martedì 15 ottobre 2019

Premio Nobel Economia  2019 
assegnato a Esther Duflo, Abhijit Banerjee, Michael Kremer
 "Basta un poco di  zucchero 
e la pillola va giù..."




Ieri un amico mi ha chiesto un articolo sui tre Premi  Nobel  Economia, Esther Duflo, Abhijit Banerjee, Michael Kremer. Un riconoscimento  ricevuto  “per l'approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale”.
Ho dovuto declinare, confessando la mia ignoranza.
Per dirla tutta,  di solito la terminologia (“ lotta alla povertà globale”) mi  dà  i brividi. L’idea  di un tirannico welfare state mondiale  addirittura mi terrorizza.    
Un altro amico, economista,  sempre ieri, mi ha spiegato che l’ approccio dei tre Nobel Economia  si concentra sull’istruzione e sulla formazione. Semplificando: più diplomati più occupati, meno poveri.  Tutto qui.  Insomma, per parafrasare  Mary Poppins, "supertata",  basta un poco di zucchero statistico,  e la pillola  povertà va giù…  
Il che, in realtà  se si pensa al Mezzogiorno , patria ufficiale  dei diplomati italiani a spasso, non sembra proprio un’idea da  Premio Nobel.
L’idea sbagliata, tipica di molti economisti di sinistra o  populisti,  credo  sia   quella di   collegare le  “politiche attive del lavoro”, come sono chiamate con termine alla moda, con le  “politiche di lotta alla povertà”, altra  terminologia molto in voga.  
In realtà, si tratta di due cose profondamente diverse. Le politiche attive del lavoro rinviano a profili di soggetti attivi  che aspirano a  integrarsi, adattarsi, mentre le politiche contro la povertà rimandano a soggetti passivi, con scarse o nulle capacità di adattamento, talvolta  purtroppo legate  a inabilità di tipo psichico e fisico.
Ad esempio, si tratta di una realtà,  riferitami da alcuni operatori,  che sta emergendo per l’Italia, o comunque in alcuni regioni,  dai primi colloqui orientativi per il Reddito di Cittadinanza.  In certe aree,  addirittura a offerta forte di lavoro,  quasi la metà dei percettori non si è presentata, e la metà di coloro che si sono presentati, pur muniti di diploma dell’obbligo o di scuola superiore, brilla per  la  passività.   
Cosa vogliamo dire? Che per trovare lavoro non basta un titolo di studio, conseguito più o meno passivamente,  occorre  la  forte  volontà di integrarsi  all’interno del mercato del lavoro. Non basta per "volare"  il miracoloso ombrello-diploma di  Mary Poppins. La ricerca di lavoro  implica una mente integrativa quale  prolungamento applicativo, quindi volontario e intenzionale,  di un atto cognitivo.   
Siamo davanti a due percorsi.  La lotta alla povertà  rinvia non tanto alla distribuzione di diplomi quanto a storie di socializzazione e acculturazione di successo,  capaci di imprimere nelle persone valori condivisi di deferenza verso il lavoro.  Mentre le politiche attive del lavoro, rimandano a persone  che  già condividono, e convintamente,  questa deferenza.   
La lotta alla povertà riguarda, da parte dei destinatari, l’accettazione dell’idea stessa lavoro come fonte di interdipendenza sociale.  Mentre le politiche attive, rimandano al consenso diffuso intorno all’idea di lavoro come veicolo di promozione sociale, dunque di interdipendenza e crescita personale e sociale.
Per dirla altrimenti, le politiche attive impongono  un’idea capitalistica, in qualche misura  weberiana, del lavoro, come momento alto nella vita delle persone.  Il che richiede soggetti attivi, acculturati,  capaci di recepirla  e non soggetti passivi che volenti o nolenti  condividono, nella migliore delle ipotesi una cultura  pre-capitalistica del lavoro.
Pertanto se un diploma fa uscire statisticamente dalla povertà,  non significa che il diplomato, una volta tale, condivida l’etica del lavoro capitalistica e occidentale. E se  ciò accade, come accade, all’interno dello stesso Occidente, fìgurarsi altrove.

Carlo Gambescia                                         

       

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