Inglese, padano o italiano? Mettetevi
d’accordo...
“Bittescèn, noyo volevàn savuàr l’indiriss... ja?”
.
Lingua
inglese, italiana o padana? Dipende. Ecco una breve cronistoria in tre capitoli
di una politica “alle vuvuzelas”, nel senso che tutti i politici soffiano nella
famigerata trombetta, mentre in realtà ognuno va per conto proprio.
Capitolo Primo. Giuliano Cazzola, vicepresidente della Commissione Lavoro della
Camera, quando l’anno scorso Calderoli per gratificare l’Umberto, tirò fuori
dal cilindro un Ddl che voleva rendere obbligatorio il dialetto a scuola, se ne
uscì così: “Con tutto il rispetto per i dialetti, gli italiani, in particolare
i giovani, hanno un handicap ben più serio: la scarsa confidenza con le
principali lingue straniere e segnatamente con l’inglese che è ormai l’idioma
del mondo. Non si trova lavoro in Europa parlando correntemente bergamasco”.
E l’italiano? Poco elegante. Cazzola pare
vestire solo in “fumo di Londra”.
Dopo di che la questione dialetti venne accantonata. Ma solo apparentemente
perché, Capitolo Secondo, di recente il “Ministero Gelminiano della Pubblica
Istruzione” nelle linee guida per i nuovi istituti tecnici, ha ribadito la
volontà di introdurre nella scuole di secondo grado lo studio del dialetto.
Nelle “schede di lavoro” relative al prossimo biennio , il Ministero chiede ai
futuri studenti dei primi due anni delle superiori “competenze”, ovvero
conoscenze generiche, in “registri dell’italiano contemporaneo, diversità tra
scritto e parlato ma anche rapporto con i dialetti”. Rivendicando: “con forza
la necessità di queste conoscenze sui dialetti e le tradizioni locali per
favorire la conoscenza dei luoghi in cui si vive, delle proprie radici”.
E l’inglese? Non sia mai. A che scopo studiare l’idioma della “Perfida
Albione”? Meglio il bergamasco.
E veniamo al Capitolo Terzo. Ieri l'altro, la Camera ha dato il via
libera alla relazione della Commissione politiche comunitarie sul programma di
lavoro per l’anno 2010. Il sì è arrivato con le sole eccezioni di Giorgio La Malfa e dei radicali
italiani. Ora però viene il bello. Nel documento, si sottolinea l’importanza
della lingua italiana e si chiede al governo di opporsi al trilinguismo che limiterebbe
la traduzione dei documenti dell’Unione europea nelle sole lingue inglese,
francese e tedesco. L’Italia, ha spiegato Andrea Ronchi, gonfiando il petto e
portando la mano sul cuore, “non potrà mai accettare ipotesi basate sul
trilinguismo”. Anche perché “l’assunto che le tre lingue considerate dalla
Commissione come procedurali siano considerate quindi lingue di lavoro non è
fondato su alcun criterio oggettivo ed è contrario alle disposizione del
Trattato”. Di conseguenza “l’Italia si oppone con fermezza a tali prassi,
opponendosi sia a livello politico che in sede giurisdizionale”. Insomma, il
ministro delle Politiche europee “è pronto a mettere il veto”. La relazione
votata a grande maggioranza impegna il governo a “contrastare con intransigenza
ogni tentativo di violazione del regime linguistico delle istituzioni dell'Ue e
di marginalizzazione della lingua italiana”. Caspita… Mica scherza l'ex An
Ronchi, il più bello, si dice, tra i ministri. Qui si fa sul serio: “Taciti ed invisibili, partono i sommergibili!/
Cuori e motori…”.
Ora però è giunto il momento di capire dove può portare la politica “alle
vuvuzelas”. Riassumendo: a scuola Cazzola vuole l’inglese, la Gelmini e la Lega strepitano per il
dialetto, mentre l’intero Parlamento invoca in Europa l’uso dell’ italiano. Ma
se in classe i nostri ragazzi studieranno solo l’inglese o solo il dialetto, o
una sorta di “italobergalese”(italiano, mettiamo bergamasco più inglese) in
Europa, ammesso pure che i burocrati della Ue, per evitare i “siluri” di
Ronchi, acconsentano all’uso “procedurale” della lingua italiano, come finirà?
Cioè in che lingua parleranno gli italiani a Bruxelles. Di sicuro quella di
Totò e Peppino a Milano: “Bittescèn, noyo
volevàn savuàr l’indiriss... ja?”.
Carlo Gambescia
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