Il libro della settimana: Roberto Vivarelli, Storia delle
origini del fascismo. Dalla grande guerra alla marcia su Roma , il Mulino,
Bologna 2012, 3 volumi, pp. 656, 960, 546, euro 36,00, 38,00, 36,00.
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Più di duemila pagine. Probabilmente, prescindendo dalla
biografia mussoliniana di Renzo De Felice, non esiste, per ampiezza, altro
studio dedicato al fascismo e in particolare alle sue origini. Parliamo della
summa di Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Dalla grande
guerra alla marcia su Roma (il Mulino), professore emerito di storia
contemporanea alla Normale di Pisa. Tre massicci volumi che potrebbero
spaventare, al solo scorgerli sugli scaffali, quel lettore forte (perché
ne legge almeno dodici all’anno…), di cui gioiscono a buon mercato
le statistiche ufficiali.
In realtà, si tratta di un’opera scritta con chiarezza di stile
e lucidità storiografica non comuni. E che quindi merita veramente di essere
letta e approfondita da tutti, forti e deboli… Anche perché innervata
dalla stessa passione civile che anima i libri dei maestri di Vivarelli:
Gaetano Salvemini e Federico Chabod. Per dirla tutta, sono doti oggi non sempre
presenti nella produzione di molti storici italiani, altrettanto togati e
spesso più giovani di Vivarelli, nato nel 1929, e passato attraverso la fornace
fascista di Salò, esperienza di cui parla ne La fine di una stagione. Memorie
1943-1945 (Il Mulino).
Di certo, le radici del libro sono nella sua prima, e non
facile, esperienza di volontario quattordicenne in camicia nera. Poi
storicizzata negli anni Cinquanta alla severa e rigorosa scuola dei suoi importanti
maestri. Di lì, la passione per la democrazia, per il liberalismo e soprattutto
per la ricerca storica. Un combinato disposto che culmina nella decisione,
maturata sempre negli stessi anni, di scrivere un’opera sulle
origini del fascismo. Un cammino conclusosi nel 2012 con la pubblicazione del
terzo e ultimo volume, accompagnata dalla opportuna ristampa ( tra l’altro
dalla splendida veste editoriale) dei primi due, usciti rispettivamente
nel 1965 e nel 1990.
Fatte le presentazioni veniamo ai contenuti. Perché vinse il
fascismo? A costo di far torto alla ricchezza del libro, diciamo,
sinteticamente, che secondo Vivarelli il fascismo vinse giocando sulle
divisioni politiche degli avversari, sull’ immaturità delle masse (soprattutto
contadine), sull'improduttivo massimalismo socialista, nonché, last but
not least, sulla fragilità delle istituzioni liberali, mai realmente entrate
nel cuore e nella mente degli italiani. Vivarelli evidenzia un deficit
post-unitario, per dirla sociologicamente, di nazionalizzazione delle masse,
che l’Italia avrebbe poi pagato duramente… E così, la guerra vittoriosa, che
secondo le tesi dell’interventismo democratico - condivise da Vivarelli -
avrebbe potuto contribuire con il varo di riforme economiche e politiche
alla crescita democratica del paese culminò invece nel suo contrario, il
fascismo. Grazie anche all’abilità politica di Mussolini, capace di giocare su
più tavoli approfittando delle altrui divisioni e debolezze e presentandosi
come difensore dello stato nazionale dalla canea massimalista.
Sotto questo profilo, Vivarelli riprende e sviluppa la tesi
gobettiana del fascismo come «autobiografia della nazione». Di riflesso,
l’intera opera costituisce un’ accurata e impietosa radiografia dell’ Italia
dopo l’Unità. Pagine molto intense (anche per scrittura) sono quelle dedicate
alle origini e alla particolare struttura politica e sociale del massimalismo
socialista, inconsapevolmente condiviso, secondo Vivarelli, anche da quei
dirigenti che si definivano riformisti. Dal momento che uomini come
Turati, Treves, Modigliani e Matteotti condividevano con i massimalisti alla
Serrati, la tesi dell’inevitabile superamento della società liberale, borghese
e capitalista. Un atteggiamento ambiguo, che scorgendo nelle riforme un mezzo e
non un fine, avrebbe spianato la strada alla vittoria di Mussolini, il quale da
socialista (ironia della storia?) aveva più che tubato con l’ala estrema del
partito. Ovviamente, come accennato, Mussolini vinse anche grazie alla
complicità e agli errori della classe politica liberale: un
ceto che, al di là delle manchevolezze tattiche e
contingenti, non aveva saputo formare, storicamente, cittadini responsabili. Di
qui, il «fallimento del liberalismo» italiano.
Nelle sue conclusioni, Vivarelli, ricordando la tesi
di Gobetti, riconduce la vittoria del fascismo a una questione di fondo
o di «sostanza», come afferma. Quale? «La diffusa presenza -
scrive - tra gli italiani di un sentimento tanto profondo quanto spesso inconsapevole,
che è la paura della libertà. La lezione - prosegue - che lo studio delle
origini del fascismo è ancora in grado di darci, come un costante monito, è che
le libere istituzioni, anche quando ne assumano le forme, non possono fiorire
laddove non sia preliminarmente attuata una rivoluzione liberale, nei suoi
aspetti economici ma e soprattutto intellettuali e morali, il che implica la
volontà dei cittadini di vivere da persone libere. Sono i caratteri di questa
rivoluzione - conclude Vivarelli - che hanno aperto la strada al mondo moderno
e che ancora ne condizionano il cammino».
Come non essere d’accordo? Tuttavia resta una
questione molto importante e fonte di non innocue divisioni in casa
liberale. In nome di quale liberalismo fare (o continuare) la rivoluzione?
Quello di Gobetti o di Croce? Quello di Salvemini o di
Einaudi? Insomma, per venire ai nostri giorni:
Hayek o Aron ? Mises o Berlin?
Carlo Gambescia
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