, e che il compito dei sociologi, dei filosofi, dei teologi eccetera, è quello di individuarlo, usando schemi e per l'appunto concetti. Ovviamente ex post.  Come  non posso essere d’accordo  su quest'ultimo punto?  Invece la vera questione  è che gli attori storici, ex ante,  non  ne sono mai consapevoli.

Questione contenuti.  Dumont riconduce la percezione del piano da parte  di alcuni  attori storici alla condivisione di una mentalità comune.  In realtà, nel caso  esaminato,  si tratta  di uno stato d'animo:  qualcosa di fuggevole, indeterminato. Per contro,   lo spirito e la mentalità sono invece qualcosa di permanente, determinato. Tra stato d’animo capitalista e spirito capitalista c’è la stessa differenza che passa tra la risposta a  un sondaggio politico  e una decisione politica effettiva. I due aspetti non possono essere confusi. Lo stato d'animo - semplificando - non costituisce prova di reato costruzionista. A meno che non lo si voglia forzatamente ricondurre nell'alveo della mentalità. 
 

Quanto, infine,  alla questione della società di massa, ammesso e non concesso che si possa parlare di mentalità e spirito,  parlerei,  ribadendo quando  ho già scritto, di spirito e  mentalità statalista  piuttosto che capitalista. Sarebbe perciò preferibile non fare confusione. Ripeto, liberalismo, capitalismo e altri fenomeni moderni  non possono essere giudicati in blocco, né tanto meno  sulla base di gerarchie morali. O, per ciò che rinvia ai contenuti,  non distinguendo  tra stato d'animo e mentalità.  E, comunque sia, dal punto di vista della storia delle idee come dello sviluppo sociologico e storico effettivi,  tra Guizot e Macron, come scrivo, esiste  un abisso.  Non aggiungo altro...

Carlo Gambescia         


(*) Qui il mio post:  https://cargambesciametapolitics.altervista.org/sullo-spirito-borghese/


***

"Lo  spirito borghese"  

("Catholica"  n. 153 - Autunno 2021, pp. 108-109)


di Bernard Dumont


A seguito del mio  editoriale, uscito sul  numero precedente di Catholica (1), che riprende nel  titolo un’ espressione del filosofo Augusto Del Noce,  Carlo Gambescia, sociologo e saggista romano,  membro del consiglio scientifico della nostra rivista, ha pubblicato sul suo blog una interessante  analisi  del  mio testo  (2),  dai toni amichevoli,  ma  ponendo  due obiezioni.

La prima  è che gli individui perseguono i propri interessi e la società borghese che ne derivò,  fu  priva di un piano prestabilito;  solo dopo si è stati  in grado di identificarne  la continuità logica, come mostrano  i lavori di  Weber, Sombart e Scheler. Tuttavia, egli prosegue, la storia delle idee (nella sua logica) non restituisce  quella della storia sociale (nella sua complessità).

La seconda, continua Gambescia,  è che non si deve stabilire alcuna  continuità storica tra la  borghesia delle origini, la cui piena realizzazione rinvia  al XIX secolo, e il mondo che viene dopo, che per molti aspetti ne differisce: da una parte, sistema censitario e liberalismo economico, dall’altra benessere e consumo di massa sotto un  regime dirigista. In qualche modo, l’insistenza  sulle idee, come fattore relazionale,  finisce per distorcere la realtà. Non  esiste infatti alcun  legame tra società di massa e spirito borghese.

Le critiche così formulate,  sono ben articolate.  il che permette di constatarne l’ esattezza, come pure, forse, per alcuni punti, l’inadeguatezza.

Che la situazione economica e politica, così come il modo di  vita  borghese, si siano formati in modo imprevisto in una parte della società che all’origine costituiva una piccola élite prima ancora di diventare un modello sociale, resta una questione  che può essere discussa  secondo il punto di vista dal quale ci si pone.

Certamente,  gli imprenditori (e in particolare i "parvenu"  del Periodo Rivoluzionario e dell’Impero) si lanciarono nella  corsa verso il  profitto con quello spirito ben  definito da Adam Smith, e poi riassunto  nella  famosa parola d’ ordine di Guizot: “Arricchitevi”.  Perciò   non è   impreciso dire  che  un  piano ha  guidato  questo fenomeno sociale. La corsa all’arricchimento non è  solo il portato di   una  somma di desideri individuali, ma prima di tutto una passione sufficientemente condivisa ed espressa in modo che potesse  essere legittimamente considerata come l’ espressione di una mentalità. Lo spirito borghese, per l'appunto. O no?

Dal momento che tale identificazione può essere tratta dallo studio della realtà sociale per un lungo periodo,  non si capisce perché debba essere liquidata come un costrutto mentale realizzato dopo il fatto. Del resto   non è proprio questo il lavoro dell’analista, che sia  sociologo, storico,  filosofo, teologo o altro?

