Elezioni Usa 2006 , la sconfitta di Bush
La politica estera
americana cambierà ?
Bush ha perso. Ma quali sono le possibilità di un
radicale cambiamento della politica estera americana? Attenzione, non ci
riferiamo alle “sfumature” (ad esempio al ritiro del grosso delle truppe
dall’Iraq) ma a mutamenti sostanziali, come al ritiro totale ( anche dalle basi
in costruzione) e alla concessione di una reale indipendenza politica all’Iraq
“democratico”. Per non parlare poi della politica fortemente filoisraeliana.
Il problema del radicale cambiamento della politica estera Usa è un interessante problema di scienze politiche e sociali. Per quale ragione? Perché richiede un’analisi, almeno a grandi linee, dei rapporti tra strutture politiche, sociali ed economiche che ne sono alla base.
Il rapporto tra forze politiche ed economiche, intese queste ultime come grandi strutture, rinvia ai pesanti condizionamenti che le grandi imprese monopolistiche hanno esercitato sulla politica americana, in misura crescente, dalla Prima guerra mondiale. Si tratta di un dato storico. Queste forze, che al tempo delle profonde analisi di Tocqueville (1831-1832) erano minoritarie, impongono da quasi un secolo, una sola politica estera: quella dell’ espandersi fino dove possibile. Il che è provato da un serie di colossali imprese militari: Prima guerra mondiale, Seconda guerra mondiale, guerra di Corea, guerra in Vietnam, Prima guerra del Golfo, guerra del Kosovo, guerra in Afghanistan, Seconda guerra del Golfo ( e trascuriamo gli interventi “minori” in America Latina e altrove). Si tratta di un rapporto squilibrato: l’economia americana ordina la politica esegue. A causa di questo processo, e soprattutto nella seconda metà del Novecento, si è determinato un complesso industriale-militare: un blocco di interessi che si appropria, grosso modo, del sessanta per cento del Pil americano (per alcuni studiosi anche di più), il cui strapotere non può (né potrà) essere contrastato dalla politica. E qui sorge anche un interessante problema di quadri dirigenti politici. Il 90 % degli alti funzionari, che collaborano con i presidenti degli Stati Uniti, provengono da stesse élite militari ed economiche che detengono le leve del comando. Perciò presentare la sostituzione di Rumsfeld come una svolta è errato e ridicolo. Tra l’altro anche Nancy Pelosi, nuovo speaker democratico, proviene dagli stessi ambienti.
Non bisogna però ricadere nell’economicismo. Il complesso industriale-militare, ha una sua ideologia giustificatrice, che nel tempo ha assunto forza propria. Si tratta di un’ ideologia di tipo imperiale. Fondata sull’idea della assoluta supremazia del popolo americano: popolo eletto per eccellenza. Che avrebbe una sua missione da compiere, quella di “donare” al mondo intero il suo modello di vita. Si tratta di un rapporto circolare: l’ideologia rafforza gli interessi e viceversa…Per correttezza va fatta però una distinzione: per i democratici, contano gli ideali di felicità individuale, per i repubblicani gli ideali di libertà economica. Si tratta di un differenza sottile, spesso enfatizzata dai media, che in realtà rinvia a una stessa ideologia imperiale, declinata però in forme politiche differenti (attenzione, non ideologiche). Quanto all’isolazionismo, spesso invocato dai commentatori, si tratta di un’ideologia, di tipo agrario-individualistico, precedentela Prima Guerra
Mondiale, ormai fuori gioco perché priva di basi economiche e sociali reali.
Infatti i pochi politici che invocano l’isolazionismo sono in genere dei
“fuoriusciti” sociali, non più legati al complesso militare-industriale, e che
spesso vengono subito emarginati. Si pensi ad esempio a un Ross Perrot. Oppure
si tratta di gruppi estremisti, se non terroristi, completamente isolati sotto
l'aspetto sociale.
