lunedì 20 novembre 2006


La sentenza di Milano
E' giusto punire i genitori?



Si può combattere la violenza giovanile a colpi di provvedimenti economici restrittivi nei riguardi dei genitori? Pretendere che adulti spesso deprivati socialmente, si facciano carico della “crescita sociale dei ragazzi” perché obbligati da un giudice? O magari, come auspicava su Repubblica Michele Serra, di “spiegare ai figli “la gradualità del successo”? No, perché il problema è più generale e riguarda la nostra “società del rischio”, dove ormai è impossibile fare programmi a lunga se non a media scadenza: come scegliersi un lavoro che piace, comprare una casa, sposarsi, mettere a mondo dei figli.
Ma perché parlare di società del rischio? Un “rischio” lo si accetta liberamente. Mentre la “precarietà” che oggi pervade i rapporti sociali, a cominciare da quelli lavorativi, è imposta da un sistema economico che valorizza solo il profitto e corre a una velocità ben superiore a quella sociale e culturale. Pertanto il vero problema, non è insegnare ai figli “ la gradualità del successo”, ma ben altro. Probabilmente solo a sopravvivere… Almeno per il momento.
Certo, ogni violenza, giovanile o meno, va sempre condannata. Ma quali sono i valori di riferimento dei giovani? In particolare di quelli tra i 15 e i 17 anni ? Secondo l’ultimo rapporto quadriennale Iard sulla condizione giovanile in Italia (2006), la sfiducia nei riguardi delle istituzioni politiche, militari, scolastiche e mediatiche è elevatissima (quasi 1 giovane su 2). Anche la solidarietà è un valore in calo: rispetto a otto anni fa è passato dal 59% al 42% dei consensi. I valori più apprezzati sono nell’ordine: la salute 92%, la famiglia 87%, la pace 80 %, l’amore il 76%, l’amicizia il 74 %. Insomma, tutti valori “privatistici” . Inoltre, ecco il dato più interessante, 2 giovani su 3 respingono qualsiasi impegno o progetto a lunga scadenza. Mentre l’ “uscita di casa” avviene di media dopo i venticinque anni (più tardi rispetto ad altri paesi europei). Infine i giovani che mostrano tendenze alla devianza, sono circa l’8 % del totale (per questo aspetto si veda A. Cavalli e A. De Lillo, Giovani anni ’90, il Mulino, Bologna 1993).
Ora, se già di per sé, i giovani nati negli ultimi trent’anni tendono ad avere una dimensione indeterminata del tempo (il futuro, quello delle scelte, è percepito come lontano o comunque non vincolabile), attualmente la situazione è decisamente peggiorata. Per un verso, l’inorientamento dei genitori (appartenenti anch’essi alla generazione di cui sopra, che certe scelte, come lavoro e famiglia, le ha fatte obtorto collo, se le ha fatte…), rende difficile ogni ragionata progettazione familiare del futuro dei figli; per l’altro, la pressione sulle famiglie (e di riflesso sui giovani) delle istituzioni economiche (il lavoro, il consumo, il “successo”, il guadagno), provoca un atteggiamento eccessivamente protettivo nei riguardi dei figli. Il rischio verso il mondo esterno, viene così assunto, fin dove possibile, dai genitori. Si tratta di un atteggiamento protettivo, al di là del bene e del male, frutto di un riflesso quasi animalesco. Ma del resto le cose non potrebbero andare diversamente: la “società del rischio” ha necessità di uomini “flessibili” incapaci di scelte nette. Ogni opzione forte è giudicata socialmente controproducente. Di qui però proviene la deresponsabilizzazione, e spesso la deriva criminale, dei giovani: 1 giovane su 10 finisce per scoprire - all’inizio quasi per gioco - il richiamo della violenza verso se stessi (si pensi alle tossicodipendenze, circa l’80 % dei tossicodipendenti è sotto i trent’anni, ma anche all’alto tasso di suicidi), e contro i coetanei e le istituzioni sociali (si pensi al fenomeno della violenza giovanile negli stadi e nelle scuole).
Pertanto alla base dell’inorientamento giovanile c’è un eccesso di protezione da parte della famiglia (che, come abbiamo visto, è apprezzata dall’87 % dei giovani), commisurato, ovviamente al reddito familiare e ad altre variabili psicologiche. All’iperprotettività vanno poi a sommarsi, nel giovane deviante (che spesso proviene anche da famiglie incomplete, genitori separati o assenti), gli insuccessi scolastici, la dispersione, le frequentazioni sbagliate, eccetera. E ogni esperienza negativa aumenta la probabilità che sia negativa anche la successiva, e così via, lungo quella che viene chiamata “carriera deviante”.
Ora, il caso dei cinque minorenni milanesi accusati di aver abusato sessualmente di una bambina di 11 anni, indica che quei giovani sono al principio di una “carriera deviante”. Un “percorso” che, malgrado le gravi colpe di cui si sono macchiati, può ancora essere invertito, considerata appunto la giovane età. Tuttavia il vero problema non è rappresentato dai figli, e neppure dai genitori puniti dal giudice, ma dal conflitto interno a una società sempre più precaria che provoca l’iperprotettività delle famiglie.
Ciò non significa assolvere genitori e figli, o sorvolare sulle responsabilità individuali, ma solo indicare un pericolo: più la vita sociale si farà precaria, più le famiglie, fin dove possibile, assumeranno un atteggiamento protettivo nei riguardi dei figli.
E continuare a condannarle, in sede giudiziaria, non servirà a nulla. E’ la società che deve cambiare. E diventare più stabile e meno schiava del profitto economico. Ma come?
Carlo Gambescia

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