lunedì 28 novembre 2011


Quel Giano Bifronte 
del liberismo economico



Che noia il chiacchiericcio sulle liberalizzazioni e privatizzazioni, altrimenti note come “riforme”… Ora, però basta. Va chiarito, anzi come si diceva un tempo spiegato al popolo, che razza di contraddizione nascondano le fin troppo rumorose fanfare liberiste. Un passo indietro: il liberismo - attenzione, non il liberalismo politico (che è altra cosa, più complessa e interessante…), ribadisce, si sa, il “primato del consumatore”. Tesi che risale alla teoria della “mano invisibile” di Adam Smith. Ridotta in pillole: il consumatore trae vantaggio dalla concorrenza fra il maggior numero di operatori economici, tutti mossi dal proprio interesse individuale, il cui perseguimento, grazie alla mano misteriosa del mercato, abilissima nel comporre le diverse motivazioni, finisce per giovare a tutti. Di riflesso, più cresce il numero delle imprese sul mercato, più il consumatore si avvantaggia, perché la concorrenza abbassa costi e prezzi... In realtà, ci si guarda bene dal proporre leggi antimonopolistiche, per porre piccoli ed ex grandi sullo stesso piano: il giusto “rovescio”, per così dire, della teoria di Adam Smith. Infatti, il pensatore scozzese ne La ricchezza delle nazioni, temendo la nascita di un “associazionismo segreto ” tra produttori ai danni dei consumatore (includendovi però ogni genere di corporazione, anche tra lavoratori…), mise in guardia i suoi lettori. In questo modo, Smith aprì concretamente alla necessità di una legislazione antimonopolistica. Un “rovescio” presto dimenticato, perché non comodo come il “dritto”.
D’altra parte, l’introduzione di una legislazione antimonopolistica, implicherebbe in linea teorica lo smembramento di quelle numerose grandi imprese italiane, presenti in campo automobilistico, bancario, finanziario, eccetera. In una parola: fantaeconomia… Anche perché, come accade in Italia, rimane molto più comodo evocare misure di liberalizzazione solo nel campo delle municipalizzate, delle farmacie, dei taxi, e così via… Tanto i “piccoli” non contano nulla.
Pertanto, il liberismo sembra essere di pura facciata. E non solo perché non vuole turbare i sonni di quelli che Ernesto Rossi, liberale vero, chiamava i “Padroni del vapore”… Ma anche per un ragione più generale: il mercato, come ogni altra istituzione sociale, tende naturalmente alla concentrazione del potere.
Si tratta di un processo che non può essere affrontato, per buttarla sul giuridichese, attraverso il controllo ex post, di tipo formale, come quello dell’Antitrust. E allora? Si dovrebbe ricorrere al controllo ex ante, sostanziale, di buone leggi antimonopolistiche in grado smembrare le grandi imprese egemoni. Il che però - ecco l’altro corno del dilemma - comporta un rischio: quello legato alla “somministrazione” di dosi, non sempre ben quantificabili, di interventismo pubblico. Come del resto prova il diverso peso specifico delle varie legislazioni antimonopolistiche (non molte per la verità), a partire dallo statunitense Sherman Antitrust Act (1890). “Somministrazioni”, da sempre sgradite ai liberisti, integrali e astratti. Ma anche agli amanti della libertà, dal momento che resta sempre difficile trovare un punto di equilibrio - che in genere è frutto delle circostanze storiche - tra giustizia e libertà. Il rischio grosso, insomma, è quello di cadere dalla padella nella brace. Detto altrimenti: di sostituire, anche in modo soft (gradualmente, nel tempo), il monopolio statale al monopolio dei colossi economici privati.
Ma c’è anche un’altra questione: di fatto, la riduzione delle dimensioni delle imprese, piaccia o meno, rischia, a sua volta, di risultare nociva proprio sul piano delle concorrenza internazionale. Dove più le imprese sono grandi, più di sono “competitive” ( proprio all’Italia, in sede europea, spesso si rimprovera certo “nanismo” imprenditoriale). In realtà, l’economia mondiale, si regge non tanto sugli interessi, quanto sulla volontà di potenza economica delle grandi imprese transnazionali, fra le quali, da ultima, va registrata la “nuova” Fiat di Marchionne.
Di qui, da che mondo (capitalista) è mondo (capitalista), il tutt’altro che silenzioso aggirarsi di un Giano Bifronte: da una parte il liberismo di facciata a uso interno, dall’altra il gigantismo monopolistico, di sostanza, per contendere i mercati esterni ai grandi colossi internazionali. Insomma, siamo dinanzi a una contraddizione fra teoria (liberista) e pratica (monopolista). Del resto, piaccia o meno, il “lavoro sporco” del monopolista resta necessario, come abbiamo ricordato, per competere sul piano internazionale. Il capitalismo liberista è perciò un cane, magari di razza, che però si morde la coda: predica quella libertà economica che è costretto a negare nella pratica, per svilupparsi e crescere, come impone il suo Dna.
E così veniamo al domandone finale: perché il capitalismo, storicamente, ha sviluppato pratiche monopolistiche? La risposta è di una banalità sconcertante: gli individui non sono tutti economicamente uguali. E per quale ragione? Perché ancora prima, piaccia o meno, non lo sono sul piano della dotazione genetica. E così i più forti, i più intelligenti o furbi ( i "lioni" e le "volpi") ne approfittano. Dopo di che, una volta al comando, dal momento che il potere socialmente tende sempre a concentrarsi nelle mani di pochi, resta molto difficile scalzare una élite dominante. Anzi, a dirla tutta, non sempre, le classi al potere hanno ceduto il passo con le buone maniere. Da questo punto di vista il teorema della concorrenza perfetta, forse può essere giustificato sul piano teorico-economico delle formule astratte, ma non su quello sociologico dei concreti rapporti di forza. In definitiva, il capitalismo - attenzione, come altri sistemi storici - si regge su un mix di forza, consenso e inerzia sociale. E questo è tutto. Il popolo è servito...


Carlo Gambescia

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