Pertanto, blocco industriale-militare e ideologia imperiale, sovrastano e guidano le scelte politiche individuali, sia dei politici in senso stretto, che del popolo americano. E qui c’è un dato elettorale da tenere presente. Vediamo quale.
In America, al di là di occasionali impennate, chi vince le elezioni, deve accontentarsi di meno della metà dei voti espressi (in media vota il 50 % degli aventi diritto). Insomma il partito che vince deve accontentarsi di meno della metà dei voti espressi. Un presidente degli Stati Uniti, ad esempio, finisce per rappresentare a mala pena un 25 % di quel 50 % che vota. Insomma raccoglie il voto favorevole di una minoranza di cittadini: circa ¼.
Insomma, nei risultati, ogni elezione riflette la struttura oligarchica del potere di cui sopra. Una struttura che non incoraggia il voto (a cominciare dalle procedure di registrazione), ma favorisce la disuguaglianza sociale, educativa e il quietismo: se sei in fondo alla scala sociale, evidentemente lo meriti, così ammonisce l’ideologia americana. E stando alle statistiche, chi non vota appartiene proprio alle fasce più povere: quelle dei “perdenti” della vita, soprattutto perché privi di titolo di studio. Del resto la distribuzione sociale della partecipazione elettorale americana riflette la scala dei redditi, e in particolare l’istruzione: più si è in alto, perché si è istruiti, più si va a votare. Il 92 % di coloro che hanno istruzione universitaria vota. Mentre non vota il 90 % di coloro che hanno un' istruzione elementare. Secondo alcune statistiche, gli alti livelli di analfabetismo e la scarsa capacità di comprendere comunicazioni scritte (problemi che riguardano quasi la metà della popolazione adulta) impedirebbero addirittura a molti cittadini di votare ( su questi aspetti si vedano i siti http://.www.electoralgeography.com/ e www.lib.uchicago.edu/e/su/govdocs/politics.html ).
Si tratta di un meccanismo infernale: più aumentano povertà e deprivazione intellettuale, meno la gente va a votare (perché non capisce, perché l’istruzione costa, perché è rassegnata, perché è abituata a ubbidire), e più cresce il potere, privo di mandato democratico delle ricche classi dominanti.
Perciò, su queste basi , sperare che gli Stati Uniti mutino la propria politica estera espansionistica, solo perché i repubblicani sono stati sconfitti nelle elezioni di midterm è molto improbabile, se non del tutto impossibile.
Il problema del radicale cambiamento della politica estera Usa è un interessante problema di scienze politiche e sociali. Per quale ragione? Perché richiede un’analisi, almeno a grandi linee, dei rapporti tra strutture politiche, sociali ed economiche che ne sono alla base.
Il rapporto tra forze politiche ed economiche, intese queste ultime come grandi strutture, rinvia ai pesanti condizionamenti che le grandi imprese monopolistiche hanno esercitato sulla politica americana, in misura crescente, dalla Prima guerra mondiale. Si tratta di un dato storico. Queste forze, che al tempo delle profonde analisi di Tocqueville (1831-1832) erano minoritarie, impongono da quasi un secolo, una sola politica estera: quella dell’ espandersi fino dove possibile. Il che è provato da un serie di colossali imprese militari: Prima guerra mondiale, Seconda guerra mondiale, guerra di Corea, guerra in Vietnam, Prima guerra del Golfo, guerra del Kosovo, guerra in Afghanistan, Seconda guerra del Golfo ( e trascuriamo gli interventi “minori” in America Latina e altrove). Si tratta di un rapporto squilibrato: l’economia americana ordina la politica esegue. A causa di questo processo, e soprattutto nella seconda metà del Novecento, si è determinato un complesso industriale-militare: un blocco di interessi che si appropria, grosso modo, del sessanta per cento del Pil americano (per alcuni studiosi anche di più), il cui strapotere non può (né potrà) essere contrastato dalla politica. E qui sorge anche un interessante problema di quadri dirigenti politici. Il 90 % degli alti funzionari, che collaborano con i presidenti degli Stati Uniti, provengono da stesse élite militari ed economiche che detengono le leve del comando. Perciò presentare la sostituzione di Rumsfeld come una svolta è errato e ridicolo. Tra l’altro anche Nancy Pelosi, nuovo speaker democratico, proviene dagli stessi ambienti.
