Il libro della settimana: Maurizio Serra, Malaparte. Vite e
leggende, Marsilio, Venezia 2012, pp. 587, euro 25,00.
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Premessa. Qualsiasi verdetto (per
usare un parolone) su Malaparte, dipende da
un preventivo giudizio storico sul Secolo
Ventesimo. Che intendiamo dire? Due cose. Innanzitutto, e
trascurando le questioni di caffeina storiografica (secolo lungo, breve,
ristretto, macchiato, corretto…), che sul Novecento, le tesi da prendere in
considerazioni sono al massimo tre: la prima del declino, la seconda
della sfida, la terza della ripresa post-mattatoi mondiali. A dire vero,
ne esiste anche una quarta, più recente, una non-tesi, post-moderna: quella che
il Novecento, in senso storico-politico, sarebbe un’invenzione… Anzi, una
narrazione, terminologia oggi di moda.
La tesi del declino rinvia a Spengler ( e ai romantici
ottocenteschi, con o senza pendant biologista); quella della sfida
ai “pellegrini politici” abbacinati dalle religioni secolari, prima e dopo la
seconda guerra mondiale (con termine ad quem il 1989-91); la terza, al pensiero
neo-illuminista, liberale, socialista riformista, anche cristiano, che ha
ispirato la grande ricostruzione democratica post-1945. La quarta, infine alla
pappa ideologico-culturale post-moderna: un minestrone
liofilizzato di narrazioni-un-tanto-chilo-signora-mia.
E qui, seconda cosa, veniamo al Malaparte. Vite
e leggende (Marsilio) di Maurizio Serra, diplomatico, figlio di un finissimo
storico, e storiografo, non di corte of course, egli stesso. Parliamo di un
libro incoronato in Francia, dove ha vinto due premi più che meritati, perché
documentato, ben scritto e di piacevolissima lettura nonostante, come si dice,
la mole. E che si fa apprezzare perfino
per alcune deliziose note a piè di pagina, solo apparentemente
a margine, dove Serra si toglie dei fastidiosi sassolini dalle
eleganti Crockett & Jones: memorabile, per tutte, la nota 1,
pagina 79, dove si liquida un film da biennio rosso come
“Uomini Contro”. E con una causticità degna dell’eccelso
Morando Morandini.
Ovviamente, Malaparte. Vite e leggende, oltre al massiccio
lavoro di archivio, ha dietro di sé, concettualmente, un altro
masterpiece di Serra: la magnifica trilogia storica sugli
intellettuali tra crisi della modernità e sirene del totalitarismo (il Mulino,
1990-1994).
Ma veniamo al punto. Il Curzio Malaparte di Serra,
appartiene agli intellettuali della sfida. Ecco come viene
effigiato: «Fascistoide, marxistizzante e anarcoide, sempre ribelle, Malaparte
lo è lo rimarrà anche per diffidenza verso la democrazia parlamentare».
Inoltre, sciabola Serra, «si può leggere una compensazione del fascismo anche
nella sua attrazione per l’URSS che ha sbaragliato le armate di Hitler e per la Cina di Mao. Pochi
intellettuali della sua epoca hanno predetto con tanta precisione e denunciato
con più vigore il declino dell’occidente». In conclusione: «un fascistoide
vicino ai rivoluzionari e lontano il quanto più possibile dai conservatori, dai
nostalgici, dai reazionari. Siamo dunque nell’orbita del fascismo rosso». O
detti altrimenti: un fasciocomunista. Da non confondere o avvicinare al
Pennacchi pontino che sta a Malaparte come Brera stava a Gadda.
