Il libro della settimana: Giovanni Di Capua, Gianfranco Miglio scienziato impolitico, Rubbettino. Soveria mannelli 2006, pp. 299, euro
http://www.ibs.it/code/9788849814958/di-capua-giovanni/gianfranco-miglio-scienziato.html |
Per parlare di un libro, appena uscito e dedicato a
Gianfranco Miglio, scomparso nell’estate del 2001, dobbiamo prima scomodare
Niccolò Machiavelli. Per farlo volare in compagnia delle grandi aquile della
politica.
C’è una famosa lettera di Machiavelli a Francesco Vettori, in cui il grande pensatore politico, caduto in disgrazia, parla delle sue giornate trascorse all’ osteria, dove, testuale: “m’ingaglioffo per tutto il dì giocando a criccha, a triche-tach”, con “un beccaio, un mugniaio, dua fornaciai”… Ma “venuta la sera”, prosegue, “mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio”.
E’ una pagina introspettiva dove Machiavelli sfogandosi, mette a nudo le miserie quotidiane dell’ esiliato. Ora, che cosa sarebbe accaduto se gli storici si fossero concentrati solo su questi aspetti minori del suo pensiero? Sugli sfoghi politici del segretario fiorentino, vittima del ritorno dei Medici a Firenze… Oggi ne avremmo un ritratto parziale. Il che indica che le vicende politiche in cui rimase invischiato, “corredano” ma non aiutano a capire la grandezza del suo pensiero.
Ora, dispiace dirlo, ma è proprio questo, il limite principale del libro di Giovanni Di Capua, Gianfranco Miglio scienziato impolitico ( Rubbettino, Soveria Mannelli 2006). L’autore, apprezzato storico e politologo, ricostruisce in modo molto denso l’itinerario partitico di Miglio, ma ne lascia sullo sfondo il pensiero politologico. Come dire, mostra le vesti sporche di “fango et di loto”, ma non il Miglio “rivestito condecentemente” a colloquio con gli “antiqui huomini”, a partire da Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt, suoi autori elettivi. Ci sono interi capitoli dedicati al rapporto tra Migliola Democrazia cristiana
lombarda (neppure nazionale), e addirittura un capitolo intero sul non-rapporto
(pare di capire) con De Mita, e infine con la Lega. Ma nessuna
approfondita analisi della sua teoria politica. Peccato perché si tratta della
prima monografia scientifica ( o comunque con pretesa di scientificità),
dedicata al professore della Cattolica di Milano: il preside per antonomasia
della Facoltà di Scienze Politiche.
Ma c’è anche una tesi che non convince: quella dello “scienziato impolitico”. Secondo Di Capua il rapporto di amore-odio con la democrazia cristiana e poi conla Lega
riflette due caratteristiche di Miglio: “una libertà di giudizio totale,
sovente poco conciliabile con le regole, spesso non scritte, della militanza
nei partiti (…); ed il rispetto del rigore metodologico in sé e da parte del
prossimo suo”. Cosicché “il professore Miglio era, per sua stessa scelta, un
politologo impolitico, ideatore di progetti astrattamente delineati
compiutamente, ma difficili a realizzarsi concretamente col consenso largo di
altri uomini liberi come lui” (p. 44).Ora, nulla da eccepire sulla libertà di
giudizio e il rigore di Miglio. Ma se per “impoliticità” s’intende utopismo
politico, Miglio sicuramente non era “impolitico”, e resta a testimoniarlo il
famoso progetto di riforma costituzionale, elaborato nel 1983, insieme al
gruppo di Milano. Che non fu preso in considerazione, non perché astratto, ma
solo perché mancarono l’interesse e il consenso, non di uomini liberi, ma di
politici schiavi di altri interessi. Ma anche per un’altra ragione: Miglio
invitava a studiare costituzioni e stati, non sulla carta ma nel loro reale
funzionamento. A lui interessava non solo quel che un grande pensatore avesse
scritto sul concetto di stato, ma come se ne servivano concretamente un
cancelliere, un funzionario, un giudice. Di qui il suo interesse, tutt’altro
che utopistico, per il reale funzionamento delle istituzioni. Se poi, infine,
per impoliticità, s’intende la sua capacità previsionale di andare oltre l’oggi
(capacità spesso sgradita a certi politici appiattiti sul presente), allora
Miglio può essere definito impolitico, Ma come lo furono anche Machiavelli,
Hobbes, Weber e Schmitt.
C’è una famosa lettera di Machiavelli a Francesco Vettori, in cui il grande pensatore politico, caduto in disgrazia, parla delle sue giornate trascorse all’ osteria, dove, testuale: “m’ingaglioffo per tutto il dì giocando a criccha, a triche-tach”, con “un beccaio, un mugniaio, dua fornaciai”… Ma “venuta la sera”, prosegue, “mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio”.
