giovedì 15 novembre 2012

Il libro della settimana: Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende, Marsilio, Venezia 2012, pp. 587, euro 25,00.


 www.marsilioeditori.it


Premessa.  Qualsiasi  verdetto  (per usare un parolone)   su  Malaparte,   dipende da un  preventivo  giudizio  storico   sul  Secolo Ventesimo.  Che intendiamo dire? Due cose. Innanzitutto, e trascurando le questioni di caffeina storiografica (secolo lungo, breve, ristretto, macchiato, corretto…), che sul Novecento, le tesi da prendere in considerazioni sono al massimo  tre: la prima del declino, la seconda della sfida, la terza della ripresa  post-mattatoi mondiali. A dire vero, ne esiste anche una quarta, più recente, una non-tesi, post-moderna: quella che il Novecento, in senso storico-politico, sarebbe un’invenzione… Anzi, una narrazione, terminologia oggi di moda.
La tesi del declino rinvia a Spengler ( e ai romantici ottocenteschi,  con  o senza pendant biologista); quella della sfida ai “pellegrini politici” abbacinati dalle religioni secolari, prima e dopo la seconda guerra mondiale (con termine ad quem il 1989-91); la terza, al pensiero neo-illuminista, liberale, socialista riformista, anche cristiano, che ha ispirato la grande ricostruzione democratica post-1945. La quarta, infine alla pappa ideologico-culturale post-moderna: un minestrone liofilizzato di narrazioni-un-tanto-chilo-signora-mia.
E qui, seconda cosa, veniamo   al Malaparte. Vite e leggende (Marsilio) di Maurizio Serra, diplomatico, figlio di un finissimo storico, e storiografo, non di corte of course, egli stesso. Parliamo di un libro incoronato in Francia, dove ha vinto due premi più che meritati, perché documentato, ben scritto e di piacevolissima lettura nonostante, come si dice,  la mole.  E che si fa apprezzare perfino per alcune  deliziose note a piè di pagina, solo apparentemente a margine,  dove Serra si toglie dei fastidiosi sassolini dalle eleganti  Crockett & Jones: memorabile, per tutte, la nota 1,  pagina 79, dove si liquida un film da biennio rosso come “Uomini Contro”. E  con una causticità degna dell’eccelso  Morando Morandini.
Ovviamente, Malaparte. Vite e leggende, oltre al massiccio lavoro di archivio, ha dietro di sé, concettualmente, un altro  masterpiece  di Serra: la magnifica trilogia storica sugli intellettuali tra crisi della modernità e sirene del totalitarismo (il Mulino, 1990-1994).
Ma veniamo al punto.  Il Curzio Malaparte di Serra, appartiene  agli intellettuali della sfida.  Ecco come viene effigiato: «Fascistoide, marxistizzante e anarcoide, sempre ribelle, Malaparte lo è lo rimarrà anche per diffidenza verso la democrazia parlamentare». Inoltre, sciabola Serra, «si può leggere una compensazione del fascismo anche nella sua attrazione per l’URSS che ha sbaragliato le armate di Hitler e per la Cina di Mao. Pochi intellettuali della sua epoca hanno predetto con tanta precisione e denunciato con più vigore il declino dell’occidente». In conclusione: «un fascistoide vicino ai rivoluzionari e lontano il quanto più possibile dai conservatori, dai nostalgici, dai reazionari. Siamo dunque nell’orbita del fascismo rosso». O detti altrimenti: un fasciocomunista. Da non confondere o avvicinare al Pennacchi pontino che sta a Malaparte come Brera stava a Gadda.
Su questo zoccolo duro, politico, tout court totalitario (il rifiuto della liberaldemocrazia), che ne distingue la vita (al singolare), si innestano gli innegabili limiti dell’uomo Malaparte, cinico e narciso, autore di giravolte, professionali e amorose ( le vite al plurale), imbarazzanti anche solo a  leggerle:  salti della quaglia sconcertanti, indagati da Serra  nei particolari;  parliamo di micro e macro-eventi (dagli amorazzi al rapporto con Mussolini e potenti vari), che hanno dato la stura alle varie leggende (sempre al plurale), alimentate, con scienza senza coscienza,  dallo stesso Malaparte. Il che non deve però mettere in discussione, - ecco l’altra tesi di Serra che condividiamo - le sue altrettanto innegabili  e rare qualità di scrittore, anzi di intuitivo de-scrittore di ambienti e situazioni come  in  Kaputt e La pelle.
