Purtroppo non abbiamo avuto l’ occasione di conoscere Lorenzo Infantino, scomparso ieri.
Nato nel 1948, calabrese, con studi economici a Siena, cattedratico di fama internazionale, già professore di scienze sociali alla Luiss e in prestigiose università straniere.
Profondissimo studioso di filosofia e metodologia delle scienze sociali, in particolare nell’ambito della sociologia e della scienza politica.
Lo conoscevamo di fama. Quindi nessun aneddoto personale. Il nostro è un ricordo cognitivo. Cioè frutto di letture.
Prima però un passo indietro. Benedetto Croce negli anni Quaranta del secolo scorso manifestò la sua contrarietà alla pubblicazione di The Road to Serfdom: una specie di plotone di esecuzione cartaceo di qualsiasi forma di collettivismo, comandato da Hayek.
Croce temeva l’identificazione tra liberismo e liberalismo. O se si preferisce non vedeva di buon occhio lo stretto legame tra il liberalismo è un determinato modello economico, sempre espressione dello spirito del tempo, già evidenziata nel suo notevole confronto, a più riprese, con Luigi Einaudi.
Croce difende una visione del liberalismo metastorica, maturata soprattutto negli anni della dittatura fascista: la storia come storia di una libertà che si nutre conflitti.
Per Croce la libertà è una specie di contenitore olistico di processi storici solo apparentemente non comprensibili, se non in chiave dello spirito del tempo, spirito che sovrasta gli uomini, soprattutto quando sono sprovvisti di laica fede nella missione metastorica della libertà.
Lunga digressione per dire che Infantino, parte invece da un impianto conoscitivo di tipo contrario, fondato sull’individualismo metodologico ( per capirsi anti-durkheimiano: semplificando l’individuo precede la società e non viceversa). Una visione legata alla potente lezione della Scuola liberale Austriaca (in primis, Menger, Mises, Hayek). Un pensiero giustamente valorizzato da Infantino con la fondazione negli anni Novanta di un’ ottima collana scientifica: la “Biblioteca Austriaca”, per i tipi di Rubbettino.
A nostro avviso al centro della ricca opera infantiniana , almeno un trentina di volumi, per non parlare di curatele e traduzioni, spicca l’idea di ordine inintenzionale.
Sotto questo aspetto incrociammo il suo pensiero, molti anni fa, approfondendo l’opera di Ortega y Gasset. Alla quale Infantino aveva dedicato acuti studi e notevoli edizioni negli anni Ottanta, culminati nel 1990 nell’ eccellente introduzione al grande pensatore spagnolo pubblicata da Armando Editore.
Probabilmente l’ottica di Infantino andava oltre lo storicismo orteghiano ( e ovviamente della metastoria crociana), che invece guardava a Dilthey e alle sue categoria semi-olistiche, di cui Ortega non diffidava come Infantino. Certo, sul punto, molto dipende da come si interpreti ,eventualmente, il concetto orteghiano di “circunstancia”. Ortega, crediamo, propendesse per la chiave olistica: l’uomo e la “sua circostanza storica”, come struttura che precede l’individuo. Che poi comunque deve reagire, in quando individuo dotato di libero arbitrio, eccetera.
Diciamo che in linea principio tra Ortega e Croce da una parte e
Infantino dall’altra, come fattore divisivo c’è il giudizio su Hegel e
di riflesso su Dilthey. Croce e Ortega, tentennano, il no di Infantino
invece è inflessibile.
Ovviamente Ortega a differenza di Durkheim, non fu mai un costruttivista repubblicano (qui la sua distanza dai modernizzatori con la dinamite del 1931, meno forse dai professori della Terza Repubblica francese). Però Ortega non era neppure un individualista metodologico. Tuttavia il filosofo spagnolo fu sempre distinto da un’ariosa apertura intellettuale di natura anti-assolutista e anti-tradizionalista fondata sull’esercizio metodico del dubbio.
Un aspetto che Infantino colse magnificamente nella sua Introduzione. Unendovi un interessante surplus cognitivo-autobiografico. Come quando, trattando il pensiero orteghiano, parla implicitamente di se stesso, al punto di scolpire intellettualmente, fra le righe, il suo cammino intellettuale. Anche futuro.
Si legga qui.
“ L’Assoluto può orientare la vita personale di ciascuno; non può però essere una credenza liberatoria. Non c’è più punto di vista privilegiato sul mondo […]. L’enigma esistenziale non può ammettere una ed una sola soluzione. Il che equivale a rendersi conto che la libera interazione fra gli individui posti sullo stesso piano dinanzi alla legge, non ha un risultato predeterminato. […] Gli uomini convivono all’interno di un ordine inintenzionale , ateologico. Questa configurazione della vita individuale e collettiva, ostile a ogni forma di eleatismo, è la formazione sociale che Ortega ha cercato di decifrare, mentre ancora la cultura europea si trovava disorientata e in piena crisi. Egli ha operato lungo la stessa direttrice delle menti più fervide del suo tempo. E, con esse, è entrato a far parte della più radicale delle comunità: quella dei classici, di coloro che ci aiutano ad essere più razionali, perché sanno sollevare nuovi interrogativi, problemi che sopravvivono al proprio tempo” (*).
Una comunità di “menti fervide”, animate per così dire dal dubbio euristico, cioè esteso alle proprie ipotesi di lavoro, il cui esercizio impone immaginazione sociologica, grandissima erudizione e umiltà conoscitiva .
Doti che mai mancarono al professor Infantino.
Carlo Gambescia
(*) L. Infantino, Ortega y Gasset. Una introduzione, Armando Editore, Roma 1990, pp. 21-22 Lorenzo Infantino – unitamente a Luciano Pellicani, altro benemerito orteghiano, diciamo così – ha fornito agli studiosi fondamentali contributi sull’opera di Ortega. Sui quali si rinvia alla bibliografia racchiusa nella sua Introduzione , pp. 165-171).
E Carlo Gambescia si sente più prossimo all'orteghiano Pellicani o all'individualista Infantino? Buona domenica
RispondiEliminaBella domanda :-) Sono pensatori che comunque stimo (il primo è macroarchico, il secondo microarchico). Scelgo l'originale, Ortega, liberale archico :-) Buona domenica anche a lei.
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