Non bisogna però ricadere nell’economicismo. Il complesso industriale-militare, ha una sua ideologia giustificatrice, che nel tempo ha assunto forza propria. Si tratta di un’ ideologia di tipo imperiale. Fondata sull’idea della assoluta supremazia del popolo americano: popolo eletto per eccellenza. Che avrebbe una sua missione da compiere, quella di “donare” al mondo intero il suo modello di vita. Si tratta di un rapporto circolare: l’ideologia rafforza gli interessi e viceversa…Per correttezza va fatta però una distinzione: per i democratici, contano gli ideali di felicità individuale, per i repubblicani gli ideali di libertà economica. Si tratta di un differenza sottile, spesso enfatizzata dai media, che in realtà rinvia a una stessa ideologia imperiale, declinata però in forme politiche differenti (attenzione, non ideologiche). Quanto all’isolazionismo, spesso invocato dai commentatori, si tratta di un’ideologia, di tipo agrario-individualistico, precedente
Pertanto, blocco industriale-militare e ideologia imperiale, sovrastano e guidano le scelte politiche individuali, sia dei politici in senso stretto, che del popolo americano. E qui c’è un dato elettorale da tenere presente. Vediamo quale.
In America, al di là di occasionali impennate, chi vince le elezioni, deve accontentarsi di meno della metà dei voti espressi (in media vota il 50 % degli aventi diritto). Insomma il partito che vince deve accontentarsi di meno della metà dei voti espressi. Un presidente degli Stati Uniti, ad esempio, finisce per rappresentare a mala pena un 25 % di quel 50 % che vota. Insomma raccoglie il voto favorevole di una minoranza di cittadini: circa ¼.
Insomma, nei risultati, ogni elezione riflette la struttura oligarchica del potere di cui sopra. Una struttura che non incoraggia il voto (a cominciare dalle procedure di registrazione), ma favorisce la disuguaglianza sociale, educativa e il quietismo: se sei in fondo alla scala sociale, evidentemente lo meriti, così ammonisce l’ideologia americana. E stando alle statistiche, chi non vota appartiene proprio alle fasce più povere: quelle dei “perdenti” della vita, soprattutto perché privi di titolo di studio. Del resto la distribuzione sociale della partecipazione elettorale americana riflette la scala dei redditi, e in particolare l’istruzione: più si è in alto, perché si è istruiti, più si va a votare. Il 92 % di coloro che hanno istruzione universitaria vota. Mentre non vota il 90 % di coloro che hanno un' istruzione elementare. Secondo alcune statistiche, gli alti livelli di analfabetismo e la scarsa capacità di comprendere comunicazioni scritte (problemi che riguardano quasi la metà della popolazione adulta) impedirebbero addirittura a molti cittadini di votare ( su questi aspetti si vedano i siti http://.www.electoralgeography.com/ e www.lib.uchicago.edu/e/su/govdocs/politics.html ).
Si tratta di un meccanismo infernale: più aumentano povertà e deprivazione intellettuale, meno la gente va a votare (perché non capisce, perché l’istruzione costa, perché è rassegnata, perché è abituata a ubbidire), e più cresce il potere, privo di mandato democratico delle ricche classi dominanti.
Perciò, su queste basi , sperare che gli Stati Uniti mutino la propria politica estera espansionistica, solo perché i repubblicani sono stati sconfitti nelle elezioni di midterm è molto improbabile, se non del tutto impossibile.
Carlo Gambescia
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