E’ una pagina introspettiva dove Machiavelli sfogandosi, mette a nudo le miserie quotidiane dell’ esiliato. Ora, che cosa sarebbe accaduto se gli storici si fossero concentrati solo su questi aspetti minori del suo pensiero? Sugli sfoghi politici del segretario fiorentino, vittima del ritorno dei Medici a Firenze… Oggi ne avremmo un ritratto parziale. Il che indica che le vicende politiche in cui rimase invischiato, “corredano” ma non aiutano a capire la grandezza del suo pensiero.
Ora, dispiace dirlo, ma è proprio questo, il limite principale del libro di Giovanni Di Capua, Gianfranco Miglio scienziato impolitico ( Rubbettino, Soveria Mannelli 2006). L’autore, apprezzato storico e politologo, ricostruisce in modo molto denso l’itinerario partitico di Miglio, ma ne lascia sullo sfondo il pensiero politologico. Come dire, mostra le vesti sporche di “fango et di loto”, ma non il Miglio “rivestito condecentemente” a colloquio con gli “antiqui huomini”, a partire da Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt, suoi autori elettivi. Ci sono interi capitoli dedicati al rapporto tra Miglio
Ma c’è anche una tesi che non convince: quella dello “scienziato impolitico”. Secondo Di Capua il rapporto di amore-odio con la democrazia cristiana e poi con
C’è a riguardo un passo di Miglio che chiarisce bene la
sua “presbiopia” storica: “Il mio maestro Alessandro Passerin d’Entrèves quando
lavoravamo insieme, prendeva in giro me e se stesso, osservando che avevamo
almeno una cosa in comune coi dittatori allora in auge (e che odiavamo):
l’inclinazione a proiettare la politica quotidiana sulla scala di una
escatologia mondiale, e quindi a ‘ragionare per millenni’. In verità egli
insegnava a me ed alla sua scuola che uno studioso serio dei fenomeni politici
non deve perdersi nell’esegesi delle miserie personali, e quindi trasformare la
storiografia in un triste pettegolezzo” (Gianfranco Miglio risponde,
in Multiformità e unità della politica, a cura di L. Ornaghi e A.
Vitale, Giuffrè Editore 1992, p. 410). Insomma quel che è impolitico per
l’agenda politica di oggi, può essere politico per quella di domani. E guai,
inoltre, a mescolare “fango et loto” con “antiqui huomini”.
per capire l’approccio di Miglio alla politica va tenuto presente il suo essere abituato a pensare “per millennî”. A volare alto come un’aquila reale. Una “buona” abitudine, oggi in parte scomparsa tra i politologi, che ha determinato nel suo pensiero due conseguenze. Sostituiamoci perciò a Di Capua e vediamo quali.
In primo luogo, lo ha spinto a studiare le strutture invariabili della politica (“regolarità”). Ad esempio la ricerca di un dominio esterno (Tucidide); il competere degli egoismi umani (Machiavelli); la presenza nel gruppo politico di un “capo decisivo” (Bodin); la natura fittizia, ma altrettanto necessaria, al fine della rappresentanza, dello scambio protezione-obbedienza tra cittadini e potere politico (Hobbes)); la natura ciclica e minoritaria della classe politica (Mosca e Pareto); l’antitesi comunità-società (Tönnies); il ruolo delle ideologie politiche nei processi di legittimazione (M.Weber); la contrapposizione amicus-hostis (Schmitt).In secondo luogo, nel quadro di queste regolarità, Miglio colloca anche il rapporto tra uomo e potere, o se si preferisce, tra libertà, autorità e protezione, in termini di logica concreta delle istituzioni: non indaga le istituzioni dal punto vista formale come fa certo liberalismo giuridico ma ne analizza il funzionamento effettivo, come abbiamo già accennato. Il nodo teorico che Miglio si propone di sciogliere è questo: le istituzioni politiche e sociali nascono per proteggere la libertà dell’uomo, ma purtroppo nel tempo finiscono per rispondere a una propria logica interna di tipo utilitaristico e funzionale: per un verso l’obbedienza finisce per avere la meglio su protezione e libertà, e per l’altro la percezione di rendite politiche finisce per prevalere sul buongoverno. Si tratta di un processo, o ciclo, che rende le istituzioni politiche, al tempo stesso, coercitive e superate, perché non più adeguate alla realtà storica, o, ancora peggio, incapaci di tutelare le libertà concrete, a cominciare da quella economica. Di qui la necessità di istituzioni, anche di tipo federale, capaci di riflettere politicamente, quella fluidità sociale ed economica, che nel tardo Novecento, sembra segnare, secondo Miglio, la fine del ciclo politico dello stato moderno.