Carlo Gambescia, fondando   il suo disaccordo su un’opposizione tra idealizzazione e realtà effettiva, vede invece nell’identificazione dello "spirito borghese" e il suo dispiegamento nel tempo una ricostruzione intellettuale che non tiene conto delle discontinuità.

A ciò risponderemo che lo spirito borghese in questione non è anzitutto un fenomeno di  ordine intellettuale  ma  morale. Vi è  sottesa una certa concezione della vita umana, della relazione dell’uomo con gli  oggetti e con il   denaro.  La gerarchia dei beni (utili, “onesti” -  ossia corrispondente alla natura ragionevole dell’uomo -,   spirituali),  implica nella sfera  pratica una risposta. Ciò  può o non può essere ordinato,  ossia  definito  in relazione a un  bene ultimo, misura di tutti gli altri beni, ognuno  secondo il suo grado. La coscienza di questa scala di valori si trova già nelle società tradizionali, ed è soprattutto spiegato in modo molto chiaro ed esteso nel Vecchio come nel Nuovo Testamento  e quindi, per ricaduta, profondamente  presente  nel mondo cristiano. Così come per esempio  nelle infinite  lodi  per celebrare i santi: “Beato il ricco che si trova senza macchia
e che non corre dietro all'oro" ("Ecclesiastico" 31,8). Non va  dimenticato  che è proprio  l’accresciuta passione per il lucro che dà libero sfogo alla nascita dello spirito borghese. E che  suscitò la risposta profetica di san Francesco d'Assisi.

Rimane la questione di quella che sembra essere una contraddizione in termini: come può esistere una borghesia di massa,  dando per scontato che la borghesia costituisce  solo una minoranza nella società globale, un’oligarchia di denaro e potere. L'era della borghesia  non può  essere che  quella del  XIX  secolo, mentre il XX  resta  molto diverso. Ricordiamo che si  tratta sempre di  "spirito" borghese, che Del Noce vedeva diffondersi “allo stato puro”, già all’indomani del maggio 1968.

La borghesia, naturalmente, costituirà sempre una minoranza sociale, definita dal denaro, dal  potere e in  certa misura  dalla  distinzione culturale, per acquisizione come  per imitazione.  In quanto tale, può riunire  solo un numero  più o meno ristretto di individui e su una  scala sociale variabile (intellettuali molto ricchi, socialmente riveriti, bobos...).

Tuttavia la  borghesia sembra essere  onnipresente nel desiderio, tanto più intenso nella società di massa quanto più i  media di ogni genere si mostrano  pronti  ad eccitarlo (3).  Nei  paesi dell’Est, la mentalità borghese degli ex dirigenti, convertitisi in oligarchia estremamente ricca,  si è subito diffusa tra la  popolazione,   come prova in particolare la   schiacciante preferenza dei giovani per gli studi di tipo  economico-commerciale.

La borghesia effettiva,  quella degli “eredi” descritti da Pierre Bourdieu,  rimarrà sempre, per status,  nelle mani di un  piccolo numero. Tuttavia  l’aspirazione all’inclusione, all'adozione di  alcuni   modi  di comportamento, e,  prima di tutto,  certa mentalità,  sembrano  diventare  patrimonio  sempre più  esteso di larghi settori della società.

Agli albori della modernità, i primi borghesi giocavano a  fare i  nobili, oggi  è tra le   masse che  possono incontrarsi comportamenti simili. Grazie, oltretutto, alla capacità di pressione sociale di tutta una serie di  veicoli  mediatici.

È vero che se  in futuro una piccola minoranza, dotata di immense ricchezze, dovesse offrire al resto dell’umanità nient’altro che la  scelta dell’austerità, il sogno potrebbe cessare e lo spirito borghese, giunto al  suo stato più puro,  tornare  di nuovo ad essere... patrimonio di pochi eletti.

Bernard Dumont


(1) Bernard Dumont, "L’esprit bourgeois à l’état pur" (Catholica n. 152,  Autunno 2021, pp. 4-15; online: https://www.catholica.presse.fr/2021/11/10/debat-lesprit-bourgeois-suite/ ) .
(2) Cfr.  https://cargambesciametapolitics.altervista.org/sullo-spirito-borghese/   (14 juillet 2021).
(3) Vedere, tra gli altri, François de Negroni,  "Le BCBG et les usages de masse de la distinction", Communications (n. 46, 1987), pp. 315-319 ; Jean-François de Vulpillières, "Le printemps bourgeois", La Table Ronde, 1990.

martedì 19 ottobre 2021

Fascismo e bufale...