Serra, pur manifestando umana simpatia (quella del nipote tutto a modino  per lo zio scapestrato),  non fa sconti storiografici. Rispetto al Malaparte di Giordano Bruno Guerri, altro notevole lavoro, la biografia di Serra ha però  un respiro maggiore, europeo, e in un senso preciso:   riconduce l’opera di Malaparte nell’alveo di quella cultura della crisi,  già  solidamente studiata nella ricordata trilogia.  Semplificando:  se per Guerri, Malaparte è l’Arcitaliano, per Serra è l’Arcieuropeo, e non solo per l’attenzione mostrata all’estero verso la sua opera, ma perché l’antropologia esistenziale (filosofica, sarebbe parola grossa) di Malaparte, a prescindere dalle sue giravolte umane, si nutre della e nella crisi europea tra le due guerre.  E come tale va studiata e compresa.
Resta da interrogarsi, sull’attualità di Malaparte. Il libro di Serra, che attenzione è una smagliante opera corale dove come in un bel  film di Altman i tanti personaggi parlano ad alta voce, sembra rivalutare le capacità  intuitive del Malaparte giornalista-scrittore, una specie di sciamano dotato di  macchina per scrivere: razza sparita, crediamo, con Montanelli (tra l’altro nemico giurato di Malaparte). Serra ammira - e giustamente - la sua ultravista da scrittore di razza:  una capacità    di «vedere »  nelle pieghe più riposte delle  cose  sulla quale «poggia l’intera opera». Oltre ovviamente alle sue «capacità di lottatore»,  certo spese,  quasi sempre,  in difesa del proprio ego. Oppure  in obliqua,  forse  femminea - Serra indaga il punto sagacemente, lasciando la scelta al lettore -   ammirazione  per  gli uomini  forti del totalitarismo.
Insomma, saper indossare un bel paio di occhiali e scorgere cose che sfuggono agli altri… Ecco il Malaparte letterato di classe A. Il grande scrittore che si è immerso negli abissi della guerra civile europea.   Ma può bastare ?  Dov'è, ripetiamo, l'attualità ideale di Malaparte?   Difficile dire. Facciamo allora un passo indietro. A Serra, dobbiamo un notevole capitolo su Croce ne La ferita della modernità (il Mulino 1992), secondo tomo della sua trilogia, dove, mostrando di apprezzare lo storicismo crociano, scrive: « La libertà per cui Croce ha vissuto-operato, rimane il valore e la grande incognita degli anni in cui viviamo (…). La storia, che permette al valore di libertà di calarsi nelle vicende umane, è oggi di tutte le discipline umanistiche forse la più minacciata dai miti e dai riti di massa Si parla con disinvoltura di una “fine della storia” alla soglie del Duemila, laddove potremmo assistere all’irrompere di una nuova antistoria guidata da antiprofeti. Se la vitalità di una cultura è data dalla somma delle sue differenze, allora la modernità non è finita, ed in qualche misura, una misura che contiene un punta di sfida, non possiamo non dirci crociani».  Giustissimo. 
Ora però, Malaparte, come riconosce anche Serra, oltre a essere idealmente agli antipodi di Croce, non perde mai occasione per manifestare «il suo antistoricismo, il suo scetticismo, il suo rifiuto di credere all’incedere del progresso, il suo disprezzo per le sorti dell’Europa» democratica,  soprattutto prima del 1914 e  dopo il  1945.  Perciò,  ci chiediamo,  chi,  tra i due,  è  più attuale ?  Il fasciocomunista o il liberale? 

Carlo Gambescia

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