La crisi economica tra "craze" e tentazioni dirigiste
Che cosa vogliono le Borse? O meglio le società di
investimento che vi sono dietro? Fare profitti, comprando e vendendo di tutto.
E a danno - esclusi i propri investitori - di tutto e tutti. E più la
situazione si fa instabile, più crescono i profitti speculativi. Qualcosa di
molto difficile da controllare. Come abbiamo scritto in un post precedente
( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/search?q=craze+
) siamo davanti a un fenomeno a metà strada tra sociologia,
psicologia sociale e antropologia. Ma come si dice, repetita juvant.
A cosa ci riferiamo? Al craze (mania, smania, voga). Si
parla di un atteggiamento di tipo emulativo e aggregante. Semplificando,
il craze può essere paragonato al timore di perdere il treno sul quale
tutti stanno invece salendo... Treno che potrebbe passare una sola volta ...
nella vita... Perché perderlo allora? Il concetto risale a
Neil J. Smelser, sociologo americano, autore di un dotto studio
uscito circa mezzo secolo fa (Theory of Collective Behavior,
trad. it. Vallecchi, 1968, pref. di Francesco Alberoni). Il craze, fenomeno
collettivo che secondo Smelser è possibile rilevare anche in altri
campi della vita sociale (bandwagon politico, revival religioso, moda), rimanda
come sfondo culturale alla credenza, piaccia
o meno, nella possibilità di arricchirsi. Perciò, attenzione, lo ritroviamo in
due precisi momenti: prima - in termini positivi - alla base
di un boom speculativo, dopo - con segno negativo - nella successiva fase di
fuga dagli investimenti, per non perdere quel "treno", per
restare in metafora, che ora invece va in direzione opposta.
Ma cediamo la parola a Smelser: “L’ansietà sorge dall’incertezza sugli
esiti degli investimenti abituali delle ricchezze e dall’incertezza sui modi
per valorizzare gli investimenti. Questa incertezza, comunque, non porta al
panico finché c’è del capitale con cui risolvere il problema. Questa
combinazione unica di incertezza, più una quantità di capitale, produce la
credenza generalizzata che le incertezze possano essere superate con l’uso di
adeguati correttivi” (trad. it. cit., p. 364).
La frase chiave per collegare il craze alla
crisi in corso è “finché c’è capitale con cui risolvere il
problema”. Un capitale garantito - attualmente - dai bassi tassi di interesse e
dal rifinanziamento pubblico delle banche. E qui si pensi all’ intervento Ue in
favore delle banche spagnole.
Quale alternativa? Far fallire le banche e
di conseguenza tagliare la liquidità e quindi
la stessa possibilità di finanziamento della
speculazione. A che prezzo però? Di provocare una
recessione ancora più grave di quella in atto. Un vicolo se non cieco,
molto molto stretto... Dal quale, secondo alcuni, si potrebbe uscire,
nazionalizzando le banche e introducendo misure dirigistiche. Però il dirigismo
imporrebbe il passaggio a un’economia chiusa. E qui sorge un altro
quesito: dirigismo autarchico, d'accordo, ma a quale
livello? Nazionale, continentale, mondiale? A livello nazionale sarebbe
possibile, ma con risultati disastrosi per il tenore di vita. A livello
continentale, forse, ma sotto l’egida dello strapotere politico-economico
di stati-guida e con costi sociali non indifferenti. A livello mondiale,
infine, dirigismo e autarchia, implicherebbero il ritorno a guerre
fredde, sempre suscettibili di trasformarsi in guerre calde...
Carlo Gambescia
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