Matteo Salvini tra autonomia della politica e stato di diritto
Sarà la magistratura a
salvarci dal populismo?
Caso Diciotti. Salvini a processo dal Tribunale dei Ministri. La
destra grida all’attacco politico, la
sinistra celebra
indipendenza della magistratura. Il Giostraio Mancato ride tra i baffi, perché vive di campagne elettorali, sicuro di farla
franca, pur gridando alla persecuzione, mentre i suoi oppositori pregustano una
possibile, ma non probabile, defenestrazione in stile Berlusconi.
Inutile tentare di difendere le ragioni degli uni e
degli altri, il problema è un altro e più profondo. Quale? Quello della
progressiva erosione dello stato di
diritto che
risale a Tangentopoli, ai processi nelle piazze televisive del 1992-1994.
A dire il vero, non è che prima dei trionfi mediatici del pool milanese, l’Italia fosse un modello di neutralità giudiziaria e politica. Ma la classe dirigente (politica e non) della Prima
Repubblica, sapeva saggiamente fin dove spingersi. Perché, una cosa deve essere chiara: la
famosa “autonomia della politica”, di cui tanto si parla oggi, non è altro che il prolungamento della
saggezza e maturità delle classi
politiche: un pre-requisito che deve distinguere e accomunare le forze di maggioranza come di opposizione. Se viene meno l’ "immaginazione del disastro", che è di natura politica (perché va a innervare la sfera decisionale), su ciò che potrebbe accadere quando il saggio equilibrio tra poteri separati viene a mancare, il sistema politico
liberal-democratico rischia di avvitarsi su stesso
e sbriciolarsi come le Torri gemelle.
Insomma, il governo delle leggi non esclude, anzi impone, l'autonomia della politica, come supplemento di saggezza, con conseguenze decisionali (dunque "autonome"). Lo stato di diritto non è un formula astratta, ma rinvia, non solo al rispetto delle procedure, eccetera, eccetera, ma alla consapevolezza, condivisa da tutte le forze politiche, che se si forza, in senso giustizialista e antipolitico, la macchina giuridica, si rischia che nessuno creda più nello stato di diritto, in quanto tale, e che vi scorga, soprattutto, uno strumento da assecondare o meno in base alle convenienze politiche. E le parole con con cui si ammantano le ragioni rappresentate, nobili o vili che siano, sociologicamente parlando, lasciano il tempo che trovano. Pareto le chiamava derivazioni. Detto altrimenti, razionalizzazioni ex post. Inutile infilarsi in una specie di termitaio ideologico.
Insomma, il governo delle leggi non esclude, anzi impone, l'autonomia della politica, come supplemento di saggezza, con conseguenze decisionali (dunque "autonome"). Lo stato di diritto non è un formula astratta, ma rinvia, non solo al rispetto delle procedure, eccetera, eccetera, ma alla consapevolezza, condivisa da tutte le forze politiche, che se si forza, in senso giustizialista e antipolitico, la macchina giuridica, si rischia che nessuno creda più nello stato di diritto, in quanto tale, e che vi scorga, soprattutto, uno strumento da assecondare o meno in base alle convenienze politiche. E le parole con con cui si ammantano le ragioni rappresentate, nobili o vili che siano, sociologicamente parlando, lasciano il tempo che trovano. Pareto le chiamava derivazioni. Detto altrimenti, razionalizzazioni ex post. Inutile infilarsi in una specie di termitaio ideologico.
L’Italia,
come detto, è su questa strada da un
pezzo. E il populismo giallo-verde, ora al governo, ne sa qualcosa. Inutile baloccarsi, su possibili fratture intra-giustizialiste tra leghisti e pentastellati: il "grasso" del potere, come si dice, è un cemento fortissimo. Ma anche le opposizioni, quanto a opportunismo giudiziario, sembra si difendano bene. Pare, insomma, che quasi tutti i politici stiano facendo del proprio meglio, come provano anche le prime pagine di oggi, per assecondare o criticare la magistratura in base alle necessità politiche del momento. E i giudici, o comunque buona parte, a loro volta, non si fanno pregare. Un bel cortocircuito.
Chi
scrive, reputa Salvini (e accoliti) un pericolo per le istituzioni. Ma la
riposta deve essere o politica, con il voto, frutto di un libero convincimento, o iperpolitica, ad esempio con un
colpo di stato, nel senso di una violazione in piena regola dello stato di diritto, in nome però dello stato di eccezione, per
poi tornare, una volta superato il pericolo per le istituzioni, alla normalità liberal-democratica.
Lasciare
invece che sia la magistratura a fare il
lavoro sporco, plaudendo in linea teorica ai grandi principi, per poi asservirli in linea pratica all’ideologia, populista o antipopulista, significa solo
accrescere la confusione, completare la distruzione dello stato di diritto, fare il
gioco degli agenti del caos, come Salvini. Che dalla distruzione
dello stato di diritto, ha tutto da guadagnare, o comunque da far mettere a profitto, volente o nolente, a coloro, probabilmente ancora più eversivi, che potrebbero farsi strada tra le macerie del terremoto populista.
Perché
quel che è riuscito, in chiave giustizialista, con Forlani, Craxi,
Berlusconi, potrebbe non riuscire con Salvini e Di Maio. Questa volta sono al
potere i populisti. E rispetto agli uomini politici della Prima e della Seconda Repubblica, esiste una differenza di
specie non di grado. Ciò significa che la reazione dei populisti alle inchieste della magistratura potrebbe essere atipica, rispetto alla routine liberal-democratica.
Cosa vogliamo dire?
Che oggi le prime pagine si occupano del Venezuela del populista Maduro, sull'orlo della guerra civile. Un mondo che però sembra lontano. In
realtà, non è così. Basta farsi un giro dalle parti di Palazzo Chigi.
Carlo Gambescia