Probabilmente sulla questione del federalismo post-statuale il pensiero di Miglio era ed è troppo avanti. Anche perché forse sottovalutava - cosa strana per un attento lettore di Schmitt - il problema dei grandi blocchi geopolitici. Quale destino assegnare a un’Europa divisa in cantoni e regioni nell’attuale conflitto di civiltà? Un destino, sicuramente, misero… E qui appare anche il limite, non solo di Miglio, ma di certa politologia realista. Quale? Quello di ridurre lo stato moderno a un puro “complesso” di prestazioni e servizi concreti, e per contro le idealità, che incarna, a volgare ideologia. Il che non è del tutto falso: spesso gli uomini usano le idee e per mascherare gli interessi. Tuttavia l’uomo non è solo “calcoli”, ma anche passione e spesso “disinteresse”. Ma questa è un’altra storia.
Ma anche su questo nodo teorico Di Capua non si sofferma affatto, o comunque non a sufficienza, perché troppo preso a descrivere il dibattito a distanza tra Miglio e De Mita… Che, potrà pure interessare qualche lettore, ma che nulla toglie e nulla aggiunge alla comprensione della teoria politica di Gianfranco Miglio.
per capire l’approccio di Miglio alla politica va tenuto presente il suo essere abituato a pensare “per millennî”. A volare alto come un’aquila reale. Una “buona” abitudine, oggi in parte scomparsa tra i politologi, che ha determinato nel suo pensiero due conseguenze. Sostituiamoci perciò a Di Capua e vediamo quali.
In primo luogo, lo ha spinto a studiare le strutture invariabili della politica (“regolarità”). Ad esempio la ricerca di un dominio esterno (Tucidide); il competere degli egoismi umani (Machiavelli); la presenza nel gruppo politico di un “capo decisivo” (Bodin); la natura fittizia, ma altrettanto necessaria, al fine della rappresentanza, dello scambio protezione-obbedienza tra cittadini e potere politico (Hobbes)); la natura ciclica e minoritaria della classe politica (Mosca e Pareto); l’antitesi comunità-società (Tönnies); il ruolo delle ideologie politiche nei processi di legittimazione (M.Weber); la contrapposizione amicus-hostis (Schmitt).In secondo luogo, nel quadro di queste regolarità, Miglio colloca anche il rapporto tra uomo e potere, o se si preferisce, tra libertà, autorità e protezione, in termini di logica concreta delle istituzioni: non indaga le istituzioni dal punto vista formale come fa certo liberalismo giuridico ma ne analizza il funzionamento effettivo, come abbiamo già accennato. Il nodo teorico che Miglio si propone di sciogliere è questo: le istituzioni politiche e sociali nascono per proteggere la libertà dell’uomo, ma purtroppo nel tempo finiscono per rispondere a una propria logica interna di tipo utilitaristico e funzionale: per un verso l’obbedienza finisce per avere la meglio su protezione e libertà, e per l’altro la percezione di rendite politiche finisce per prevalere sul buongoverno. Si tratta di un processo, o ciclo, che rende le istituzioni politiche, al tempo stesso, coercitive e superate, perché non più adeguate alla realtà storica, o, ancora peggio, incapaci di tutelare le libertà concrete, a cominciare da quella economica. Di qui la necessità di istituzioni, anche di tipo federale, capaci di riflettere politicamente, quella fluidità sociale ed economica, che nel tardo Novecento, sembra segnare, secondo Miglio, la fine del ciclo politico dello stato moderno.
Probabilmente sulla questione del federalismo post-statuale il pensiero di Miglio era ed è troppo avanti. Anche perché forse sottovalutava - cosa strana per un attento lettore di Schmitt - il problema dei grandi blocchi geopolitici. Quale destino assegnare a un’Europa divisa in cantoni e regioni nell’attuale conflitto di civiltà? Un destino, sicuramente, misero… E qui appare anche il limite, non solo di Miglio, ma di certa politologia realista. Quale? Quello di ridurre lo stato moderno a un puro “complesso” di prestazioni e servizi concreti, e per contro le idealità, che incarna, a volgare ideologia. Il che non è del tutto falso: spesso gli uomini usano le idee e per mascherare gli interessi. Tuttavia l’uomo non è solo “calcoli”, ma anche passione e spesso “disinteresse”. Ma questa è un’altra storia.
Ma anche su questo nodo teorico Di Capua non si sofferma affatto, o comunque non a sufficienza, perché troppo preso a descrivere il dibattito a distanza tra Miglio e De Mita… Che, potrà pure interessare qualche lettore, ma che nulla toglie e nulla aggiunge alla comprensione della teoria politica di Gianfranco Miglio.
Carlo Gambescia
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