Treccani, Machiavelli, Berlusconi e Fabio Brotto...
Con Fabio Brotto ci si frequenta da anni
sui Social. Già professore di Liceo dalla vasta cultura, alla quale unisce
grandi capaci intuitive e argomentative, frutto di
immense letture in varie lingue, e cosa più importante, ben metabolizzate.
CORAGGIO INTELLETTUALE. Perché il
coraggio intellettuale è così raro? E perché così infrequente è il coraggio
degli intellettuali? In questo ceto prevalgono di gran lunga il conformismo, lo
spirito di gregge e la codardia. Questa mattina, leggendo un post dell'amico Carlo Gambescia,
mi è venuto in mente questo pensiero: Se ne avessi il tempo e la forza, mi
diletterei a scrivere un trattatello "Del coraggio fisico e di quello
intellettuale". Poiché in tutta la mia vita ho constatato il primo essere
molto più abbondante e diffuso del secondo. Troverai molti più uomini pronti a
battersi contro la polizia in assetto di guerra che membri del ceto
intellettuale pronti ad affrontare apertamente uno scontro col proprio
superiore, o con chiunque essi avvertano come in grado di nuocer loro. Perché
tanti tra insegnanti, e cattedratici vari siano affetti da codardia congenita,
non lo so. So però che Platone sosteneva giustamente che la vigliaccheria è
generatrice di ogni altro vizio.
E certo il mondo è pieno di persone che
hanno paura delle ombre, e nella loro mente danno sostanza alle cose che non
sono, e le temono. E non temono invece ciò che è reale, realissimo, che è
dentro di loro e corrode il loro spirito e la loro mente.
(Fabio Brotto)
Va subito precisato che il suo
post prendeva spunto da un mio articolo sul “calcione” sferrato a un Berlusconi, già politicamente morente, da
un’istituzione prestigiosa come Treccani, contribuendo a trasformare
una celebrazione di Machiavelli nell’ ennesimo atto dovuto di
anti-berlusconismo (*) . Dispiace dirlo, ma le cose stanno così.
Al posto di Alessandro Campi, che
ha curato mostra e catalogo, ci saremmo subito dimessi. Altro che
figurare nel comitato scientifico di un’ operazione, per altri aspetti
senz'altro meritoria, che però - ripetiamo - ha dovuto pagare la sua libbra di
carne all’istituzionalizzazione della caccia al Cavaliere. Del resto, per
dirla con Manzoni, “il coraggio, uno se non ce l’ha, mica se lo può
dare”: la carne è debole, insomma.
E qui veniamo al post di Fabio Brotto.
Che abbiamo letto e apprezzato. Tuttavia, il
sociologo non può non muovere da premesse diverse. Quali? Deve
ragionare del coraggio, non in quanto tale, se si vuole filosoficamente,
bensì come fenomeno, per l’appunto sociologico, contestualizzandolo
all’ interno della società di massa. La chiave è la conformazione
sociale ("di massa") non quella economica (come invece
riteneva, errando, Bourdieu: la società sovietica, altrettanto
"di massa", aveva gli stessi problemi della nostra, ma amplificati
dallo strapotere del partito unico). Parliamo di un sistema sociale caratterizzato
da fenomeni mimetici e di emulazione collettiva. Dove si privilegiano,
sul piano della deferenza e della mobilità sociali, altri valori:
dall’umanitarismo al pacifismo. Parliamo, per giunta, di una
società fortemente burocratizzata e segnata da dinamiche conflittuali,
politicamente sublimate, legate però a contrasti, altrettanto
neutralizzati, tra gruppi di pressione, politici, economici,
culturali e sociali, vincolati però, a loro volta, a
forme condizionali di fedeltà, frutto di accordi pubblici e
privati, anche taciti, fonti, rispettivamente, di burocrazie effettive e
dell’anima. Insomma, non c'è la guerra sociale, in senso tradizionale, ma molto
fumo, e tossico.
Nel suo insieme, anche solo per
autodifesa, con ricadute però nella psicologia collettiva, la società
incoraggia - oggettivamente - nella migliore ipotesi il quietismo,
nella peggiore il conformismo. Sicché il coraggio, non viene assolutamente
favorito socialmente, né sul piano fisico, né su quello
intellettuale, se non quando - attenzione - lo si
collega a valori come il pacifismo e l’umanitarismo, oppure
lo si emargina nell'ambito delle attività sportive, ludiche,
ricreative (anche estreme).
In questo senso, per dirla con Fabio
Brotto, il coraggio, anche sociologicamente parlando, è l'ombra di se
stesso. Oggi, l ’uomo coraggioso
è colui che si sacrifica per gli altri. L’atto è totalmente sganciato dal
valore militare, per non parlare dello spirito guerriero. Si pensi,
ad esempio, alla metamorfosi morale subita dagli eserciti,
trasformati in strumenti di pace e assistenza alle popolazioni
(ovviamente, poi la verità si vendica, ma questa è un’altra storia…). Ecco
tutto ciò che resta della morale post-cristiana e
post-socialista: una società, non più all'ombra delle spade, ma dei
cerotti, che, al massimo, valorizza, anche in chiave
post-liberale (purtroppo), la welfarizzazione del coraggio. Il che però
non significa che si debba celebrare la società guerriera, anche
perché, considerate le premesse strutturali, non potremmo non trovarci
dinanzi la medesima società di massa, ma militarizzata.
Pertanto, dovrebbe ora
risultare chiaro, che all’interno di una struttura burocratica come Treccani,
collegata per l’occasione a un mondo altrettanto burocratico come
l’Università, in un contesto di conflitto accanito per le risorse
(materiali e immateriali, dai finanziamenti alle prestigiose direzioni
culturali), prevalga il conformismo, come regola dell'obbedienza weberiana,
verso le logiche politico-culturali dominanti, presentate come
astratte e razionali. Siamo dinanzi alle logiche iterative di una
specie di welfare della deferenza. Di qui, come omaggio dovuto
ai potenti, che redistribuiscono pani e pesci, la “pedata” a
Berlusconi.
Del resto, la società non incoraggia…
La carne è debole… Berlusconi, politicamente, mezzo morto… Avanti il prossimo.
Carlo Gambescia
(*) http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2017/09/se-politicamente-un-calcione.html