mercoledì 1 novembre 2006





Il  libro della settimana. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, Goodbye Europa, Rizzoli, Milano 2006, pp.
224, Euro 18,00

http://www.ibs.it/code/9788817021388/alesina-alberto/goodbye-europa-cronache.html

Il lettore non si spaventi se la prendiamo da lontano per recensire il nuovo libro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Goodbye Europa. Cronache di un declino economico e politico, Rizzoli, Milano 2006, pp. 224, euro 18,00), economisti, come è noto, favorevoli alle “liberalizzazioni”. E spieghiamo subito perché.
Oggi, quando si parla di liberismo, si nominano subito la Thatcher e Reagan. Magari, chi vuole apparire più colto, fa i nomi di Hayek e Mises. Mentre l’erudito risale subito al Mosè dell’economia di mercato : Adam Smith.
In realtà le cose sono storicamente più complicate. Tra Adam Smith e Reagan si possono infilare due professori di economia che negli anni Ottanta dell’Ottocento furono al centro di una disputa solo apparentemente metodologica: Carl Menger e Gustav Schmoller. Il primo, oggi, è il padre riconosciuto della “Scuola Austriaca di Economia”, e quindi maestro di Hayek e Mises. Il secondo, all’epoca, era uno dei pensatori più influenti della scuola storica tedesca di economia ma anche esponente del “socialismo della cattedra”, un mazzinianesimo in salsa tedesca. Una scuola che avrebbe comunque prodotto nel Novecento, studiosi del calibro di Max Weber e Werner Sombart. Per farla breve: Menger era dalla parte del mercato e dell’individuo interessato e calcolante, Schmoller da quella di una collettività da sostenere nei magri redditi, e indirizzare politicamente nelle scelte economiche.
In particolare Schmoller, nel corso del “Methodenstreit” ( o “disputa sul metodo”, per tradurre il parolone tedesco dell’epoca…), rimproverò a Menger di sottovalutare la storia e la natura sociale dell’economia: il mercato, notava, non nasce da una serie di decisioni individuali, ma è frutto di istituzioni, mentalità, comportamenti e decisioni politiche che influiscono se non determinano le scelte individuali. Opzioni che perciò non sono frutto di puri calcoli, come invece pretendeva Menger, ma risentono delle condizioni sociali, spesso eterogenee, delle persone. Di qui, secondo Schmoller, la necessità di introdurre due correttivi al “liberismo” mengeriano (anche se all’epoca non si chiamava ancora così). In primo luogo, bisognava favorire l’intervento pubblico per rimediare ai fallimenti sociali del mercato. In secondo luogo, era necessario affiancare all’economia pura l’economia sociale e storica, per scoprire i reali bisogni delle persone e le varie forme storiche, assunte non tanto dal mercato, quanto dall’economia tout court,
Si tratta di una polemica importante, che non si è mai spenta. Si può però dire, che sul piano storico, Schmoller abbia avuto la meglio. Di sicuro, fino agli anni Ottanta del Novecento. Dal momento che lo Stato Sociale, che tra l’altro nacque proprio nella conservatrice Germania di Bismarck e Schmoller, ha conciliato nella seconda metà del Novecento, pur talvolta tra sprechi e disservizi, mercato e stabilità sociale, assicurando così anni di progresso civile e democrazia.
Perciò, per chi è al corrente di queste cose, e dispiace dirlo, Goodbye Europa non dice nulla di nuovo sul piano teorico. Benché, pur ripetendo gli stereotipi mengeriani, introduca una variante, geopolitica, anche se ovvia: il modello preferito di Alesina e Giavazzi, che non può più essere quello dell’Inghilterra manchesteriana, è il capitalismo americano, duro e puro. Il declino europeo, in termini di ridotta produttività rispetto agli Usa, sarebbe dovuto all’assenza di un libero mercato del lavoro. Insomma, i due economisti, auspicano sostanzialmente un’ Europa che cerchi di assomigliare sempre più agli Stati Uniti, dove si intraprende e si licenzia senza tanti problemi…
Modello che indubbiamente ha i suoi vantaggi dal punto di vista economico, ma che è profondamente diverso per tradizioni e mentalità da quello europeo, che rinvia appunto a Schmoller e al capitalismo sociale… E che, in ogni caso, non si può introdurre su due piedi. Per un fare solo esempio, il liberismo thatcheriano è differente da quello di Reagan. La Thatcher, pur privatizzando e battendosi contro i sindacati, era consapevole, che una società non può fare a meno del loro apporto. Reagan un po’ meno… E questo perché? Per una semplice ragione: in Gran Bretagna il senso delle istituzioni politiche (dal sindacato al partito e allo stato), almeno prima di Blair, era più forte che negli Stati Uniti: dove, come già aveva già mostrato Tocqueville, l’individuo era e rimane una specie di “a priori” sociale.
