martedì 29 gennaio 2019

Sociologia dell’antiliberalismo
I profeti della paura

Cosa distingue un liberale da un antiliberale? Che il primo ritiene che  ognuno di noi sappia ciò che è bene per se stesso, mentre il secondo ritiene di  conoscere ciò che sia bene per tutti.
Si dirà che questa è una distinzione non di sociologia politica ma di filosofia politica.
In realtà  non è   così. Ad esempio,  si consideri il  “Prima gli italiani” di Salvini” o “il Prima  popolo” di Conte e Di Maio.  Si dà per scontato che le  categorie  "italiani" e "popolo"  siano un qualcosa che preceda tutto il resto.  Tradotto: quel che è bene per gli italiani e per il popolo deve essere bene per tutti. Alle minoranze che non si adeguino  restano il silenzio, e in prospettiva l’esilio, la prigione e l’eliminazione fisica.   
Sotto questo aspetto  il Dna del  populismo  e del sovranismo è totalitario, dal momento che ritiene che il  tutto debba  sempre prevalere sulla parte.  Di qui la pericolosità. Che purtroppo molti non capiscono o non vogliono capire. Probabilmente perché questi falsi profeti della società  chiusa   non sono che i classici  lupi totalitari  che amano  nascondersi  sotto le  pelli di agnello dell'amore verso il popolo disprezzato da fantomatiche élite.  Usate, ovviamente, come capro espiatorio.  
Ma, allora, se le cose stanno così,   il liberalismo, con  quell’enfasi che pone sulla libertà economica, sui diritti civili, eccetera, non cerca di imporre a tutti, come bene totalitario,  una visione liberale della società?  Non è un altro lupo, eccetera, eccetera?
Il liberalismo si limita a porre le condizioni della libertà, poi saranno i singoli a scegliere. L’antiliberalismo invece dà per scontato che i singoli non siano in grado di scegliere, e che le condizioni della libertà  siano inutili quando vanno contro la nazione o il popolo.
Ad esempio, dal mercato si può uscire, senza rischiare di essere ridotti al silenzio, esiliati, imprigionati o uccisi, dalla gabbia totalitaria, della nazione  e del popolo no.  Come ben mostra la storia della prima metà del Novecento. E, di rimbalzo, lo straordinario periodo di pace e benessere, edificato della liberal-democrazie nella seconda metà dello stesso secolo.
Ovviamente, la libertà di scelta  è faticosa, perché impone un alto senso di responsabilità.  Però, nonostante questo,  la società liberale non cessa di  credere nella possibilità che la libertà sia un utile esercizio o se si preferisce un metodo per  educare le volontà individuale alla libertà. Si chiama autodisciplina.  Qualcosa, di interiorizzato, in modo consapevole, che nessuno impone dall'alto.  
Il liberalismo accetta il rischio della libertà, che talvolta può far vincere i suoi nemici, l’antiliberalismo, rifiuta invece il rischio. E rifiutandolo uccide lo spirito  di  libertà, recidendolo fin dalle radici.
E, allora,  le prepotenze degli   oligopoli economici,  dei famigerati diritti sociali, spesso imposti dall’alto,  come si giustificano con l’esercizio della libertà?  
La questione è antropologica. L’uomo alla libertà,  di regola, preferisce la sicurezza, anche a costo di rinunciare alla libertà. La società liberale, in quanto società  aperta, è una specie di isola nell’oceano storico delle società chiuse.  
Gli oligopoli economici e il welfarismo  rappresentano dei compromessi sociali all’interno della società aperta tra liberalismo e antiliberalismo, dal momento che, per così dire, la pressione oceanica  della società chiusa è sempre fortissima  gioca sul bisogno umano di protezione e sicurezza, che purtroppo è fonte di conformismo sociale. 
Come si può ora capire in Italia stanno  prevalendo i profeti della società chiusa. Che giocano sulla paura.

Carlo Gambescia