 



A suo tempo  abbiamo  letto  libro di Francesco Filippi, storico.  In cui  si smontano bufale e  luoghi comuni sul fascismo: "Mussolini ha fatto anche cose buone", uscito nel 2019 per i tipi di Bollati Boringhieri, poi allegato a "Repubblica", l’anno successivo, nel contesto, come si legge,  di  “un'operazione verità sulle bufale messe in circolazione oltre 70 anni fa dal fascismo” (*).  

Ieri sera Filippi era ospite  del programma  "Che succ3de?"  condotto da Geppi Cucciari, attrice, cabarettista, eccetera, nata Macomer, e  che quindi per arrivare dove è arrivata, qualche qualità possiede.  Stesso discorso per il professor Filippi, un trentino, che ha scritto un libro al quale nessuno aveva pensato prima.  

Sullo sfondo di alcune interviste  a gente comune ( veri esempi da manuale di analfabetismo politico),  lo storico ha risposto  a quattro precisi luoghi comuni sul fascismo; istituzione della sanità pubblica, delle pensioni, bonifiche,  rispetto delle leggi: un  “Dux Checking” secondo la  definizione alla moda  rilanciata  da conduttrice e autori del programma.

Ovviamente, come ben sanno di addetti ai lavori,  Mussolini non inventò un bel nulla,  ma come ogni dittatura  tentò di “comprarsi” gli italiani  approfondendo alcune misure sociali, che grazie alla propaganda fascista e al  porta a porta  generazionale, rappresentano ancora oggi per molti italiani, “ciò che di buono fece il Duce”...

Stupiscono due cose.  

In primo luogo,  che  si riduca l’antifascismo a pillole  ansiolitiche  di storia.  Ma questo è l’atteggiamento tipico della sinistra, che dice di  credere  nella forza dell’educazione e nel valore dell’istruzione.  Purtroppo, gli uomini, non ci stancheremo mai di ripeterlo, al capire preferiscono il credere.  Di qui la  risposta, scontata sotto questo punto di vista,  di  uno degli intervistati, quando  afferma che il fascismo “ha creato le condizioni per una  cultura del rispetto delle leggi”...

In secondo luogo,  si corre il rischio, di rafforzare le tesi contrarie, fasciste.  Perché, ammesso e non concesso, che Mussolini, da vero benefattore dell’umanità avesse all'epoca redistribuito  con larghezza pensioni, sanità, ettari di terra ai contadini, allora il fascismo  sarebbe ancora in tempo  per meritare il Nobel per la Pace, diciamo postumo?  

Il problema di fondo è quello della libertà.  Che non   si può   ridurre  alla fornitura di servizi sociali, al  welfare state:  più servizi, più libertà, anche se governa un dittatore a Palazzo Venezia o al Consiglio Superiore della Sanità.

A riprova dell’approccio materialistico, che  tratta gli uomini come cera da plasmare,  Filippi, facendo il  Dux Checking   riduce  l' omicidio Matteotti al tentativo di chiudere la bocca al deputato socialista riformista su una storia di tangenti che avrebbe  potuto toccare la famiglia Mussolini.  

Basterebbe leggere i discorsi di Matteotti,  per scoprire  che dietro la sua battaglia, ammessa e non concessa la spy story,  c’era una visione  liberale della libertà,  di una libertà, che vedeva a rischio. Che però, i suoi avversari di schieramento (socialisti massimalisti e comunisti), liquidavano come borghese.  Il che ovviamente non significa che Matteotti non fu trucidato dai fascisti. Complice, probabilmente, il silenzio di Mussolini.  Che poi, comunque sia, forte dei suoi scherani,  si assunse alla Camera la responsabilità  morale dell’omicidio.

Se si riduce Matteotti a  giornalista investigativo, ignorando il fatto che il fascismo fu innanzitutto nemico della libertà, si rischia di favorire la tesi  fascista che gli italiani non erano ancora  maturi, eccetera, eccetera. Di qui, il busto di gesso: fascista o welfarista.

Tesi, quando si dice il caso, rispolverata dal Governo Conte, seconda versione (giallo-rossa), quando, durante l’epidemia, qualcuno opponeva  alle chiusure lesive delle libertà costituzionali, il modello svedese, liberale e “aperturista”.

Infatti, che si rispondeva?  E con l’appoggio della sinistra politica e intellettuale, la stessa alla Cucciari  che celebra l'approccio alla  Francesco Filippi ?  Che gli italiani, a differenza degli svedesi, non sono tuttora maturi, eccetera, eccetera.

Quindi, alla fin fine, italiani plasmabili. Ma tutto dipende dal Pigmalione... Capita l’antifona?  

Viva Giacomo Matteotti.

Carlo Gambescia

(*) Qui:  https://www.repubblica.it/robinson/2020/02/13/news/mussolini_ha_fatto_anche_cose_buone-248429778/