Non per metterla di nuovo sul difficile, ma in Goodbye Europa aleggia il presupposto fondamentale del “liberismo” mengeriano ( e poi, pur con varianti, di Hayek e Mises): le istituzioni capitalistiche sono frutto degli esiti non intenzionali di azioni umane individuali, se non proprio individualistiche. Detto in soldoni, la teoria sarebbe questa: il mercante medievale, perseguendo il suo interesse, a un certo punto si accorse, che fermandosi nel cuore di un quadrivio, poteva fare buoni affari, perché c’era passaggio… Di lì, spiegano i liberisti, l’arrivo di altri mercanti, le fiere, altri clienti, la costruzione di un villaggio, di una città, di leggi per regolare il commercio, poi di unità politiche fra città mercantili, e infine dello stato moderno, il cui unico compito doveva e deve essere quello di guardiano notturno.. E, ovviamente, se a quel mercante si fosse impedito di fare propri affari, il sistema capitalistico non sarebbe mai nato…
Ora, l’esempio appena citato, può spiegare, in parte, la nascita del mercato moderno. Ma non può essere usato per spiegare ogni forma di comportamento umano. Né può spiegare fenomeni come lo sfruttamento ottocentesco (e spesso novecentesco) della manodopera, la nascita dei grandi monopoli, i crolli borsistici. Né, infine, può chiarire perché, a un certo punto, per impedire che il mercato erodesse ogni forma di solidarietà, si sia reso necessario l’intervento “intenzionale” e riparatore dello Stato con la maiuscola. Insomma, è anche una questione di buon senso: la sorte degli individui con minori probabilità di successo non può essere abbandonata agli “effetti non intenzionali” delle azioni umane: per giunta squisitamente economiche, e, dunque, fondate spesso su egoistici calcoli individuali…
In certo senso Alesina e Giavazzi, vorrebbero fare marcia e indietro, e tornare a quel quadrivio di cui sopra. Ora lo Stato Sociale è criticabile, ma perché gettare con l’acqua sporca anche il bambino? E soprattutto perché considerare “impoliticamente” l’Europa solo un grande mercato? Come quando scrivono che “ la costruzione dell’Unione europea è una storia di successi e fallimenti [e che dunque] in futuro l’Unione dovrebbe mettere da parte le illusioni, come quella di una politica estera comune, e concentrarsi invece su ciò che è davvero importante per l’Europa nel prossimo decennio: riforme [tradotto: tagli sociali e licenziamenti] che diano nuovo impulso alle economie del continente” (p. 165-166). Di nuovo la teoria del mercante in fiera…
Una “impoliticità” che emerge anche quando Alesina e Giavazzi celebrano il modello americano di melting pot: “un enorme successo economico” (p. 50), perché favorirebbe la coesione economica a danno di quella di classe, più pericolosa… Ascoltiamoli: “ La frammentazione etnica e razziale della società statunitense (in confronto alle società europee, per tradizione più omogenee) è (…) uno dei fattori chiave che spiega la diversità delle politiche distributive. In una società diversificata, dove la disparità di reddito è correlata alla razza, è più facile per i ricchi (in passato quasi sempre bianchi) vedere i ‘poveri’, spesso appartenenti alle minoranze etniche (specialmente i neri) come ‘diversi’. La solidarietà sociale è più facile in una società omogenea” (pp. 41-42). Il che spiega perché le politiche di welfare sarebbero troppo generose nell’ “omogenea” Europa… Di qui la necessità, secondo gli autori, di limitarle, favorendo l’immigrazione in Europa, e nel tempo una “diffidenza razziale” di tipo americano, che veda appunto in ogni politica redistributiva solo “un beneficio a favore delle minoranze etniche” diverse dalla propria (p. 42).
C’è di che restare basiti. Anche perché, il capitalismo, con i suoi alti bassi, come Alesina e Giavazzi ben sanno, nei momenti di crisi potrebbe trasformare la diffidenza razziale” in odio identitario e guerra civile.
No, così proprio non va. Forse è  meglio tornare a Schmoller.  O no? 

Carlo Gambescia

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