vista da Henry
Kissinger
1973. Kissinger e Mao,
grandissimi realisti politici (sullo sfondo Chou
En-lai)
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Ieri l’amico
Marcello Teofilatto, fedele lettore del blog, si (e ci) interrogava sul fatto
che «la grande assente nel dibattito politico», sottendendo crediamo - lo
scenario italiano, «è la politica estera».
Osservazione giusta.
Tuttavia l’argomento è spinoso. E per giunta, da non
specialisti della materia (a malapena riusciamo a occuparci di
sociologia), rischiamo di dire solo banalità.
Del resto, quale
politica estera ci si può aspettare da una classe politica ripiegata dal 1945
su questioni interne, spesso di bassissimo profilo? In fondo, il rifiuto
della guerra inserito in pompa magna nella Costituzione,
indica in linea di principio il rifiuto di continuare a fare
politica con altri mezzi:, quelli della guerra. Lo
strumento, fin da quando si usava la
clava ( anche solo come semplice minaccia), preferito dall'uomo
per regolare in ultima istanza le questioni politiche.
Insomma, di necessità si è fatta virtù. Detto altrimenti: il rifiuto della guerra è la classica foglia di fico retorica per coprire idelogicamente vergogne o debolezze politiche. Quali? Difficile dire. Anche perché non desideriamo allargare l’analisi. Non ne saremmo capaci. Offriamo però ai lettori come piccolo viatico, un’illuminante riflessione di Henry Kissinger sui “limiti” storici interni (e di riflesso anche esterni) della classe politica italiana. Osservazioni che risalgono al 1969, anno in cui Nixon, di cui Kissinger era consigliere, visitò l’Europa e l’Italia:
Insomma, di necessità si è fatta virtù. Detto altrimenti: il rifiuto della guerra è la classica foglia di fico retorica per coprire idelogicamente vergogne o debolezze politiche. Quali? Difficile dire. Anche perché non desideriamo allargare l’analisi. Non ne saremmo capaci. Offriamo però ai lettori come piccolo viatico, un’illuminante riflessione di Henry Kissinger sui “limiti” storici interni (e di riflesso anche esterni) della classe politica italiana. Osservazioni che risalgono al 1969, anno in cui Nixon, di cui Kissinger era consigliere, visitò l’Europa e l’Italia:
« Nessun leader di
qualsivoglia partito Partito [italiano, ndr] aveva un programma concreto, dato
che l’equilibrio di forze che avrebbe potuto trovare contava di più delle sue
idee per svolgere il proprio incarico quando l’avesse raggiunto (…). L’Italia
molto curiosamente , non aveva ancora rotto con la tradizione rinascimentale. I
partiti svolgevano il ruolo di quella congerie di città-stato che aveva
dominato tanta parte della Storia d’Italia (…). Molte di queste tendenze
emersero in un incontro formale allargato con il governo ( al quale furono
presenti quasi tutti i ministri) a villa Madama (…). L’incontro fu preceduto da
un colloquio privato fra Nixon e il presidente del consiglio Rumor; incontro
destinato a non concludere niente, dato che Rumor non poteva assumersi impegni
senza previa consultazione con i suoi ministri, e che tutti i ministri erano a
loro volta troppo numerosi per poter discutere su un argomento specifico nel
corso di una seduta plenaria (…). Gli interessi italiani erano: la fine della
guerra in Vietnam al fine di tacitare il leitmotiv della propaganda comunista;
l’incoraggiamento dell’entrata della Gran Bretagna nel Mercato Comune;
l’ostilità nei confronti degli orientamenti gollisti, la conquista delle
simpatie dell’Est per dare uno scopo all’Alleanza Atlantica. Questi propositi
vennero enunciati nella forma di amichevoli esortazioni rivolte a un fedele
alleato, e non furono accompagnati da alcuna proposta specifica. I ministri
italiani tacevano sui problemi della difesa» (H. Kissinger, Gli
anni della Casa Bianca, SugarCo Edizioni 1980, vol. I, p. 96).
Va notata
l'apprezzabile chiusa kissingeriana (da « Gli interessi italiani
erano... »), un
misto di ironia, stupore e in fondo, crediamo, simpatia
per gli italiani, plasticamente colti
come abilissimi maestri nell'arte della sopravvivenza:
nel fare, come dicevamo, di necessità virtù. È così cambiata, da
allora, l’Italia politica?
Illuminante, per
contrasto, anche il passo successivo:
«L’ultima tappa (…)
fu Parigi, dove venimmo salutati all’aeroporto da quello straordinario
personaggio che fu Charles de Gaulle, presidente della Quinta Repubblica
francese. Trasudava autorità » (Ibid.,
p. 97).
Capita l’antifona?
Buona giornata a tutti.
Carlo Gambescia
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