Su questo zoccolo duro, politico, tout court totalitario (il
rifiuto della liberaldemocrazia), che ne distingue la vita (al singolare), si
innestano gli innegabili limiti dell’uomo Malaparte, cinico e narciso, autore
di giravolte, professionali e amorose ( le vite al plurale), imbarazzanti
anche solo a leggerle: salti della quaglia sconcertanti,
indagati da Serra nei particolari; parliamo di micro e
macro-eventi (dagli amorazzi al rapporto con Mussolini e potenti vari), che
hanno dato la stura alle varie leggende (sempre al plurale), alimentate, con
scienza senza coscienza, dallo stesso Malaparte. Il che non deve però
mettere in discussione, - ecco l’altra tesi di Serra che condividiamo - le sue
altrettanto innegabili e rare qualità di scrittore, anzi di
intuitivo de-scrittore di ambienti e situazioni come in Kaputt
e La pelle.
Serra, pur manifestando umana simpatia (quella del nipote
tutto a modino per lo zio scapestrato), non fa sconti
storiografici. Rispetto al Malaparte di Giordano Bruno Guerri, altro notevole
lavoro, la biografia di Serra ha però un respiro maggiore, europeo, e in
un senso preciso: riconduce l’opera di Malaparte nell’alveo di
quella cultura della crisi, già solidamente studiata nella
ricordata trilogia. Semplificando: se per Guerri, Malaparte è
l’Arcitaliano, per Serra è l’Arcieuropeo, e non solo per l’attenzione mostrata
all’estero verso la sua opera, ma perché l’antropologia esistenziale
(filosofica, sarebbe parola grossa) di Malaparte, a prescindere dalle sue
giravolte umane, si nutre della e nella crisi europea tra le due guerre.
E come tale va studiata e compresa.
Resta da interrogarsi, sull’attualità di Malaparte. Il libro
di Serra, che attenzione è una smagliante opera corale dove come in
un bel film di Altman i tanti personaggi parlano ad alta voce,
sembra rivalutare le capacità intuitive del Malaparte
giornalista-scrittore, una specie di sciamano dotato di macchina per
scrivere: razza sparita, crediamo, con Montanelli (tra l’altro nemico giurato
di Malaparte). Serra ammira - e giustamente - la sua ultravista da scrittore di
razza: una capacità di «vedere » nelle
pieghe più riposte delle cose sulla quale «poggia l’intera
opera». Oltre ovviamente alle sue «capacità di lottatore», certo
spese, quasi sempre, in difesa del proprio ego. Oppure
in obliqua, forse femminea - Serra indaga il punto
sagacemente, lasciando la scelta al lettore -
ammirazione per gli uomini forti del
totalitarismo.
Insomma, saper indossare un bel paio di occhiali
e scorgere cose che sfuggono agli altri… Ecco il Malaparte letterato
di classe A. Il grande scrittore che si è immerso negli abissi della
guerra civile europea. Ma può bastare ? Dov'è,
ripetiamo, l'attualità ideale di Malaparte? Difficile dire.
Facciamo allora un passo indietro. A Serra, dobbiamo un notevole capitolo
su Croce ne La ferita della modernità (il Mulino 1992), secondo tomo della sua
trilogia, dove, mostrando di apprezzare lo storicismo crociano, scrive: « La
libertà per cui Croce ha vissuto-operato, rimane il valore e la grande
incognita degli anni in cui viviamo (…). La storia, che permette al valore di
libertà di calarsi nelle vicende umane, è oggi di tutte le discipline
umanistiche forse la più minacciata dai miti e dai riti di massa Si parla
con disinvoltura di una “fine della storia” alla soglie del Duemila, laddove
potremmo assistere all’irrompere di una nuova antistoria guidata da
antiprofeti. Se la vitalità di una cultura è data dalla somma delle sue
differenze, allora la modernità non è finita, ed in qualche misura, una misura
che contiene un punta di sfida, non possiamo non dirci
crociani». Giustissimo.
Ora però, Malaparte, come riconosce anche Serra, oltre a
essere idealmente agli antipodi di Croce, non perde mai occasione per
manifestare «il suo antistoricismo, il suo scetticismo, il suo rifiuto di
credere all’incedere del progresso, il suo disprezzo per le sorti dell’Europa»
democratica, soprattutto prima del 1914 e dopo il 1945.
Perciò, ci chiediamo, chi, tra i due, è più
attuale ? Il fasciocomunista o il liberale?
Carlo Gambescia
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