martedì 1 marzo 2016

Italiani a tavola
Sociologia della domenica



Di solito quando mi ritrovo  in famiglia o in qualche altra  occasione conviviale, mi piace osservare, se il discorso cade sull’attualità politica ed economica, le reazioni delle persone a tavola.
Di solito, da sociologo,  trovo regolarmente  conferma di atteggiamenti politici che rinviano a  quella che è la pancia -  il ceto  medio -  della società italiana. Del resto - confesso, nessuno è perfetto - questa è l' estrazione sociale delle mie frequentazioni.  
Cinque reazioni tipiche emergono su tutte le altre:  uno, la tavolata, di regola,  manifesta il più profondo disprezzo e distacco dalla politica, i partiti in particolare sono visti come responsabili di tutti mali italiani; due, si chiede quasi sempre  un pesante giro di vite nei riguardi della sicurezza (l’atteggiamento repulsivo  verso i nomadi, come ho notato, varia quasi sempre in relazione alla distanza residenziale dal centro storico, dei componenti del “gruppo a tavola”: minore se si vive in centro, maggiore in periferia); tre, si chiedono più servizi sociali, ma al contempo si critica l’elevata pressione fiscale (attribuendo il cattivo funzionamento della strutture pubbliche alla  corruzione partitica); quattro, si ritiene, manifestando una  fede  messianica nello stato  che stona con la sfiducia mostrata verso la vita politica (in generale) e la democrazia parlamentare (in particolare), che le istituzioni pubbliche,  una volta depurate dalle “scorie” partitiche,  funzioneranno meravigliosamente.
Inciso sociolinguistico: nelle conversazioni a tavola, onestà  è la parola  più frequente.   L’italiano medio è scontento.  E si sente tradito se non truffato da una politica corrotta.  Però, auto-assolvendosi (dal momento che  corruttori e corrotti,  concussori e concussi non nascono dal nulla), continua a credere con accenti granitici nella natura salvifica, quindi burocraticamente purissima, addirittura verginale, dello stato. Pertanto,  punto cinque, l'italiano teme  più del diavolo qualsiasi forma di liberalizzazione e/o privatizzazione.
Insomma,  il nostro, anche  a tavola, continua a non essere un Paese di e  per liberali.  Forse, si rimpiangono - neppure sotto sotto -  due partiti-stato:  la Democrazia Cristiana e, probabilmente, le generazioni più anziane, perfino il Fascismo-regime (non però quello “movimento” della guerra e di Salò, ricordati con  orrore). Quest’atteggiamento politico “reazionario” (“si stava meglio quando si stava peggio”,  i bei dì del fascismo e della democrazia cristiana, in versione regime) potrebbe però essere legato alla localizzazione regionale e all'età media piuttosto elevata  della mia tavolata domenicale.
Comunque sia,  un elettore siffatto o non vota, e quindi va a ingrossare le file dell’astensionismo, o se vota sceglie il partito politicamente indistinto, capace di promettere più servizi meno tasse, alimentando i  miti elettorali  del recupero dell’evasione fiscale e della razionalizzazione dei servizi pubblici.    
Un programma socio-economico, quello degli italiani a tavola,  né di destra (liberista in economia: meno tasse meno servizi), né di sinistra (socialdemocratico: più tasse più servizi). Forse di centro? Difficile rispondere. Diciamo che si tratta di una terza via  politica ed elettorale che più che altro rispecchia le caratteristiche, dal lato della domanda,  di un elettore che parteggia per l’individualismo assistito.  E che perciò finisce per influenzare  la fisionomia stessa, e quindi l'offerta,  dei partiti. Del resto, siamo o no in democrazia? E il realismo non fa guadagnare voti. Ergo, promettere tutto a tutti. Poi si vedrà.
Dispiace dirlo, concludendo,  ma gli italiani, che in fondo mostrano di essere né veri liberali né autentici socialdemocratici,  hanno ciò che meritano.   

Carlo Gambescia  


P.S. Dopo un articolo del genere, nessuno  mi inviterà più a pranzo.
    

         

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