mercoledì 23 novembre 2011


I soldi sono tutto?



Difficile rispondere con un sì o un no. E soprattutto quando nelle tasche della gente, come ora, di denaro non ce n’è molto. Anzi… Comunque sia, procediamo per gradi. Si può partire da Leonardo Becchetti, docente di economia, autore qualche anno fa di un interessante studio in argomento: Il denaro fa la felicità? (Laterza). Parliamo di un libro intrigante, dove ci si occupa dello studio e della misurazione della felicità, dal punto di vista delle scienze sociali, e in particolare economiche.
Abbiamo detto misurazione. Infatti, misurare la felicità, almeno apparentemente, non è più una “missione impossibile”. Dal momento che oggi è possibile stabilire alcuni punti fermi, o meno instabili, grazie a sondaggi di opinione, basati su interviste, facilmente “strutturabili” e “somministrabili”.
A dire il vero, almeno per il Novecento, la palma del pioniere-felicitologico (da felicitologia, neologismo accademico, non proprio felice), spetta a un grande sociologo : Roberto Michels. Il quale scrisse nel lontano 1918, Economia e felicità (Vallardi). Un bel testo, da allora, ma più ristampato. Peccato.
Dicevamo, si o no? Secondo le ricerche di Becchetti, sì, ma a una condizione. Che intorno all’uomo sussista un vigoroso sistema di relazioni sociali. Per farla breve: famiglia, amici, associazioni. Per dirla, poeticamente, con il grande Ezra Pound: «Vieni, compiangiamoli quelli che stan meglio di noi./Vieni, amica, e ricorda/che i ricchi han maggiordomi e non amici,/ e noi abbiamo amici e non maggiordomi. » (La soffitta, da Lustra, in Opere Scelte, Mondadori, p. 85)).
Insomma, si è felici quando si è consapevoli, individualmente che non sì è solo quel che si guadagna, ma quel che si fa per gli altri. O, ancora meglio, quel che si divide e condivide con il prossimo. Molto intriganti e calzanti gli esempi di Becchetti a proposito del volontariato. Le ricerche infatti mostrano quanto alle origini di questo fenomeno, oggi abbastanza diffuso, ci sia la gratificazione sociale e morale: il senso di fare un lavoro socialmente utile, e perciò meritorio. Come dire: la felicità non si nutre di solo pane…
E qui va aperta un’interessante parentesi sul rapporto tra altruismo, felicità e salute. Alcuni studi illustrano come il disinteresse - certo, non fino all’auto-dissoluzione - renda più felici e allunghi la vita. Gli ottimisti, coloro che affrontano la vita con il sorriso e la generosità, vivono più a lungo. Si vedano ad esempio le ricerche di Pitirim A. Sorokin, risalenti agli anni Cinquanta del Novecento, sugli effetti benefici di un sano altruismo, su se stessi e gli altri. Ricerche tra l’altro, oggi disponibili anche in lingua italiana (P.A. Sorokin, Il potere dell’amore, Città Nuova 2004) . Insomma, i soldi non sono tutto.
A questo punto, passando dal privato al pubblico, non possiamo non porci un’altra domanda: lo Stato deve promuovere la felicità dei cittadini?
In realtà, come ben sanno economisti e sociologi, si tratta di un interrogativo spinoso, perché le indagini mostrano che i singoli hanno con le politiche pubbliche un rapporto contraddittorio: per un verso i cittadini cercano la protezione dello Stato (in termini di pensioni, assicurazione sociali, eccetera), per l’altro aspirano a far coincidere la felicità con il massimo della libertà proprio dai voleri dello Stato. E soprattutto in economia (meno tasse, meno vincoli legislativi, eccetera). Di qui quella difficoltà oggettiva, da parte dei governanti, a far quadrare il cerchio tra politiche sociali e ricerca di una sfrenata libertà individuale.
Libertà che i singoli cittadini spesso cercano di perseguire, spendendo denaro, disperatamente accumulato, in beni socialmente inutili. E solo per comprarsi una egoistica “fettona” di felicità. Che malinconia.
Va perciò recuperato l’insegnamento di Albert O. Hirschman (Felicità privata e felicità pubblica, il Mulino) sul senso condiviso del bene pubblico, sullo spirito di servizio, nonché sul valore esemplare dei comportamenti di coloro che sono ai vertici. Cosa sostiene Hirschman? Che le “regole”, per quanto nobili, da sole, non bastano mai. Perché se mancano esemplarità e fiducia, le “regole” possono essere sempre violate all’insegna del famigerato “perché lui sì, io no”… Cui, inevitabilmente, segue la corsa all’arraffa-arraffa collettivo… Anche qui, che malinconia…
È dunque chiaro, quanto l’Italia di oggi, assetata di facili ricchezze, si trovi su una china pericolosa. Ecco allora, la necessità di immaginare un percorso, anche politico, per ricostruire una certa di idea di felicità al tempo stesso pubblica e privata; un’idea basata su valori come il senso della comunità, della famiglia, dei doveri professionali, della “morigeratezza”. Una felicità, insomma, non egoistica, ma capace di recepire il senso dei doveri pubblici e privati. Senza per questo scivolare nel puritanesimo morale. Una felicità, in definitiva, che sorga, non tanto ( o non solo) dal denaro percepito, quando dalla consapevolezza di aver fatto bene il proprio lavoro. Dal momento che gli studi “felicitologici”, ripetiamo, mostrano come la gratificazione morale del singolo, nasca da quel rispetto che si vivifica e cresce intorno a coloro che si “spendono”, soprattutto moralmente, per gli altri. Ma, come dire, a cuor leggero, con naturalezza. La “moneta morale”, l’unica vera moneta, deve andare e venire, tonificando i rapporti sociali.
Qualcuno ha scritto, la borsa pesante fa il cuore leggero. Non è vero, è il cuore leggero che fa la borsa pesante. Anche se, qualche volta, vuota o quasi.

Carlo Gambescia

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